TESI DI LAUREA in Chimica e tecnologia del restauro e della conservazione dei materiali
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Indice generale
1. Il restauro architettonico.........................................................................................................5 1.1 Il degrado dei materiali architettonici..............................................................................5 1.1 La pulitura........................................................................................................................7 1.2 Il consolidamento...........................................................................................................12 1.3 La protezione..................................................................................................................14 2. La scienza della conservazione ............................................................................................16 2.1 La scienza della conservazione nel tempo.....................................................................16 3. Le nanotecnologie.................................................................................................................22 3.1 Nanoscienza e nanotecnologia: potenzialit e sviluppo.................................................22 3.2 I nanomateriali: caratteristiche e propriet ....................................................................27 3.3 Tecnologie di produzione dei nanomateriali..................................................................28 4. Le nanocalci e le nuove frontiere per il restauro...................................................................32 4.1 Cenni storici sull'uso della calce nel patrimonio culturale.............................................32 4.2 Il metodo Ferroni Dini (o Metodo del Bario)..............................................................37 4.3 Dal Metodo Ferroni-Dini alle nanocalci........................................................................47 4.4 Preparazione delle nanocalci..........................................................................................50 4.4.1 Preparazione di nanocalci in dispersioni acquose .................................................50 4.4.2 Preparazione di nanocalci mediante dioli...............................................................53 4.4.3 Preparazione di nanocalci in dispersioni alcoliche ................................................57 4.5 Propriet e metodo applicativo delle nanocalci..............................................................61 4.6 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalce in Italia ..................72 4.6.1 Gli affreschi del complesso Agostiniano di Santa Maria delle Grazie di Gravedona (CO).................................................................................................................................72 4.6.2 Gli affreschi di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (Chiostro Verde nella basilica di Santa Maria Novella a Firenze).............................................................80 4.6.3 Gli stucchi della Cappella della Madonna di Lourdes nella Chiesa di S. Giovanni Evangelista di Venezia.....................................................................................................82 4.6.4 Gli affreschi della Cappella del Podest al Museo del Bargello di Firenze...........86 4.6.5 Gli affreschi della cripta di San Zeno a Verona......................................................90 4.7 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalci nel mondo...............96 4.7.1 I dipinti murali dei siti archeologici Maya in Messico ..........................................96 4.7.1.1 Dispersioni di nanocalce per il consolidamento dei dipinti murali di Calakmul
III
...................................................................................................................................109 5. Il nanoidrossido di stronzio.................................................................................................114 5.1 Il nanoidrossido di stronzio: propriet, sintesi e applicazioni......................................114 6. La nanosilice.......................................................................................................................119 6.1 La nanosilice: propriet e metodi di sintesi..................................................................119 6.1 Applicazioni della nanosilice in edilizia e nel restauro................................................122 6.1.1 Esempio di applicazione della nanosilice per il consolidamento di una calcarenite molto porosa..................................................................................................................126 6.1.2 Esempio di applicazione della nanosilice nel sito archeologico di Tajin in Messico .......................................................................................................................................131 7. Il nanobiossido di titanio ....................................................................................................136 7.1 La fotocatalisi contro l'inquinamento atmosferico......................................................136 7.2 Le propriet fotocatalitiche del nanobiossido di titanio .............................................145 7.2.1 Metodi di sintesi...................................................................................................152 7.3 Applicazione del nanobiossido di titanio in edilizia ....................................................153 7.4 Applicazione del nanobiossido di titanio nel restauro .................................................154 7.4.1 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su travertino......................155 7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su marmo ..............................159 7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su pietra leccese ...............164 7.5 Impatto ambientale del nanobiossido di titanio............................................................166 Conclusioni.............................................................................................................................169 Non ringraziamenti ................................................................................................................171 Bibliografia.............................................................................................................................173
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1. Il restauro architettonico
1.1 Il degrado dei materiali architettonici I manufatti artistici, polimaterici complessi costituiti da diverse stratificazioni, rappresentano dei sistemi i cui materiali sono soggetti ad un naturale degrado. Il degrado naturale, processo inarrestabile, ha comunque una sua dignit e spesso conferisce alle opere tratti che ne possono aumentare il fascino, ma l'invecchiamento che avviene prematuramente per cause patologiche le deturpa e le disgrega [1]. La causa principale di questo deterioramento va ricercata nelle interazioni fisiche e chimiche tra l'opera d'arte e l'ambiente circostante: croste nere, erosione, patine biologiche, efflorescenze e distacchi sono solo alcuni dei meccanismi di degrado che si innescano a causa dell'inquinamento da combustibili, dei batteri, dei cloruri e dei gas presenti nell'atmosfera [2]. Le patologie pi frequenti negli intonaci e negli strati pittorici, anche in virt dei modificati elementi inquinanti presenti nell'atmosfera, hanno come caratteristica accomunante la perdita di coesione dei vari costituenti per il venire meno della funzione legante del carbonato di calcio, con la conseguente caduta di particelle di pigmento, sfarinature d'intonaci e piccoli collassi meccanici della struttura. I materiali lapidei invece devono il loro deterioramento principalmente all'azione dell'acqua, sia piovana che di condensa: essa agisce attraverso fenomeni fisico-meccanici (come il gelo/disgelo) ma anche, soprattutto, mediante lattacco chimico, in quanto veicola le sostanze aggressive presenti nellatmosfera (anidride carbonica, ossidi dazoto e anidridi dello zolfo) attraverso i pori della pietra stessa per effetto della capillarit, aumentandone la porosit complessiva. Questo porta, a lungo andare, a manifestazioni di alveolizzazione, corrosione, distac-
chi ed esfoliazioni [3]. Anche il calcestruzzo, materiale da costruzione piuttosto recente largamente usato in Italia, soggetto a meccanismi di degrado: difetti del materiale (sbagliato rapporto acqua/cemento, presenza di sostanze espansive, carenze nella posa in opera) o cause estrinseche (dilavamento, presenza di sali solubili e cicli di gelo-disgelo) possono generare corrosione delle armature, attacco chimico ed efflorescenze. Tutti questi processi, chimici e fisico-meccanici, possono essere piuttosto complessi termodinamicamente e cineticamente e possono portare il manufatto ad alterazioni che, in assenza di un intervento in grado di fermare il lento degrado, potrebbero comportare conseguenze negative importanti, fino alla perdita totale dell'opera. Segue che una dettagliata conoscenza della natura dei materiali usati dagli artisti, incluse le propriet comportamentali di questi materiali, deve essere una componente fondamentale per l'applicazione dei metodi restaurativi e per la conservazione dei manufatti a lungo termine. Per questi motivi un intervento di restauro, poich si applica ad opere di valore artistico e di importanza storica, deve seguire criteri e metodi rigorosi. L'atteggiamento principale deve essere di profondo rispetto per l'opera: il restauro migliore quello che appare meno, in modo che l'opera sembri originale. L'oggetto per non deve risultare, alla fine dell'intervento, cos come era in origine, ma, se un'opera antica, il passaggio del tempo deve essere riconoscibile, essa cio non deve sembrare nuova. Normalmente un'opera d'arte denuncia due tipi di problemi: quelli che riguardano la micro-struttura e quelli che riguardano il suo aspetto e risiedono soprattutto nella superficie. I primi possono richiedere delicate operazioni di consolidamento della micro-struttura, perch l'opera mantenga la sua solidit. I secondi rendono necessario pulire la superficie, proteggerla, ed eseguire eventualmente delle integrazioni [4]. Le caratteristiche degli interventi si distinguono naturalmente a seconda dei materiali e delle tipologie di oggetti con cui si ha a che fare, 6
per alcune metodologie sono comuni: ogni intervento presuppone sempre uno studio accurato dell'opera, sia dal punto di vista storico che dei materiali, da compiere anche grazie a indagini tecnicoscientifiche. Questa importante fase preliminare nota come diagnostica, determinante per l'intervento di restauro, in quanto solo grazie alla raccolta, pi ampia possibile, di notizie storiche e analisi a carattere scientifico che si pu impostare in maniera corretta l'intera operazione di restauro. Dato che i manufatti storici sono considerati unici e insostituibili, necessario inoltre che questa indagine non sia invasiva, o che al massimo impieghi tecniche di microcampionamento [5]. Attualmente la ricerca sta dando diversi contributi in questo campo, con progetti dedicati al miglioramento delle tecniche analitiche per l'accertamento diagnostico e l'identificazione delle cause e degli effetti dei processi di degrado. Le informazioni ottenibili con le metodologie diagnostiche non sono di facile interpretazione, per questo risulta estremamente utile che l'esecuzione degli esami sia fatta, per quanto possibile, dal restauratore stesso: questi, via via che procede nell'esecuzione materiale dell'intervento, potr rielaborare e interpretare correttamente ci che le indagini gli hanno mostrato, e potr valutare con precisione quando e in quali zone eseguire nuovamente gli esami e gli eventuali prelievi da sottoporre all'indagine del laboratorio chimico [6]. Conclusa l'analisi diagnostica, l'operazione di restauro prosegue con tre momenti principali che si possono definire, in ordine temporale, di pulitura, consolidamento e protezione. 1.1 La pulitura La pulitura l'operazione finalizzata alla rimozione di tutto ci che inadeguato o dannoso alla conservazione del materiale. Le sostanze che si depositano su un'opera d'arte possono avere diversa 7
origine: il naturale invecchiamento (sporco e polvere), batteri e funghi (che portano alla formazione di patine biologiche), croste nere, eventi straordinari (fango e terra dalle inondazioni o altri eventi catastrofici), errati interventi di restauro, o addirittura il volere dello stesso artista, come nel caso di vernici che degradano e scuriscono nel tempo e devono essere periodicamente sostituite. A volte si manifesta anche la necessit di dover rimuovere film polimerici che nel passato venivano applicati sulle superfici pittoriche con funzione protettiva. Ad esempio quando la superficie di un dipinto su supporto murario coperta con un film polimerico (principalmente resine acriliche e viniliche), tra i pori del dipinto stesso ha luogo la cristallizzazione dei sali, che conduce a un forte stress meccanico per lo strato pittorico, portando l'opera d'arte alla totale distruzione in pochi anni a seconda delle condizioni ambientali. In aggiunta al degrado del supporto, l'invecchiamento del polimero produce drastici cambiamenti nelle propriet fisico-chimiche dei costituenti inorganici del dipinto e del polimero stesso (ad esempio la permeabilit al vapore acqueo diminuisce, la solubilit e le propriet meccaniche si riducono anch'esse drasticamente, il colore cambia con il passare del tempo) rendendone necessaria l'immediata rimozione (Fig. 1).
Fig. 1: dipinto murale nel Tempio de los Nichos Pintados a Mayapan (Yucatan). Le immagini mostrano il degrado dall'ultimo restauro del 1999 in cui si applicato uno strato protettivo con una resina acrilica (Mowlilith DM5) [7].
E' evidente quindi come la pulitura rappresenti la fase pi delicata e rischiosa alla quale pu essere sottoposta un'opera d'arte, dato il suo carattere completamente irreversibile. Durante la sua esecuzione, particolare attenzione viene infatti posta nell'impedire il deterioramento del supporto sano e il rilascio di sottoprodotti dannosi; inoltre deve essere effettuata rispettando gli strati sovrapposti nel tempo che possono rivelarsi significativi come testimonianza storica delle vicissitudini subite dallopera. Non un caso che in relazione a questo particolare intervento siano spesso sorte aspre polemiche che, oltre ad aver messo in luce i possibili danni connessi all'operazione, hanno anche reso evidente come non esistano e difficilmente potranno mai esistere norme precise a cui attenersi, ma si debba forzatamente affidarsi - caso per caso - alla competenza e alla sensibilit di chi materialmente deve eseguire la pulitura [8]. Le tecniche sono diverse a seconda del tipo di degrado da trattare e sono principalmente suddivise in due grandi gruppi: la pulitura meccanica e la pulitura chimica. Fanno parte della pulitura meccanica tutte quelle tecniche che sfruttano la forza meccanica dell'acqua, spruzzata ad una certa pressione, e la forza abrasiva della sabbia. A seconda della pressione utilizzata si avr ovviamente un sistema pi o meno distruttivo. La pulitura chimica consiste invece nell'applicazione di soluzioni acquose ad azione solvente pure o additivate con detergenti, tensioattivi, resine a scambio ionico. In questo settore gli sforzi della ricerca sono numerosi e finalizzati alla messa a punto di soluzioni sempre pi rispettose nei confronti dei materiali sui quali si interviene, che, ovviamente, si trovano sempre in condizioni pi o meno precarie. A dispetto dell'apparente semplicit, la pulitura un problema impegnativo sia per i conservatori che per gli scienziati. I primi devono valutare l'opzione di rimozione di alcuni materiali da un'opera d'arte sulla base di considerazioni storiche, estetiche e a volte filosofiche, mentre i secondi devono fornire un metodo efficace e sicuro per compiere 9
questa operazione. Nei secoli passati, gli artisti e i primi conservatori hanno sperimentato quasi ogni tipo di possibilit per trovare agenti pulenti efficaci. I tradizionali metodi di pulitura includevano l'uso di vino, aceto, succo di limone, cipolla e aglio [9]. Queste formulazioni contenevano gi quasi tutte le classi di componenti e principi attivi usati nelle moderne sostanze pulenti, anche se il contributo di ogni ingrediente al risultato finale del processo essenzialmente non era ben definito. L'aceto ad esempio, con il suo contenuto di acido acetico, era un efficace e potente agente pulente in grado di dissolvere materiali altrimenti insolubili con un pH pi alto. La saliva invece rappresenta tuttora uno dei sistemi di pulitura pi completi e complessi mai impiegato, infatti ancora usata una sua versione sintetica non biodegradabile. Oggi tra gli strumenti tradizionali a disposizione per le operazioni di pulitura, i solventi organici sono forse quelli con cui il restauratore si sente pi a proprio agio: apparente semplicit e prevedibilit dell'azione, basso costo e, considerando la variet di materiali sui quali possono funzionare, discreta efficacia [10]. La disponibilit di una grande scelta di questi prodotti ha aperto nuove prospettive per le operazioni di pulitura, ma al giorno d'oggi la maggior parte dei solventi organici non rappresenta la migliore soluzione, a causa della loro tossicit e della difficolt di riciclo [11]. E' inoltre interessante notare come i solventi con maggiore potenziale di aggressivit per l'opera d'arte spesso siano anche i pi tossici per l'organismo umano [10]. Fino a pochi anni fa il possibile rischio per la salute dell'operatore e la sicurezza dell'ambiente di lavoro erano problemi poco considerati e sottovalutati. Ma oggi ampi settori industriali, dal punto di vista economico molto pi rilevanti del settore delle belle arti e del restauro, stanno gi affrontando questo problema ed effettuando una parziale o completa conversione al mezzo acquoso: si pensi ad esempio alle pitture a solvente che sempre pi si trasformano in pitture allacqua. Attualmente esistono diversi sistemi di pulitura efficaci che permetto10
no di ottenere ottimi risultati senza incorrere nei problemi di tossicit, come i sistemi micellari a base acquosa e le microemulsioni (pure o combinate con gel) (Fig. 2). Le micelle sono aggregati di molecole in fase colloidale con propriet tensioattive e anfifiliche (ovvero contengono sia gruppi funzionali idrofobici che idrofili) mentre una microemulsione un sistema termodinamicamente stabile e isotropo formato da acqua, olio e un tensioattivo. L'uso di questi sistemi acquosi nanostrutturati permette di effettuare un'operazione di pulitura controllata e selettiva e soprattutto a bassa tossicit. Un'altra importante caratteristica che alcuni polimeri, che una volta invecchiati diventano insolubili o appena solubili nei solventi, sono spesso invece rimovibili mediante l'uso delle microemulsioni [11]. Queste soluzioni possono inoltre essere utilizzate incorporate in gel, sistemi versatili che si adattano facilmente alla pulitura di qualunque opera d'arte (Fig. 3).
Fig. 2: rappresentazione schematica di una micella (A) e una microemulsione olioin-acqua (B); le teste polari idrofiliche sono disposte verso la fase acquosa [11].
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Fig. 3: Oratorio San Nicola al Ceppo, Firenze. Porzione dell'affresco dove sono state effettuate prove di solubilizzazione mediante microemulsioni, prima (A) e dopo (B) l'applicazione del sistema disperso [12]
1.2 Il consolidamento Loperazione di consolidamento ha lo scopo di ridare adesione, coesione e compattezza, migliorando cos la resistenza meccanica della struttura. Il trattamento si effettua mediante l'impregnazione con un prodotto che, penetrando in profondit, migliora la coesione del materiale alterato e l'adesione fra questo ed il substrato sano. La prassi operativa e gli studi condotti nel settore hanno permesso di definire una serie di propriet da richiedere al consolidante. Esso deve avere: bassa forza adesiva buona penetrazione nella struttura decoesa affinit con il materiale su cui applicato buona capacit d'aggregazione buona resistenza all'invecchiamento
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modificare la naturale permeabilit al vapore del substrato modificare le caratteristiche ottiche delle superfici su cui applicato essere causa di proliferazione di biodeteriogeni
Nelle caratteristiche richieste ai consolidanti non si indicata la reversibilit perch, anche se il prodotto ha questa propriet, una volta penetrato nella struttura porosa dei manufatti non potr essere rimosso in modo completo e pertanto di fatto sar non reversibile. Sarebbe auspicabile invece che il trattamento eseguito possa essere ripetuto anche dopo diversi anni e con prodotti diversi, pertanto il requisito di reversibilit potrebbe essere sostituito con quello della ritrattabilit [13]. Se si prende in considerazione il caso dei materiali lapidei, un buon prodotto consolidante deve quindi venire assorbito uniformemente, raggiungere tutto il materiale alterato, consolidarlo e collegarlo alla pietra sana pi interna senza produrre discontinuit, ma formando con essa un corpo unico. Deve altres conservare inalterati l'aspetto e i valori cromatici del materiale originale, non deve provocare variazioni significative di dilatazione termica, modulo elastico e permeabilit al vapore e non deve provocare la formazione di sottoprodotti secondari dannosi. I consolidanti attualmente utilizzati possono essere classificati in due gruppi, a seconda della natura chimica, cio in consolidanti inorganici e organici . I primi sono composti che vengono veicolati nei pori del materiale degradato in soluzione acquosa o alcolica e che, per reazione con un componente dellambiente, danno luogo ad un precipitato insolubile, che si deposita allinterno dei pori. I consolidanti organici invece sono sostanze polimeriche, che vengono veicolate allinterno del materiale degradato sciolte in un solvente organico e che formano un film continuo sulle pareti interne dei pori, per semplice evaporazione del solven-
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te stesso (se termoplastici) o per reticolazione (se termoindurenti). Tra i consolidanti inorganici, a titolo di esempio, si pu citare lidrato di bario che, veicolato in soluzione acquosa, reagisce con lanidride carbonica dellaria per formare allinterno dei pori un precipitato di carbonato di bario, insolubile. Come sottoprodotto della reazione si forma semplicemente acqua che evapora attraverso i pori del materiale. Un secondo esempio interessante il silicato di etile, veicolato in un solvente organico, il quale subisce una reazione didrolisi che porta alla precipitazione di silice; come sottoprodotto della reazione si forma alcol etilico, molto volatile. I consolidanti organici sono invece composti polimerici, che appartengono a classi diverse: polimeri acrilici, siliconici e fluorurati. Ovviamente non esiste un consolidante ideale che abbia contemporaneamente tutte le caratteristiche richieste, ma si dovr di volta in volta scegliere il consolidante pi appropriato. 1.3 La protezione L'ultima fase che conclude l'intervento di restauro la protezione, effettuata stendendo sulle superfici prodotti chimici trasparenti e idrorepellenti o strati coprenti di patinature o dintonaco, con lo scopo di realizzare una superficie di sbarramento contro laggressione degli agenti chimici e degli inquinanti atmosferici. Generalmente vengono utilizzati composti polimerici che, se opportunamente scelti, hanno un'elevata idrorepellenza grazie all'alto valore dell'angolo di contatto. Le classi dei polimeri ordinariamente impiegati sono principalmente tre: acrilici, siliconici e fluorurati. I polimeri acrilici hanno prezzi molto bassi, ma qualit modeste, sia per quanto riguarda la stabilit, sia per quanto riguarda lidrorepellenza; i fluorurati hanno stabilit eccezionale e valori dellangolo di contatto molto elevati, ma il costo eccessivo per la maggior parte dei casi. I siliconici invece rappresentano 14
un buon compromesso tra qualit e costi [14]. E' importante che il prodotto non cambi colore con il passare del tempo, infatti gli obiettivi di questultima operazione non sono solo di carattere conservativo ma anche estetico, dovendo in alcuni casi attenuare macchie, pellicole o stuccature inamovibili dal colore particolarmente accentuato, per raggiungere un giusto equilibrio cromatico dinsieme [4].
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le, in modo che in qualunque momento si possa tornare allo stato originale dell'opera d'arte (si deve cio poter eliminare il materiale usato per la protezione, ci significa che alcune sostanze sono assolutamente proibite, come le resine epossidiche che sono insolubili) [15]. La prima considerazione, ovvero il concetto di compatibilit tra il materiale originale e il materiale applicato, stata in realt ignorata per diversi anni in maniera pi o meno consapevole in molti interventi di restauro, producendo effetti drammatici sulle opere d'arte [16]. Nel consolidamento dei dipinti murali, ad esempio, sono stati a lungo impiegati fissativi organici sintetici, polimeri e copolimeri vinilici o acrilici (come il Paraloid B72), i quali presentano una notevole diversit chimica e strutturale rispetto ai supporti minerali su cui sono applicati. Questi prodotti sono costituiti da polimeri ad elevato peso molecolare che formano molecole con dimensioni pari o superiori al raggio dei micropori presenti nei materiali da trattare. L'azione consolidante dovuta al loro spiccato potere adesivo: penetrando attraverso i macropori e le microfratture presenti in un manufatto decoeso essi ne rivestono pi o meno continuamente le pareti legando tra loro gli elementi minerali, riducendo la permeabilit al vapore delle superfici trattate e conferendo loro una pi o meno spiccata idrorepellenza. Naturalmente anche le propriet fisiche dei consolidanti organici sono diverse da quelle dei supporti minerali su cui sono applicati, come ad esempio i coefficienti di dilatazione e le propriet elastiche. Pertanto il comportamento nel tempo della struttura trattata non del tutto chiaro anche per via delle molteplici varianti che possono intervenire [13]. Nonostante questo i consolidanti organici ancora oggi trovano talora impiego e numerosi lavori ne evidenziano le caratteristiche negative: il loro basso costo, la loro facilit d'uso e i risultati apparentemente positivi ottenuti immediatamente dopo l'applicazione possono dare una ragione della loro ancora diffusa applicazione. Inizialmente infatti una sperimentazione di Feller [17] su oggetti espo17
sti alla National Gallery (USA) li classificava come adatti ai Beni Culturali in quanto non davano significative variazioni di colore e, soprattutto, erano considerati reversibili fino a 100 anni. Ma facile capire che tale sperimentazione evidenzi una buona durabilit proprio perch fu condotta su materiali esposti in ambienti museali e non all'aperto. Recenti lavori hanno infatti confermato la scarsa stabilit e perdita di efficacia dei polimeri acrilici dopo invecchiamenti sia artificiali che naturali [18]. Questi prodotti si alterano nel tempo variando le proprie caratteristiche chimiche, cromatiche e meccaniche; inoltre presentando un'incompatibilit di base con il substrato inorganico delle opere, innescano una serie di meccanismi di degrado estremamente pericolosi per la conservazione del materiale originale, come la perdita di coesione tra i vari strati del dipinto con conseguente esfoliazione o distaccamento dello strato pittorico, fenomeni che causano una forte alterazione sia dal punto di vista meccanico che estetico [16]. Un chiaro esempio di questo comportamento costituito dagli affreschi Maya di Cacaxtla, in Messico, dove l'invecchiamento del polimero acrilico (Paraloid B72) utilizzato in un precedente intervento di restauro come consolidante, ha causato il danneggiamento del dipinto. La resina polimerica acrilica consisteva in una pellicola sottile che funzionava da collante: il dipinto sembrava tornare come nuovo perch la pellicola otturava i pori e impediva la diffrazione della luce che penetrava nelle porosit del muro e opacizzava la superficie [19]. Ma avendo il materiale organico caratteristiche chimico-fisiche molto se non completamente diverse dal supporto inorganico, la pellicola si degradata velocemente e il suo restringimento ha sollevato e distaccato lo strato pittorico, manifestando inoltre un forte ingiallimento che ne alterava notevolmente l'aspetto estetico (Fig. 4). In casi come questo l'intervento stesso che distrugge l'opera d'arte. In un luogo in condizioni climatiche temperate un affresco restaurato pu conservarsi dai 20 ai 50 anni, ma in Messico un dipinto pu andare 18
perduto anche in due o tre anni. L'invecchiamento dello strato polimerico inoltre non porta solo ai problemi sopraccitati ma altres tende a minare l'altro punto cardine della teoria del restauro: il concetto di reversibilit di un intervento.
Fig. 4: dipinto murale denominato Della Battaglia a Cacaxtla, Mexico, dopo l'ultimo intervento di restauro. La freccia indica l'area (in basso un ingrandimento) in cui non stato ancora rimosso il polimero acrilico (Paraloid B72) [20]
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Spesso, infatti, i polimeri invecchiati risultano essere solo parzialmente solubili nei solventi d'elezione e questo rende particolarmente difficoltoso un eventuale processo di rimozione di tali sostanze [21]. E' evidente quindi che un prodotto organico, anche se pu risultare un buon adesivo e reversibile in tempi brevi, non pu considerarsi un buon consolidante per un materiale lapideo esposto all'aperto. I consolidanti inorganici presentano invece una notevole affinit chimica e fisica con i supporti minerali, un'elevata durabilit nel tempo e, se applicati correttamente, permettono la ripetibilit del trattamento. La loro azione consolidante avviene generalmente attraverso la precipitazione di un nuovo composto scarsamente solubile all'interno dei pori che formano il reticolo capillare della struttura da trattare, riducendo i vuoti dovuti al degrado della matrice. La conseguente riduzione di porosit non altera sostanzialmente la struttura, la sua idrofilia e la bagnabilit della superficie. L'applicazione di tali prodotti presenta talvolta degli inconvenienti, ma in linea di principio i fissativi di natura inorganica sono sempre da preferirsi proprio in virt delle notevoli garanzie di durevolezza e resistenza agli agenti esterni. L'idrato di calcio ad esempio da considerarsi la sostanza consolidante ottimale per tutti i materiali litoidi a matrice carbonatica (in particolare gli intonaci) e ogni intervento di restauro inteso come ripristino dello status originale dell'opera, non pu, in linea di principio, prescindere dall'uso di tale materiale [22]. I prodotti a base di calce infatti, carbonatandosi all'interno del materiale lapideo, ne ricostruiscono solidamente la micro-struttura senza causarne le alterazioni chimiche e fisiche proprie invece dei consolidanti organici. Tuttavia tale tipo di consolidamento si scontra con alcune grosse problematiche: la scarsa penetrazione in profondit, la formazione di carbonato di calcio con scarsissimo potere consolidante e l'incompleta carbonatazione dell'idrossido. 20
Per superare questi limiti si stanno conducendo numerose ricerche finalizzate allo studio di soluzioni alternative che permettano di continuare ad utilizzare prodotti compatibili con i materiali utilizzati nelle opere d'arte che non comportino le grosse limitazioni date dai prodotti a base di calce. Ad esempio un composto inorganico in fase di studio per l'applicazione sui materiali lapidei lossalato dammonio, che produce una passivazione dei granuli di carbonato di calcio trasformandoli parzialmente in ossalato di calcio e conferisce al contempo una protezione idrorepellente al supporto [22]. Anche il silicato di etile ha dato discreti risultati: la prima idea di impiego come consolidante per materiale lapideo risale alla met dell'800 con il chimico tedesco A. W. Von Hoffman [23], fino ad arrivare al brevetto Conservare-OH della Wacker del 1960 [18]. Questo composto dovrebbe legarsi con legame chimico con il substrato lapideo contenente gruppi -OH, quindi essenzialmente con le pietre silicatiche, producendo cos un effetto consolidante. Vari studi ne hanno per evidenziato diverse problematiche: la fragilit, il ritiro in fase di asciugamento con conseguente fessurazione, la scarsa efficacia con substrati carbonatici e infine un comportamento molto discusso con i materiali argillosi (sia nelle pietre carbonatiche che in quelle silicatiche). Soluzioni interessanti sembrano essere offerte dal settore delle nanotecnologie, un campo relativamente nuovo e ancora in fase di approfondimento, ma che sta dando ottimi risultati sia nel restauro architettonico che nelle applicazioni in edilizia. Nei trattamenti di nanoparticelle, infatti, nonostante la chimica sia la stessa di quelli tradizionali, grazie alle dimensioni nanometriche le propriet e i comportamenti della materia cambiano, e non comportano le limitazioni e le problematiche riscontrate invece con i metodi tradizionali.
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3. Le nanotecnologie
3.1 Nanoscienza e nanotecnologia: potenzialit e sviluppo La nanotecnologia ha come fine il controllo e la manipolazione della materia sulla scala nanometrica, per arrivare allo sfruttamento delle propriet che si manifestano su tale scala. La nanostrutturazione sempre esistita in natura e in effetti quest'ultima sta molto a cuore ai nanotecnologi: nei suoi quattro miliardi di anni di esistenza infatti la natura ha trovato soluzioni sorprendenti ai suoi problemi, primo fra tutti la capacit della materia vivente di autostrutturarsi fino al livello pi fine per ottenere propriet assolutamente nuove. Questo precisamente quello che vogliono fare anche i nanotecnologi. Il fiore di loto ad esempio (Figg. 5-7) mantiene pulite le sue foglie grazie alla loro nanostruttura ruvida: queste foglie sono infatti rivestite da cristalli di una cera idrofobica di dimensioni nanometriche; in questa scala le superfici ruvide risultano pi idrofobiche di quelle lisce, quindi le goccioline d'acqua scorrono via dalla superficie senza aderirvi.
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Leffetto loto stato studiato approfonditamente dal professor Barthlott e dai suoi collaboratori delluniversit di Bonn [25], ed gi stato infatti utilizzato in una gamma di prodotti, come le pitture per esterni su cui lacqua scivola via portando con s lo sporco. Inoltre molto facile mantenere pulite le ceramiche sanitarie dotate di una struttura a loto.
Fig 6: la foglia di loto e la sua capacit idrorepellente: l'acqua che arriva in contatto con la foglia non la bagna, ma forma delle gocce che rotolano fino a cadere [26].
Fig. 7: goccioline d'acqua su una foglia di loto viste con un microscopio elettronico speciale (ESEM) alluniversit di Basilea [26].
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Nel mondo animale il geco un altro esempio di nanostrutturazione: questi animali possono arrampicarsi sui muri, correre a testa in gi sul soffitto e persino rimanervi aggrappati con una zampa sola. Riescono a fare tutto questo grazie alla nanostrutturazione dei loro polpastrelli, ricoperti di peli finissimi talmente adattabili che possono avvicinarsi a qualche nanometro dal supporto, ricoprendo superfici molto ampie. A quel punto entra in gioco il cosiddetto legame di Van der Waals, una forza debolissima ma che moltiplicata per i milioni di punti di aderenza sostiene il peso del geco. Il legame si scioglie facilmente per spellatura, nello stesso modo in cui si stacca un nastro adesivo (Fig. 8).
Fig. 8: piede del geco osservato a diversi livelli di ingrandimento tramite Microscopio Elettronico a Scansione (SEM): ogni dito costituito da una serie di setole chiamate setae (C), ciascuna delle quali (D) possiede da 100 a 1000 diramazioni chiamate spatulae (E) [28]
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Le prospettive rivoluzionarie associate alle nanotecnologie derivano dal fatto che, come detto, a questi livelli di dimensioni, comportamenti e caratteristiche della materia cambiano drasticamente; cos i metalli diventano semiconduttori o isolanti, e alcune sostanze, come il tellururo di cadmio (CdTe), nel nanocosmo sono fluorescenti, in tutti i colori delliride, mentre altre convertono la luce in corrente elettrica. Per questo le nanotecnologie rappresentano un modo radicalmente nuovo di produrre per ottenere materiali, strutture e dispositivi con propriet notevolmente migliorate o del tutto nuove [29]. Le applicazioni di questo settore sono diventate ormai sempre pi numerose e grazie ai risultati fortemente incoraggianti si ritiene che uno dei pi importanti campi di ricerca delle prossime decadi sar proprio lo studio delle propriet e della sintesi dei materiali nanostrutturati [30]. Le nanotecnologie solitamente vengono considerate implicate principalmente in elettronica e nella miniaturizzazione dei sistemi, ma in realt sono diffuse e contribuiscono praticamente in tutti i settori produttivi [31]. Lo sviluppo negli ultimi anni della nanoscienza ha aperto infatti la possibilit a differenti aree scientifiche della fisica, chimica, biologia, geologia, medicina o ingegneria di applicare le nuove propriet dei materiali, tanto a livello funzionale quanto strutturale. Negli anni 2000 la ricerca applicata sui materiali nanostrutturati, o nanomateriali, inizialmente limitata ai soli settori aerospaziale e biomedico, ha cominciato ad interessare in maniera crescente anche il campo dei prodotti per l'edilizia. Anche in questo settore infatti cominciano ad essere impiegate varie tipologie di prodotti innovativi che sfruttano le propriet peculiari delle nanostrutture. Questa nuova scienza ha suscitato un alto interesse, dovuto alle nuove applicazioni dei materiali che precedentemente non erano utilizzabili, giacch a scala nanometrica il comportamento degli stessi si modifica in seguito alla riduzione della dimensione delle particelle. 25
Negli ultimi anni nel settore edilizio cominciano a essere utilizzate diverse tipologie di nanocompositi, con matrice organica (polimerica) o inorganica (cementizia o vetrosa) alla quale mediante processi chimici vengono legate nanopolveri o nanoparticelle anch'esse a base inorganica (ossidi metallici o ceramica) o organica (carbonio). inoltre possibile rivestire mediante coating nanostrutturati molti materiali comunemente impiegati nelle costruzioni, selezionando la tipologia di rivestimento in base alle prestazioni specifiche richieste. Anche nel campo del restauro le applicazioni delle nanotecnologie sono numerose: si visto infatti come in questo settore sia diffusa ormai l'opinione e pi che consolidata la teoria sull'impiego di materiali che, seppur prodotti industrialmente, abbiano il pi elevato grado possibile di compatibilit con quello esistente "storico". Per questo i nanomateriali offrono un'ottima soluzione e opportunit d'impiego, introducendo nella scienza della conservazione del patrimonio culturale nuovi prodotti che migliorano le propriet di protezione e consolidamento dei materiali, con vantaggi molto superiori ai trattamenti tradizionali [32]. Lutilizzo di particelle nanodimensionate consente infatti di modificare le propriet di superficie, impartendo nuove funzioni al substrato trattato. Questo perch le nanoparticelle presentano caratteristiche chimiche e strutturali specifiche che stando in contatto con la superficie di differenti materiali, che siano essi pietra, dipinti murali, legno o metalli, possono produrre reazioni con i costituenti propri dei materiali modificando la superficie degli stessi. L'insieme delle propriet contemporaneamente apportate permettono poi al materiale trattato di raggiungere una serie di prestazioni per ognuna delle quali attualmente si utilizza un idoneo prodotto chimico, il che si traduce quindi anche in un minor numero e un pi basso costo delle applicazioni. La nanotecnologia apre quindi la possibilit di poter applicare trattamenti specifici per i materiali che costituiscono il patrimonio culturale: pu migliorare la penetrazione dei trattamenti, favorire la idrore26
pellenza dei materiali, aumentare la coesione dei suoi componenti, evitare la colonizzazione dei microrganismi, e in definitiva, dare ai beni culturali una maggiore durabilit o capacit di resistenza rispetto agli agenti di deterioramento. Le grandi incognite legate allutilizzo di tali materiali riguardano la stabilit nel tempo delle reazioni chimiche prodotte sulla superficie, leventuale rilascio di sostanze tossiche nel lungo periodo, i livelli di sostenibilit nei processi produttivi su scala industriale e le modalit di dismissione. Sono stati infatti lanciati avvertimenti sugli effetti sconosciuti che le nanoparticelle possono provocare sulla salute umana e sullambiente, al punto che in molti hanno chiesto che la ricerca nanotecnologica sia accompagnata da studi sullecotossicologia [32]. 3.2 I nanomateriali: caratteristiche e propriet Un nanomateriale si definisce come quel materiale con almeno una delle sue dimensioni sia nell'intervallo 1-100 nanometri (un nanometro la milionesima parte del millimetro). Le propriet peculiari di tali materiali risiedono proprio nelle caratteristiche a livello nanodimensionale. Al di sotto dei 100 nanometri infatti, la percentuale di atomi di superficie di un corpo diventa sempre pi significativa fino a predominare su quella degli atomi interni quando la dimensione assai prossima al nanometro. Nei materiali nanostrutturati diventano allora fondamentali forze come quelle di tensione superficiale e di Van Der Waals, mentre perdono di importanza altre forze, come ad esempio quella di gravit. Questa condizione fisica permette di ottenere propriet e caratteristiche nuove, singolari, che non si erano mai viste nei materiali comuni, come l'alta reattivit e il controllo e la modulazione della reattivit e delle propriet mediante il controllo della forma delle particelle [20]. Ma poich in un solido le propriet macroscopiche sono strettamente correlate a quelle microscopiche, anche alla macroscala possibile 27
sfruttare le particolari caratteristiche proprie degli atomi di superficie (in termini di contenuto di energia, propriet termiche, propriet meccaniche, ecc.). La nanostrutturazione inoltre conferisce miglior resistenza al logoramento e alta densit ai materiali che richiedono una resistenza molto alta. Nei trattamenti conservativi si utilizzano spesso soluzioni ed emulsioni basate sulle nanoparticelle, al fine di risolvere o prevenire i problemi connessi al deterioramento delle superfici nei beni culturali. Per questo motivo stata fondamentale e strategica l'implementazione dell'applicazione di nanoparticelle su superfici deteriorate per migliorare il consolidamento e la pulitura delle stesse. 3.3 Tecnologie di produzione dei nanomateriali Ad oggi le sperimentazioni in ambito edilizio riguardano diverse tipologie di prodotti: i materiali fotocatalitici rappresentano il settore maggiormente sviluppato, con le malte cementizie autopulenti, le piastrelle, le ceramiche, le vernici e i vetri basati sul trattamento con biossido di titanio; seguono i compositi fibrorinforzati nanostrutturati, che permettono la realizzazione di strutture leggere e resistenti, le vernici e i rivestimenti nanostrutturati antiusura e anticorrosione, e i vetri fotocromici e termocromici con nanoparticelle [33]. I processi di lavorazione dei nanomateriali sono di natura complessa e richiedono un accurato controllo al fine di ottenere le prestazioni richieste. Nel caso dei nanocompositi una delle principali difficolt risiede nellattitudine delle nanoparticelle ad aggregarsi in forme cristalline di dimensioni micrometriche per ridurre la propria energia libera di superficie. necessario che le cariche siano disperse uniformemente nella matrice e che ciascuna presenti le medesime caratteristiche di forma, dimensione e composizione, contribuendo alla stessa maniera al rag28
giungimento delle propriet finali del composito (la forma delle nanoparticelle, ad esempio, risulta fondamentale per aumentare la resistenza meccanica del materiale secondo direzioni preferenziali). A seconda della tipologia di materiale nanostrutturato da ottenere si pu operare seguendo diversi processi di lavorazione. Un primo metodo, denominato top-down (Fig. 9), consiste essenzialmente in un approccio fisico che permette di creare strutture molto piccole (di dimensioni nanometriche appunto) mediante la lavorazione di un pezzo pi grande, ovvero di un solido di dimensioni discrete. Il processo pi comune basato su tecniche di miniaturizzazione mediante litografia a fasci di elettroni, ioni o raggi X, che tendono a ridurre progressivamente le dimensioni dei reticoli cristallini. Attualmente tuttavia i metodi di miniaturizzazione non sono in grado di produrre nanostrutture con una dimensione inferiore ai 100 nm per limitazioni legate principalmente alla capacit di focalizzazione dei fasci. Laltro approccio quello bottom-up (Figg. 9-10), di tipo chimico, in cui la nanostruttura generata per addizioni successive di atomi, con una tecnica basata principalmente sullattivazione di processi chimici (ad esempio con tecniche sol-gel o di deposizione chimica da vapore). A questo scopo viene sfruttata la capacit che hanno certi atomi o molecole di autoassemblarsi in ragione della loro natura e di quella del substrato. I metodi nanochimici consentono il controllo della dimensione delle strutture fin da un livello atomico o molecolare e appaiono oggi i pi adeguati per la produzione di quantit elevate di materiale nanostrutturato, anche perch sembra matura la possibilit di un trasferimento della produzione su scala pi ampia. Ovviamente le nanoparticelle o i materiali nanostrutturati che si otterranno dovranno essere adeguati al tipo di applicazione per cui sono stati prodotti, ma in linea generale ci sono alcune caratteristiche comuni che i materiali devono avere per la realizzazione di nanocompositi: misura identica di tutte le particelle (particelle monodimensio-
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nali o particelle con distribuzione di misura uniforme) identica forma e morfologia identica composizione chimica e struttura cristallina desiderate tra differenti particelle e dentro le particelle individuali, cos come il nucleo e la composizione superficiale devono essere gli stessi particelle monodisperse (disperse individualmente), senza agglomerazione. Se l'agglomerazione accade, le nanoparticelle dovrebbero essere immediatamente ridispersibili
Fig. 9: illustrazione degli approcci top-down (in alto) e bottom-up (in basso) [34].
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Fig. 10: tecnica bottom-up: a sinistra, nanoparticelle di idrossido di calcio di un prodotto commerciale sintetizzato; a destra, nanoparticelle ottenute mediante pirolisi spray [32].
Nell'ambito della scienza della conservazione l'utilizzo delle nanoparticelle di differenti elementi chimici ha fornito uno strumento di trattamento dei materiali nel restauro. La Tab. 1 riassume i principali trattamenti applicati in differenti beni del patrimonio artistico.
Applicazioni Consolidamento di rocce calcaree, marmi, malte, etc. tele pittoriche, legno, carta Eliminazione dei sali in pietra e pitture murali Trattamenti di pulitura sulle tele Consolidamento delle rocce silicatiche e delle malte
Nei capitoli successivi verranno approfondite le applicazioni e le propriet dei quattro principali gruppi di nanomateriali: nanocalce nanobiossido di titanio nanosilice nanoidrossido di stronzio
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per evitare fessurazioni in fase di asciugatura, inoltre conferisce durezza alla malta. La durezza e la resistenza meccanica finali della malta sono dovute al processo di carbonatazione dell'idrossido di calcio che, lentamente, reagisce con l'anidride carbonica dell'aria per formare il carbonato di calcio. Ca ( OH )2 + CO 2 CaCO 3 + H 2 O Le calci idrauliche hanno rimpiazzato parzialmente le ordinarie malte di calce a partire dalla met del diciottesimo secolo; queste ultime furono poi completamente abbandonate con lo sviluppo del cemento Portland (brevetto di Joseph Aspdin, costruttore inglese, 1824). Questa tendenza fu certamente favorita dalle ben note difficolt associate con l'uso delle malte di calce, come i lunghi tempi di presa e la scarsa durata in condizioni di umidit. Inoltre, a causa della loro bassa resistenza meccanica, le malte di calce sono maggiormente inclini al degrado a causa dei processi di cristallizzazione dei sali. Il processo di carbonatazione veniva sfruttato anche nel caso degli affreschi, che costituiscono una grande parte del patrimonio culturale artistico del passato. Gli affreschi sono dipinti murali realizzati su intonaco fresco a base di calce aerea (idrossido di calcio) e sabbia. Si realizza dipingendo con pigmenti di origine minerale stemperati in acqua: una volta che nell'intonaco si sia completato il processo di carbonatazione, il colore ne completamente inglobato, acquistando cos particolare resistenza all'acqua e al tempo. Generalmente un affresco si compone di tre elementi: supporto, intonaco, colore. (Fig. 11) Il supporto, di pietra o di mattoni, deve essere secco e senza dislivelli. Prima della stesura dell'intonaco, viene preparato l'arriccio, una malta composta da una miscela di calce Ca(OH)2 (detta grassello) e grosse particelle di sabbia di fiume o, in qualche caso, pozzolana, in un rap-
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porto in volume di una parte di calce ogni tre di sabbia. Viene steso in uno spessore di 1 cm circa al fine di rendere il supporto pi uniforme possibile [36].
Supporto
Dopo l'indurimento di questo strato dovuto alla carbonatazione del grassello (Figg. 12-13) , viene depositato l'intonaco, l'elemento pi importante dell'intero affresco. composto di un impasto pi ricco in grassello e contiene sabbia molto pi fine di quella impiegata nell'arriccio in un rapporto in volume di uno ad uno o inferiore a uno rispetto al grassello. Il colore, che deve appartenere alla categoria degli ossidi per non interagire con la reazione di carbonatazione della calce, obbligatoriamente steso sull'intonaco ancora umido (da qui il nome a fresco). Questa fase rappresenta la principale difficolt per l'affrescatore, in quanto deve lavorare in tempi stretti prima che l'intonaco asciughi. Per ovviare a questo problema, l'intonaco viene applicato a zone dette giornate e dipinto mentre ancora fresco, in modo che i pigmenti, dispersi in acqua, siano fissati durante l'indurimento dell'intonaco.
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Supporto
carbonatazione [20]
Arriccio
Intonaco
Fig. 12: rappresentazione del processo di presa di un intonaco per perdita d'acqua e
Fig. 13: contrazione dell'intonaco durante la disidratazione per evaporazione dell'acqua [20]
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L'uso di soluzioni di idrossido di calcio nelle pratiche manutentive delle superfici architettoniche ormai largamente documentato, ma il loro uso inizialmente non era finalizzato al consolidamento delle superfici dei materiali su cui erano applicate. Solo nel recente passato la possibilit di utilizzarle per il consolidamento di superfici affrescate e materiali lapidei stata valutata con grande interesse, tanto che i trattamenti alla calce possono essere annoverati tra i metodi tradizionali pi diffusi in Inghilterra [37]. I trattamenti con acqua di calce, soluzioni di carbonato di calcio e soluzioni sature di bicarbonato di calcio, avvenivano attraverso ripetute applicazioni. L'applicazione d'idrossido di calcio era effettuata con soluzioni calde, bagnato su bagnato. Per poter raggiungere un effetto consolidante erano richieste molte applicazioni che tenevano costantemente bagnate le superfici dipinte dando luogo per a diversi inconvenienti, dovuti essenzialmente alla scarsa solubilit dell'idrossido di calcio in acqua (1.7 g/l a 20C). Inoltre l'eccessivo apporto d'acqua nella struttura, determinato dal trattamento, pu causare la migrazione di sali verso la superficie e innescare altri degradi. L'effetto consolidante viene quindi meno, oltre che per la mancata penetrazione, anche per la naturale bassa concentrazione d'idrossido di calcio nella soluzione, e il trattamento dunque pu non corrispondere alle attese. Queste soluzioni e i modi d'applicazione presentano quindi dei grossi limiti. L'aspetto per interessante nell'utilizzo dell'acqua di calce era la volont di integrare i difetti coesivi delle superfici a matrice carbonatica con lo stesso legame utilizzato nella tecnica artistica esecutiva. Per superare queste problematiche sono state messe a punto ulteriori metodologie di intervento, studiate sempre nel rispetto della filosofia che sta alla base della scienza della conservazione, come il Metodo Ferroni-Dini e i sistemi nanofasici.
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4.2 Il metodo Ferroni Dini (o Metodo del Bario) Le pitture murarie si deteriorano perch il carbonato di calcio in cui sono imprigionati i pigmenti si degrada col passare del tempo, trasformandosi, per esempio, in solfato. Questa alterazione nella composizione chimica causata principalmente dall'acqua, dall'aggressione di sali e dall'inquinamento atmosferico che si infiltra nella matrice porosa del muro [19]. La contaminazione dei sali nei dipinti una delle cause pi frequenti di deterioramento. Tra i possibili sali che si possono formare, i solfati sono sicuramente tra i pi comuni e dannosi. La loro formazione dovuta alla degradazione chimica del carbonato di calcio a causa degli inquinanti acidi, della risalita per capillarit dal terreno, o della presenza di solfobatteri. La pericolosit dei solfati consiste nel fatto che possono cristallizzare in diversi stati di idratazione e quindi con volumi molto diversi. La formazione di nuovi cristalli nei pori o all'interfaccia tra il dipinto e l'intonaco genera tensioni meccaniche che possono avere come conseguenza sollevamenti e distacchi dello strato pittorico (Fig. 14), polverizzazione in superficie, opacizzazione della superficie dipinta, crepe e fessurazioni dell'intonaco [38]. Infatti le forti pressioni sulla struttura porosa possono rompere l'intonaco in pi punti fino a formare dei veri e propri crateri. Perci, oltre a rappresentare un sintomo di un processo di degradazione chimica gi avvenuta, i solfati favoriscono ulteriori deterioramenti a causa delle sopramenzionate tensioni meccaniche. Gli effetti della cristallizzazione dei sali sono solitamente fortemente amplificati se non presente nessuno strato protettivo, generalmente applicato in precedenti trattamenti di restauro. Si gi visto come in passato i polimeri, principalmente resine acriliche e viniliche, siano stati largamente usati per consolidare i dipinti murali e conferire protezione e idrorepellenza allo strato pittorico, con risultati per spesso 37
peggiorativi. I materiali inorganici invece, specialmente se dello stesso tipo usato nelle opere d'arte, sono perfettamente compatibili con i dipinti murali, minimizzano i suddetti rischi e prevengono inaspettati effetti collaterali. Questo perch i consolidanti inorganici sono altamente stabili chimicamente e mantengono la porosit del dipinto, in modo da assicurare effetti di consolidamento a lungo termine.
Fig 14: Piero della Francesca: particolare de La Leggenda della vera Croce, Chiesa di San Francesco, Arezzo [39].
Si visto come l'idrossido di calcio sia la sostanza consolidante ideale per tutti i materiali a matrice carbonatica (in particolare gli intonaci, e quindi gli affreschi). Ma l'impiego di calce nel restauro di intonaci affrescati si sempre scontrata con problemi insormontabili, rendendo cos necessari ulteriori studi e ricerche per la messa a punto di nuove metodologie d'intervento. Una di queste il procedimento comunemente indicato come metodo del bario, una tecnica di consolidamento in situ di affreschi che venne messa a punto, nella sua versione pi diffusa, da Enzo Ferroni (Professore di Chimica nell'allora Istituto di Chimica Fisica dell'Universit di Firenze) e il restauratore Dino Dini, a Firenze negli anni 60 [22]. I numerosi risultati sperimentali ottenuti furono presentati per la prima volta nel 1969 ad Amsterdam, alla conferenza internazionale
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dell'ICOM [40]. Lutilizzo del bario, ovvero dellidrossido di bario in soluzione acquosa, era gi stato sperimentato in passato, ma il metodo Ferroni-Dini introdusse elementi di novit e specificit, favorendone una diffusione ampia ed un riscontro positivo che, a distanza di molti anni, lo accredita tra i sistemi pi compatibili e durevoli. Il metodo consiste in una tecnica di consolidamento chimico-strutturale che opera il risanamento dai fenomeni di cristallizzazione dei sali, realizzando per anche una stabilizzazione della struttura dell'intonaco e la rigenerazione del legante naturale dello strato pittorico, ovvero il carbonato di calcio [22]. Quindi agisce in due direzioni: da una parte risolve il problema del degrado dei dipinti ad opera dei solfati, dall'altro consente di consolidare l'opera d'arte. La sua caratteristica principale sta nella compatibilit chimico-fisica che esiste tra la soluzione di idrossido di bario inorganico e la matrice minerale che caratterizza i dipinti murali realizzati con la tecnica del "buon fresco". In tal modo essa rappresenta unalternativa sostanziale ai trattamenti storicamente adottati nel restauro basati sullimpregnazione dei manufatti con colle di origine animale, olii vegetali, uovo e, in tempi pi recenti, film di resine sintetiche, che in genere mostrano doti di compatibilit e durabilit alquanto modeste. La solfatazione dei dipinti dovuta principalmente alla lenta trasformazione del legante CaCO3 in solfato di calcio bi-idrato CaSO 42H2 O ovvero gesso, un agente di degrado molto frequente e dannoso per i dipinti murali, dato che pu provocare imbianchimenti o piccole bolle che distruggono la trasparenza dei colori e causano la decoesione dello strato pittorico (Fig. 15). La differenza nella patina di solfato di calcio bi-idrato dovuta alla porosit dell'intonaco su cui l'artista dipinge. Beato Angelico ad esempio (Fig. 15, a sinistra) era solito preparare un
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intonaco ben compatto, usando sabbia molto fine e una malta ricca in calce spenta, mentre Sogliani (Fig. 15, a destra) non aveva la stessa cura nella preparazione dell'intonaco, che era ottenuto mediante sabbia grezza e un contenuto pi basso di calce spenta.
Fig. 15: due differenti tipi di solfatazione sui dipinti murali: a sinistra, piccole bolle sul viso di S. Domenico nel dipinto S. Domenico in adorazione del Crocifisso di Beato Angelico (XV secolo) nel Chiostro di S. Marco a Firenze; a destra, imbianchimento omogeneo su un particolare del dipinto L'ultima cena di G. A. Sogliani (XVI secolo) nel Refettorio di San Marco a Firenze [39].
La differente composizione dell'intonaco produce una porosit diversa nei due muri: l'affresco di Sogliani infatti ha una porosit pi alta e pori pi grossolani rispetto a quello di Beato Angelico. I nuclei di gesso possono crescere omogeneamente e prendere la forma di larghi pori nel caso di un intonaco poroso, mentre negli affreschi con una porosit ridotta i nuclei di solfato di calcio sono costretti a crescere perpendicolarmente alla superficie esterna formando solo piccole bolle [41]. Chimicamente la formazione del gesso dovuta all'azione combinata tra il legante (il carbonato di calcio), e gli ossidi di zolfo (SO X) provenienti dall'inquinamento atmosferico. Questo meccanismo di degrado
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pu manifestarsi in seguito a due differenti reazioni, ad esempio nel caso dell'anidride solforosa [42]: (1) CaCO 3 + SO 2 + acqua CaSO 3xH 2 O + CO 2 CaSO 32H 2 O + 1 / 2 O 2 + acqua CaSO 42H 2 O (2) SO 2 + 1 / 2 O 2 + H 2 O H 2 SO 4 CaCO 3 + H 2 SO 4 + acqua CaSO 42 H 2 O + CO 2 I due schemi non sono rappresentativi di tutti i passaggi della reazione, ma spiegano perch il degrado degli affreschi drammaticamente aumentato negli ultimi cinquant'anni, in corrispondenza cio dell'aumento dell'inquinamento atmosferico, e in particolare delle particelle sospese in atmosfera dovute ai processi di combustione. Dalle reazioni si evince come nella struttura il solfato di calcio si sostituisca al carbonato di calcio, ed avendo un volume quasi doppio le tensioni che crea fanno si che il pigmento spolveri o cada in scaglie. Fino a trent'anni fa, quando la solfatazione contaminava un dipinto, i restauratori adottavano la drastica soluzione di staccare l'affresco dal muro, con il grande svantaggio di perdere irreversibilmente una consistente quantit di pigmenti (in alcuni casi fino al 30-40%) durante il distacco. Questo poteva essere evitato usando colle o adesivi organici, ma questa procedura solitamente introduceva sostanze incompatibili con l'affresco, che potevano danneggiare potenzialmente il dipinto. Dopo l'alluvione di Firenze del 1966, il fenomeno del degrado delle opere d'arte aument drammaticamente: l'evento catastrofico produsse danni comparabili a cent'anni di invecchiamento. Questa circostanza apr gli occhi agli scienziati che offrirono il loro contributo al fine di risolvere la maggior parte delle situazioni pi difficili nel restauro. Fu proprio in quegli anni che Enzo Ferroni e Dino Dini svilupparono un nuovo metodo per la rimozione del gesso dagli affreschi senza doatm atm atm atm
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verli staccare dal supporto. Ferroni e Dini partirono dal presupposto che se il composto originale si era trasformato [Eq. (1) (2)] vuol dire che del carbonato di calcio era andato perduto, quindi era necessario ricostituirlo l dove non c'era pi. Il metodo consiste nell'applicazione di impacchi con soluzioni acquose di carbonato di ammonio (NH4)2CO3 e di idrossido di bario Ba(OH)2 tramite due passaggi successivi [Eq. (3) - (7)]. Il primo prodotto [Eq. (3)] permette di riottenere in maniera completa, per reazione di doppio scambio con il solfato di calcio (gesso), il carbonato di calcio CaCO3 (che per non legante, in quanto da questa reazione esso si produce sotto forma di polvere che si deposita sulle cavit formate dal degrado senza per riempire i vuoti provocati dal maggior volume molare del gesso) e garantisce la conversione del solfato di calcio in solfato di ammonio (NH 4)2SO4, che un prodotto estraneo ai materiali originali e pu dare efflorescenze, ma risulta solubile in acqua e pu quindi essere lavato via; infatti solitamente viene assorbito dalla polpa di carta usata per l'applicazione della soluzione di carbonato di ammonio. In alcuni casi (affreschi ricoperti di fuliggine e altre polveri), prima di procedere con l'applicazione del prodotto, si effettua una pulitura preventiva con acqua deionizzata; altrimenti, l'uso diretto del carbonato d'ammonio porterebbe alla solubilizzazione delle impurit, che, veicolate dall'acqua, migrerebbero irrimediabilmente all'interno della struttura capillare muraria, provocando macchie e variazioni cromatiche sulla superficie dipinta. Limpacco va confezionato rigonfiando della polpa di carta (o pasta di legno, fibra di cellulosa pura in fiocchi) con la soluzione di carbonato dammonio e pressando limpasto ottenuto sul supporto con linterposizione di carta di riso. La concentrazione della soluzione cambia, secondo le condizioni dell'affresco, sino a soluzione satura, ed stabilita in base a piccoli saggi che consentono di individuare il grado di assorbimento della muratura. 42
(3) ( NH 4) 2 CO 3 + CaSO 42H 2 O ( NH 4) 2 SO 4 + CaCO 3+ 2H 2 O (4) ( NH 4) 2 SO 4 + Ba ( OH )2 BaSO 4 + 2NH 3+ 2H 2 O (5) Ba ( OH )2 + CO 2 BaCO 3+ H 2 O (6) Ba ( OH )2 + CaCO 3 Ca ( OH )2 + BaCO 3 (7) Ca ( OH )2 + CO 2 CaCO3 + H 2 O Il secondo prodotto invece, applicato in forte eccesso mediante compresse di pasta di legno - per eliminare con sicurezza il solfato d'ammonio - converte quest'ultimo in solfato di bario BaSO 4 (sale inerte, insolubile e non idratabile, non dannoso, che cristallizza e rimane nelle cavit) [Eq. (4)] ed opera il consolidamento del substrato inorganico tramite due distinti e concomitanti processi chimici: in un primo momento si ha la graduale e lenta formazione per azione della CO2 di carbonato di bario BaCO3 [Eq. (5)], inerte e insolubile, che precipita gradualmente tra i cristalli di carbonato di calcio dell'intonaco saldandoli con una struttura del tutto analoga, riempiendo quindi gli interstizi formatisi a causa del degrado; il loro coefficiente di dilatazione termica simile e la solubilit in acqua del BaCO 3 praticamente nulla; in un secondo momento si ha la parziale formazione ex novo di portlandite o idrossido di calcio Ca(OH)2 [Eq. (6)], per azione dell'idrossido di bario Ba(OH)2 in eccesso che reagisce molto lentamente con il carbonato di calcio CaCO 3 non pi legato all'intonaco. Questa nuova calce cos formatasi in situ funziona da nuovo legante originando una nuova presa per carbonatazione [Eq. (7)] e migliorando la resistenza meccanica del dipinto [43]. La compatibilit cristallografica tra il calcio carbonato e il bario car-
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bonato garantisce la stabilit del consolidamento. Naturalmente, come per tutti i consolidanti inorganici, non possibile saldare lacune macroscopiche: per l'idrossido di bario si osservato un limite massimo di 50 m. Il funzionamento di questo metodo stato confermato da analisi diffrattometriche [44] e impiegato con successo principalmente in Toscana dall'Opificio delle Pietre dure ed tuttora utilizzato. Tra le applicazioni pi note si possono citare gli interventi di restauro sugli affreschi del Beato Angelico (Firenze, Convento di San Marco, Figg. 16-17), di Piero della Francesca (Arezzo, Basilica di San Francesco) e del Ghirlandaio (Firenze, Santa Maria Novella) [16]. Lapplicazione principale riguarda comunque il consolidamento degli intonaci affrescati degradati in seguito al fenomeno dalla solubilizzazione e cristallizzazione dei sali solubili. Tale degrado, imputabile in gran parte, come gi indicato, alla formazione del solfato di calcio per interazione con gli inquinanti dellatmosfera, produce fenomeni di sollevamento, frammentazione e perdita del film pittorico, oltre che dello strato pi superficiale dell'intonaco.
Fig. 16: affresco del Beato Angelico restaurato con il Metodo del Bario [16]
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Fig. 17: immagini dell'affresco S. Domenico in adorazione del Crocifisso di Beato Angelico prima (a sinistra) e dopo (a destra) l'applicazione del metodo FerroniDini [20]
In alcuni casi il consolidamento diretto con idrossido di bario si applica anche nella conservazione di patine artificiali che si intende mantenere (es. decorazioni policrome), ma che presentano al di sotto fenomeni di solfatazione. Questo possibile grazie alle numerose microlacune (cariature, microfessurazioni, forellini ecc.) presenti su queste stratificazioni, che permettono al prodotto di arrivare sino al substrato. In questi casi, per, il rischio maggiore quello di un'errata esecuzione del trattamento, che potrebbe provocare una carbonatazione incontrollata in superficie, con comparsa di imbianchimenti. Per questo motivo vanno valutati attentamente, secondo i casi, i tempi di posa dell'impacco e la concentrazione della soluzione. Per lo stesso motivo (la porosit ridotta, ma non annullata) l'idrossido di bario deve essere considerato un consolidante e non un protettivo. Soprattutto in condizioni di particolare inquinamento atmosferico, opportuno ripetere il procedimento o, eventualmente, applicare altri tipi di consolidanti.
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Nei manufatti esposti all'aperto va valutata anche l'applicazione di un prodotto finale che garantisca la protezione dall'acqua, in quanto il bario non rende idrorepellente la superficie. La particolare affinit dei materiali rende comunque questi interventi irreversibili per cui risulta indispensabile la massima attenzione nelle operazioni: devono essere eseguite indagini preliminari per analizzare a fondo le condizioni generali dell'opera (propriet chimico fisiche dello strato pittorico e della malta, tipo di degradazione) e per valutare nel dettaglio tempi, concentrazione e sequenze operative. La formazione di velature opalescenti sullo strato pittorico spesso imprevedibile, a causa della scarsa conoscenza relativa alle quantit ottimali di dosaggio dei prodotti, ai tempi applicativi e ai parametri ambientali. Non sempre un intervento di "lavaggio" pu risolvere, infatti, il problema. I tempi necessari per osservare un effettivo consolidamento sono, di solito, relativamente lunghi, specie se sono interessate ampie superfici. I materiali inorganici, inoltre, presentano spesso lo svantaggio di comportarsi da filler (carica inerte), piuttosto che da adesivi, e questo genera alterazione delle caratteristiche micro-strutturali del materiale senza apportare particolari effetti di coesione. Ci avviene nel carbonato di calcio che si forma comportandosi essenzialmente da riempitivo e non da legante, a differenza del carbonato di calcio che si forma per carbonatazione della calce. Inoltre il trattamento con l'idrato di bario su intonaci ad alta concentrazione di nitrati (di Na, K, Ca) non consigliabile perch si pu formare nitrato di bario per reazione di doppio scambio: il sale formato solubile e pu dare vistose efflorescenze. Secondo alcuni autori, infine, la metodologia del bario pu provocare danni anche di una certa rilevanza, in quanto la trasformazione del solfato di calcio in solfato d'ammonio, e successivamente in solfato di bario, determina, a livello microcristallino, un aumento di volume con la conseguente formazione di microlesioni nelle aree circostanti l'appli46
cazione. Il trattamento anche sconsigliabile laddove si riscontrino, al di sopra delle patine, depositi di tipo organico (cere, gomma lacca, materiali proteici, ecc.). In questi casi infatti il bario potrebbe non passare e la carbonatazione potrebbe verificarsi esternamente alle patine, rendendo inutile l'intera operazione. Tale inconveniente non compare quando i depositi sono di tipo gessoso, in quanto il bario idrossido riesce a raggiungere la superficie della pietra dopo aver operato la trasformazione del gesso in solfato di bario e quest'ultimo blocca ulteriori processi di solfatazione. Infine necessario puntualizzare che la quasi totalit dei materiali utilizzati negli interventi vengono prodotti dalle industrie per altri usi e quindi presentano propriet, grado di purezza e formulazioni talvolta assai lontane da quelle richieste per garantire la necessaria efficacia e durata negli interventi sui beni di interesse storico artistico. 4.3 Dal Metodo Ferroni-Dini alle nanocalci La lezione di Ferroni e Dini, oltre a garantire un esempio nitido della filosofia che sta alla base della scienza della conservazione, ha aperto la strada per lo sviluppo di alcuni metodi di intervento conservativo da parte del Consorzio per lo sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase (CSGI), del Dipartimento di Chimica dell'Universit di Firenze. In particolare risulta oggetto di grande studio e interesse la messa a punto di sistemi nanofasici, metodi cio basati sulla nanotecnologia per il restauro degli affreschi [43]. I chimici fiorentini infatti, per superare le problematiche e i limiti del Metodo Ferroni-Dini (che risulta poco efficace in caso di forte scagliamento e/o polverizzazione degli strati pittorici), hanno sperimentato la possibilit di usare dispersioni stabili di idrossido di calcio in luogo dell'idrossido di bario. Si visto infatti come l'idrossido di calcio sia la sostanza consolidante ottimale per tutti i materiali litoidi a matrice carbonatica, in virt della 47
sua alta compatibilit fisico-chimica con il supporto, quindi il trattamento con questo materiale sempre preferibile soprattutto se il degrado dell'opera d'arte il risultato di una perdita di carbonato di calcio. Tuttavia, la scarsa solubilit dell'idrossido di calcio in acqua (1.7 g/l contro, per esempio, i 39,9 g/l dell'idrossido di bario) e quindi la difficolt di creare dispersioni stabili in acqua, ne ha ostacolato l'utilizzo per diversi anni, poich sarebbe necessaria una eccessiva quantit di acqua per ottenere risultati apprezzabili. Inoltre il prodotto disponibile in commercio formato da particelle di dimensioni troppo grandi (nell'ordine del millesimo di millimetro) per garantire un'adeguata capacit di penetrazione e che, ancor peggio, tendono a separarsi dal solvente, producendo una pellicola bianca indelebile sulla superficie dipinta. La soluzione a queste limitazioni sembra essere offerta dalla nanotecnologia, mediante l'uso di dispersioni cineticamente stabili di minuscoli cristalli di idrossido di calcio in solventi non acquosi (alcol isopropilici come l' 1-propanolo o il 2-propanolo), che consentono di rendere la calce pi stabile e penetrante negli strati pittorici da consolidare, diminuiscono la sedimentazione e assicurano una drastica riduzione degli sbiancamenti [43]. Infatti le dimensioni molto piccole delle particelle (da 100 a 250 nm) e la tensione superficiale dell'alcol, sufficientemente bassa da assicurare un'impregnazione ottimale per suzione capillare, assicurano un'alta capacit di penetrazione della sospensione all'interno della struttura porosa delle pitture murali (fino a una profondit media di 200-300 m), e permettono di raggiungere pori anche molto piccoli altrimenti non raggiungibili con le metodologie tradizionali. In ambiente favorevole, l'alcool ha un'elevata volatilit e, comparato con altri solventi, una tossicit ridotta. Quando evapora, i cristalli reagiscono con l'anidride carbonica dall'atmosfera e si legano al carbonato di calcio dello strato pittorico e dell'intonaco sottostante, legandoli insieme con lo stesso processo che ha prodotto l'affresco in origine. 48
Infatti le dimensioni nanometriche delle particelle di calce determinano un maggior rapporto superficie/volume garantendo, cos, una maggiore interazione con la CO2 e, conseguentemente, un miglioramento del processo di carbonatazione. L'uso della nanocalce consente quindi di evitare alcuni inconvenienti tipici dei trattamenti a base di calce convenzionali, quali l'incompletezza del processo di carbonatazione, la scarsa profondit di penetrazione raggiungibile, l'eccessivo quantitativo di acqua apportato alle pietre e l'alterazione cromatica delle superfici. La rinnovata compattezza e adesione allo strato pittorico rendono l'applicazione particolarmente indicata nei casi di polverizzazione (powdering) del colore e di esfoliazione (flaking), in quanto l'impiego dell'idrossido di calcio permette il ripristino della struttura cristallina, in grado di garantire l'adesione del pigmento al supporto e di ricostituire un vero e proprio processo di presa.
Fig. 18: affresco Gli angeli musicanti di Santi di Tito nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. L''area selezionata stata trattata con nanoparticelle (in alto, prima del trattamento, in basso, dopo il trattamento) [20].
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I trattamenti con nanocalci sono stati usati con successo per il restauro di affreschi (Fig. 18), pre-consolidamenti (in luogo di caseina o sostanze polimeriche), e anche per la deacidificazione della carta [44]. 4.4 Preparazione delle nanocalci 4.4.1 Preparazione di nanocalci in dispersioni acquose Le particelle di nanocalce vengono sintetizzate secondo varie procedure per ottenere cristalli nanodimensionati di forma esagonale nell'intervallo 3-300 nm. Uno di questi metodi la sintesi mediante una reazione in fase omogenea in acqua. La dimensione e la forma delle particelle possono essere definite mediante un'appropriata selezione di determinati parametri di reazione, come la temperatura di reazione, la concentrazione dei reagenti e il loro rapporto molare. Le particelle cristalline submicrometriche di Ca(OH) 2 vengono preparate a partire da volumi uguali [45] di soluzioni acquose di NaOH e CaCl2, che vengono riscaldate separatamente ad una temperatura selezionata nell'intervallo 60-90C. CaCl 2 + 2NaOH Ca ( OH )2 + 2NaCl Quando la temperatura scelta viene raggiunta, le due soluzioni vengono mescolate rapidamente mediante centrifugazione, mantenendo la temperatura del preparato costante. Il grado di supersaturazione, definito come il rapporto [Ca2+]/[Ca2+]sat dove [Ca2+]sat la concentrazione di cationi Ca2+ nella soluzione satura di Ca(OH)2, viene tenuto nell'intervallo 2-10. La sospensione di Ca(OH)2 raggiunge gradualmente la temperatura ambiente in atmosfera d'azoto per evitare la carbonatazione. La soluzione surnatante viene scartata, e la sospensione rimanente viene lavata cinque volte con acqua per ridurre la concentrazione di NaCl al di 50
sotto di 10-6 M. Ogni volta il rapporto di diluizione tra la sospensione concentrata e la soluzione lavata di circa 1:10. La completa rimozione del cloruro di sodio NaCl dalla sospensione viene controllata mediante test AgNO3. La sospensione viene poi concentrata in assoluto isolamento a 40 C fino a un rapporto in peso Ca(OH) 2/acqua di 0.8, ovvero lo stesso della pasta standard di calce spenta presa come riferimento. Le particelle preparate a 60 C mostrano la geometria prismatica esagonale tipica del Ca(OH)2, con un alto grado di agglomerazione particellare. La dimensione del lato dell'esagono nell'intervallo 0.3-0.6 m, e si evidenziano molte differenti morfologie cristalline. Aumentando la temperatura di sintesi fino ai 90 C si assiste ad una diminuzione della dimensione principale delle particelle, come mostrato in Fig. 19. La morfologia esagonale (Fig. 20) evidenziata meglio rispetto alla sintesi a 60 C, e la dimensione media dei lati degli esagoni nell'intervallo 100-250 nm, con uno spessore di 2-40 nm. Si pu concludere che particelle pi piccole, con meno agglomerazione, e maggiore simmetria dei cristalli di Ca(OH)2, sono propriet ottenibili aumentando la temperatura da 60 a 90 C.
Fig. 19: gruppi di nanoparticelle di idrossido di calcio preparate mediante reazione in fase omogenea in acqua a 90C, osservate mediante microscopia a scansione elettronica (SEM) [46].
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Fig. 20: nanoparticelle esagonali di Ca(OH) 2 ottenute da una fase omogenea a 90 C; in alto, fotografia al microscopio elettrico a scansione (SEM); in basso, micrografia TEM di una singola particella di Ca(OH) 2 che mostra la tipica morfologia esagonale [45].
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Tuttavia, malgrado i risultati siano altamente incoraggianti, le dispersioni in acqua si sono dimostrate altamente instabili, inoltre questo metodo non permette di ottenere nanoprismi esagonali con lati dell'esagono pi piccoli di 100 nm. 4.4.2 Preparazione di nanocalci mediante dioli Si visto come l'alta temperatura sia un requisito fondamentale per ottenere particelle di piccole dimensioni. Per raggiungere temperature maggiori di 100 C stato sviluppato [45] un metodo basato sui dioli come mezzi di reazione. Questo metodo implica diverse peptizzazioni delle particelle sintetizzate poich la solubilit del Ca(OH)2 nei dioli maggiore che in acqua. Quindi a partire dal sentiero sintetico in dispersione acquosa, alcuni studiosi [47] hanno messo a punto un metodo che utilizza glicole etilenico o propilenico come solventi di reazione, permettendo cos il raggiungimento di elevate temperature (fino a 175C). Come nel caso della dispersione acquosa, si parte da una reazione tra il cloruro di calcio CaCl2, dissolto in glicole etilenico (EG) o propilenico (PG), e l'idrossido di sodio acquoso NaOH, alla temperatura di 115-175 C per favorire la velocit di nucleazione. CaCl 2 (EG ) + 2NaOH( aq ) Ca ( OH )2 ( s )+ 2NaCl( s) Da questa reazione si ottengono aggregati macroscopici di nanofasi di Ca(OH)2. Grazie all'alta temperatura la dimensione delle particelle si riduce rispetto a quelle prodotte nella precedente reazione in acqua. Dopo la sintesi bisogna eseguire la purificazione, che consiste in una serie di lavaggi in acqua distillata e in una procedura di centrifugazione.
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A questo punto si avvia il cosiddetto processo di peptizzazione (Figg. 21-24) ovvero di disgregazione: gli agglomerati cos creati di particelle microdimensionate vengono lavati diverse volte con acqua o un solvente alcolico (2-propanolo) e immersi in un bagno ultrasonico per rimuovere il diolo adsorbito e peptizzare le particelle. Questa azione combinata realizza la separazione tra le nanounit che costituiscono gli agglomerati micrometrici e permette di individuare singole unit di dimensione inferiore ai 100 nm per lato dell'esagono. L'intera procedura produce diverse nanoparticelle di differenti morfologia e dimensione, a seconda delle condizioni usate nelle sintesi. Infatti per studiare gli effetti di differenti condizioni sperimentali sulle particelle risultanti, sono state effettuate sintesi [47] con diversi parametri (Tab. 2), ovvero cambiando di volta in volta una condizione e lasciando le altre costanti. I parametri che sono stati investigati sono: il tipo di diolo (glicole etilenico o propilenico), l'invecchiamento della soluzione, la temperatura di reazione, la concentrazione di Ca 2+ nel diolo, la concentrazione del NaOH e il rapporto molare NaOH/CaCl 2.
Tab. 2: condizioni sperimentali per l'idrolisi del sistema CaCl 2/diolo con una soluzione acquosa NaOH e risultati [47].
Si sperimentato, ad esempio [47], che quando la concentrazione di NaOH e CaCl2 al di sotto di 0,2 moldm-3 non si ottengono particelle, nemmeno con un invecchiamento maggiore di 40 minuti. Le nanoparticelle di forma esagonale piatta e dimensione compresa fra i 60 e i 150 nm, sono ottenute peptizzando il campione, nella sintesi 1 e 2, con 2-propanolo. Dopo tre lavaggi si evidenzia solo una parziale disgregazione (Fig.
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21), mentre particelle ben distinte sono ottenute dopo un'ulteriore peptizzazione (Fig. 22).
Fig. 21: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole etilenico (Sintesi 1, Tab. 2) dopo tre peptizzazioni: la dimensione delle unit compresa fra 60 e 150 nm [47].
Fig. 22: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole propilenico (Sintesi 2, Tab. 2) dopo cinque peptizzazioni: la dimensione delle unit compresa fra 50 e 120 nm [47].
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Fig. 23: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole propilenico (Sintesi 5, Tab. 2) dopo tre peptizzazioni: la dimensione delle unit compresa fra 60 e 90 nm [39].
Fig. 24: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole etilenico (Sintesi 3, Tab. 2) dopo una peptizzazione: la dimensione delle unit compresa fra 30 e 60 nm [39].
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In Fig. 23 evidente un alone intorno alle particelle attribuibile alla ritenzione del diolo. La forma esagonale (Fig. 22) implica cristallinit, inoltre si evidenziato che le particelle esagonali molto fini si ottengono con alte temperature e un alto grado di supersaturazione. Le particelle di Ca(OH)2 preparate in condizioni non stechiometriche in glicole etilenico e propilenico (sintesi 4 e 5) sono peptizzate secondo lo stesso metodo, producendo sempre particelle di forma piatta esagonale, ma di dimensione compresa fra i 40 e gli 80 nm. Una sola peptizzazione produce aggregati grandi e non ben definiti, il che conferma che diverse procedure di peptizzazione sono necessarie per raggiungere singole unit nanodimensionate. Tre peptizzazioni sono abbastanza per isolare un singolo cristallo esagonale (Fig. 23) con un lato di circa 40 nm. Una caratteristica particolarmente interessante riportata in Fig. 24: la diminuzione del tempo di invecchiamento (5 minuti della sintesi 3 contro i 40 minuti delle altre sintesi) causa due effetti principali: la diminuzione della dimensione media delle nanoparticelle e il cambio della forma da esagonale a quasi sferica. La Fig. 24 mostra queste particelle molto piccole (30-60 nm) indagate mediante microscopia TEM. Infine, il lavaggio delle particelle ottenute a bassa temperatura (sintesi 9) produce aggregati irregolari. Usando sia l'acqua che il 2-propanolo come agenti peptizzanti, si dimostrato che il 2-propanolo pi efficace, per via dell'alta solubilit del Ca(OH)2 in acqua che riduce fortemente la produzione di nanoparticelle. Inoltre il 2-propanolo usato per la peptizzazione viene assorbito sulla faccia di base delle particelle esagonali, rendendo possibile il loro raggruppamento e allineamento. Il 2-propanolo quindi distrugge l'orientamento casuale e promuove un allineamento preferenziale. 4.4.3 Preparazione di nanocalci in dispersioni alcoliche Sebbene le particelle sintetizzate con i metodi precedenti abbiano sia la dimensione che la distribuzione dimensionale ideali per l'applica57
zione sui dipinti, non possono essere usate come dispersione in acqua, a causa della loro tendenza ad aggregarsi in solvente. Un sostanziale miglioramento viene raggiunto usando alcool isopropilico a catena corta come mezzo di dispersione, per produrre dispersioni cineticamente stabili. In particolare, 1-propanolo, etanolo e 2-propanolo forniscono, nell'ordine, una buona aggregazione e stabilizzazione delle particelle. Viene ipotizzato che questa migliorata stabilit avvenga per via dell'assorbimento fisico dell'alcool sopra le superfici delle particelle, dal momento che gioca un ruolo fondamentale contro l'agglomerazione particellare, favorito anche dal potenziale elettro-cinetico delle particelle stesse. L'agglomerazione particellare infatti nota per manifestarsi in acqua mediante un meccanismo di collegamento guidato dal legame idrogeno. importante notare che anche la conformazione della catena idrofobica gioca un ruolo importante. Le dispersioni in 1-propanolo sono pi stabili di quelle in 2-propanolo, e questo suggerisce che la stabilit cinetica della dispersione proporzionale allo spessore dello strato idrofobico presente nelle particelle di Ca(OH)2 con alcool assorbito. Questo metodo pu essere usato con efficacia nella conservazione degli affreschi sia in fase di pre-consolidamento che di consolidamento, per riaderire gli strati pittorici distaccati e sollevati, per conferire una recoesione interna, nonch per il consolidamento dell'intonaco e dell'interfaccia intonaco/arriccio [45]. La sintesi delle nanoparticelle viene verificata seguendo due metodi diversi: 1) entrambe le soluzioni vengono riscaldate fino a 90-95C su piastra scaldante e la soluzione di idrossido di sodio NaOH viene versata rapidamente in quella di cloruro di calcio; 2) la soluzione di cloruro di calcio CaCl2 viene riscaldata fino a 90-95C su piastra scaldante e la soluzione di idrossido di sodio NaOH viene aggiunta goccia a goccia tramite una buretta. Al termine di ognuna delle sintesi il particolato viene lasciato decanta58
re per 24 ore e successivamente lavato per 10 volte con acqua bidistillata per eliminare il cloruro di sodio NaCl in soluzione. Dopo ogni lavaggio il solido viene fatto decantare per un giorno ed il surnatante eliminato per aspirazione sotto vuoto. La scomparsa dei cloruri viene verificata mediante saggio analitico con nitrato d'argento AgNO3. Dopo l'ultimo lavaggio l'eccesso di acqua viene aspirato e la restante sospensione acquosa viene essiccata su CaCl2 anidra sottovuoto fino ad un rapporto Ca(OH)2/acqua di circa 0,82. Questo il tipico rapporto Ca(OH)2/acqua che costituisce il grassello commerciale. Questa pasta viene successivamente dispersa in 1-propanolo ad una concentrazione di 1,15 g di miscela Ca(OH) 2/acqua per 100 cm3 di alcol (0,52 g di miscela di Ca(OH)2/acqua per 100 cm3 di alcol) ed omogeneizzata per 10 minuti con un emulsificatore. interessante notare come la sintesi 2 produca particelle in cui l'effetto di agglomerazione fra le subunit nanometriche molto ridotto. Questo dovuto alla diversa cinetica di formazione: nella sintesi 1 le particelle si formano tutte contemporaneamente con formazione molto probabile di aggregati policristallini. Nella sintesi 2 le particelle si formano in momenti diversi via via che cade la goccia di NaOH e l'effetto di agglomerazione viene parzialmente inibito. La dispersione in alcool di particelle comprese tra nm e micron determina la possibilit di aumentare la concentrazione di idrossido di calcio, migliorando significativamente le condizioni applicative e l'efficacia del sistema con acqua di calce. Si sperimentato inoltre che le dispersioni diluite e ultra-diluite lavorano meglio delle concentrate. Infatti supponendo di avere uno strato pittorico polverizzato e sollevato dal supporto, applicando una dispersione concentrata, l'alcool isopropilico penetra guidato dalla forza di capillarit e trasporta le particelle nei primi strati. In presenza di un'alta concentrazione di particelle, i fenomeni di agglomerazione e di impedimento sterico possono causare solo una parziale penetrazione 59
delle particelle al di sotto dello strato di colore, originando uno strato opaco e riducendo la quantit di particelle tra i grani dei pigmenti e all'interfaccia del supporto. Al contrario, applicando dispersioni diluite o ultra-diluite diverse volte in modo da diffondere la stessa quantit di legante, ma ogni volta con una quantit molto piccola senza rischiare l'agglomerazione e l'impedimento sterico, si possono ottenere delle particelle ben penetranti, senza agglomerazione, n opacizzazione della superficie dipinta. Dopo l'ultima applicazione, le nanoparticelle di idrossido di calcio sono tutte situate al di sotto degli strati pittorici e iniziano la loro reazione con il diossido di carbonio per dare in 7-10 giorni, a seconda delle condizioni termoigrometriche, un piano di cristalli di calcite (Fig. 25).
I trattamenti superficiali conservativi vengono realizzati applicando, a spruzzo, le sospensioni alcoliche di nanocalce sulla superficie di provini normalizzati di malta, le cui superfici sono protette da fogli di car-
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ta giapponese. La dispersione viene applicata tre o quattro volte, e tre o quattro minuti dopo l'ultima (sufficiente per completare la penetrazione della dispersione nei campioni di calce) la carta giapponese viene rimossa. da notare che le dispersioni sono altamente fluide, e che la loro viscosit quasi identica a 1-propanolo puro. A seconda delle condizioni il tempo richiesto per l'evaporazione completa del 1-propanolo di pi di 12 ore. Questo tempo permette alle particelle di Ca(OH)2 di essere consolidate e ai campioni viene permesso di stabilizzarsi per un mese. Dopo questo tempo l'efficacia del trattamento di consolidamento assicurato. Sono state inoltre eseguite prove di laboratorio [49] che hanno utilizzato la dispersione di calce in 1-propanolo come consolidante per campioni di malta con severa decoesione, dovuta alla bassa concentrazione del legante. Tutti i parametri misurati hanno confermato che la dispersione ha fornito un buon consolidamento, senza opacizzazione delle superfici. In particolare la resistenza ai graffi tangenziali e al test di abrasione superficiale (STT) hanno indicato un'alta recoesione degli strati sollevati. La tecnica quindi considerata ideale e applicabile senza ostacoli in tutti i casi in cui sarebbe appropriato utilizzare acqua di calce. 4.5 Propriet e metodo applicativo delle nanocalci La dimensione delle particelle e la stabilit della sospensione rappresentano caratteristiche fondamentali per ottenere un assorbimento efficace e per evitare la formazione di velature bianche sulla superficie pittorica. Le particelle si presentano regolarmente formate, perfettamente piatteesagonali e cristalline. Le dimensioni sono mediamente comprese tra 50 e 300 nm (per fare un paragone, 100 nm sono circa un decimo delle dimensioni del grassello commerciale) [50]. Nel caso di nanoparticelle disperse in alcool, la forma piatta le rende 61
molto assorbenti nei confronti dell'acqua, aiutando cos la loro trasformazione in carbonato di calcio nel momento in cui l'alcool evapora [47]. I vantaggi della particolare forma dei nanoprismi piatti-esagonali rispetto ad esempio ai nanopilastri, e che fa di queste particelle le candidate ideali per la recoesione degli affreschi, sono stati studiati dal The Getty Conservation Institute di Los Angeles circa dieci anni fa, e possono essere riassunti principalmente in due punti. In primo luogo, la plasticit dei preparati idrossido di calcio/acqua, laddove il rapporto lc/la < 1 (Fig. 26), estremamente alta, con una morfologia piatta dovuta alla formazione di strati alternati di nanoprismi di idrossido di calcio e acqua: l'acqua infatti garantisce un buon flusso tra gli strati di calce, in accordo con un meccanismo simile a quello responsabile delle buone propriet lubrificanti della grafite. Il secondo vantaggio che la reazione tra l'idrossido di calcio e il diossido di carbonio, che strettamente dipendente dalla presenza di acqua indispensabile per la solubilizzazione del diossido di carbonio per dare anioni carbonio, pu procedere in accordo con le migliori cinetiche per garantire perfette propriet di adesione/coesione nel manufatto che deve essere consolidato, poich l'acqua intrappolata nell'idrossido di calcio fortemente trattenuta contro l'evaporazione. Questo si traduce quindi in una migliore reazione di carbonatazione. In Fig. 27 sono mostrate due particelle, una esagonale (A) ed una prismatica (B), dell'ordine di 100 nm, evidenziando come anche il carbonato di calcio formatosi abbia dimensioni submicrometriche. Con particelle di tali dimensioni possibile raggiungere una maggiore profondit di penetrazione e una maggior grado di conversione calcecarbonato.
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Fig. 26: nanoprismi di idrossido di calcio: in alto, il rapporto l c/la determina la morfologia piatta delle particelle; in basso, la formazione di strati alternati di nanoprismi di idrossido di calcio e acqua grazie alla morfologia piatta [20]
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Fig. 27: Immagini TEM di due particelle in sospensione di dimensioni nanometriche: Ca(OH)2 di forma esagonale (A), CaCO3 di forma prismatica (B) [47].
Le particelle cos formate tendono a riempire le cavit maggiori e gli spazi intergranulari, senza occludere i pori originali. Questi vengono rivestiti e diminuiscono di dimensione, rallentando cos l'assorbimento d'acqua. La concentrazione dell'idrossido di calcio, rispetto ai trattamenti tradizionali, notevolmente superiore, passando dai circa 1700 mg/l dell'acqua di calce ai 7/8 g/l delle soluzioni nanometriche. Le particelle inoltre, quando disperse in soluzioni alcoliche, possono essere utilizzate anche su pigmenti sensibili alle soluzioni alcaline. Le soluzioni si dimostrano essere stabili e quindi le particelle non precipitano prematuramente. Inoltre, non dovendo eseguire ripetute bagnature delle superfici, si riduce drasticamente il pericolo di riportare in soluzione eventuali sali solubili.
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Penetrando nella struttura del materiale degradato, gli permettono di avere un comportamento omogeneo rispetto alle sollecitazioni esterne, ed essendo di facile applicazione lasciano la possibilit di ripetere il trattamento senza difficolt, anche in maniera combinata con desolfatanti. Gli effetti del trattamento su alcuni litotipi naturali (calcari, Pietra Serena) sono stati valutati mediante indagini in microscopia elettronica a scansione (SEM). I risultati ottenuti mostrano come si riescano a raggiungere profondit di penetrazione variabili da 1mm a circa 30 mm [47] e come la nanocalce riempia i pori intergranulari senza occluderli completamente (Fig. 28)
Fig. 28: micrografie al SEM: a sinistra, il calcare dopo il trattamento con nanocal ce; a destra, l'effetto della formazione di CaCO 3 sulla porosit del materiale (profondit non specificata) [51].
L'azione consolidante superficiale del trattamento viene valutata mediante prove come lo Scotch Tape Test (STT) (Fig. 29), mentre gli effetti sul comportamento del materiale nei confronti dell'acqua sono stimati mediante misure di capillarit per immersione totale.
Fig. 29: verifica del potere di ripristino delle propriet meccaniche mediante STT; da sinistra a destra: prima del trattamento; dopo 6 applicazioni; dopo 12 applicazioni [39].
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Durante il consolidamento di affreschi si applica la dispersione di particelle e si rimuovono le compresse umide di cellulosa usate per mantenere la superficie umida (Fig. 30), in modo da favorire la lenta formazione di carbonato di calcio. Lapplicazione viene effettuata a rifiuto mediante pennello, con protezione delle superfici con carta giapponese (washi), una carta porosa e molto fine (Fig. 31), oppure mediante nebulizzazione senza carta giapponese, ripetendo le applicazioni pi volte dopo la completa asciugatura.
(a)
(b)
(c)
Fig. 30: differenti fasi di applicazione di nanoparticelle di Ca(OH) 2 nel consolidamento di un affresco: applicazione della dispersione di nanoparticelle (a) e rimozione delle compresse di cellulosa usate per mantenere la superficie umida, in modo da favorire una lenta formazione del carbonato di calcio (b-c) [52].
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I pennelli utilizzati devono essere a setola morbida di medie dimensioni, e mantenuti ben puliti. Nel caso di nanocalci ottenute con dispersioni alcoliche, le nanomolecole vengono prima diluite nell'alcol isopropilico, poi spruzzate o pennellate sulla superficie dell'opera d'arte o, se questa molto fragile, della carta giapponese interposta a protezione (Fig. 32) [52].
Fig. 32: applicazione di carta giapponese su intonaco affrescato, preliminare all'operazione di consolidamento [52].
L'applicazione eseguita dall'alto verso il basso, per settori omogenei. Nel momento in cui la superficie rifiuta l'assorbimento della sospensione o, in altre parole, si raggiunta una completa saturazione, il trattamento pu considerarsi ultimato: le particelle penetrano sotto la superficie pittorica, che viene trattenuta dalla carta durante tutta l'operazione, e si attaccano direttamente all'intonaco. Una leggera pressione del colore sollevato (Fig. 33) provvede poi a reincollarlo al sostegno sottostante integrato dalla nanocalce. Quando la carta tornata perfettamente asciutta (generalmente dopo circa un'ora) viene distaccata (Fig. 34) e si provvede alla ripulitura [53]. Effetti apprezzabili di consolidamento si acquisiscono normalmente
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dopo un numero di applicazioni che ovviamente legato alla concentrazione selezionata: pi la dispersione diluita, maggiore il numero di applicazioni richieste. Si va normalmente da 1-2 applicazioni per la pi concentrata a 10-12 per la pi diluita, ma talvolta pu essere sufficiente anche un numero inferiore di applicazioni.
Fig. 33: dettaglio di pittura murale con evidente esfoliazione (flaking) della pellicola pittorica [52].
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In seguito al trattamento, anche dopo solo poche ore, potrebbero emergere sulla superficie leggere velature bianche, dovute alla quantit limitata di particelle che non riescono a penetrare. Queste potranno essere eliminate facilmente mediante tamponatura con acqua deionizzata (ossia priva di sali), o con impacchi di polpa di cellulosa e acqua deionizzata per circa sei dieci ore. Terminata lultima applicazione necessario attendere 5-7 giorni prima delle prove di pulitura e verifica delle propriet meccaniche (adesione/coesione) della superficie [50]. In pochi giorni si produce un significativo effetto consolidante sulle superfici trattate. Questo particolarmente importante per i siti archeologici, dove la conservazione in situ solitamente richiede un intervento immediato per proteggere il dipinto ed evitare la perdita completa dello strato pittorico. Il consolidamento di stucchi (Fig. 35) per mezzo di applicazioni di sospensioni stabili di idrossido di calcio pu presentare alcune differenze importanti rispetto a quanto visto per le pitture murali.
Fig. 35: applicazione di consolidante a pennello su stucchi con interposta carta giapponese [52].
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Sottoposti spesso a levigatura, battitura e lucidatura, gli stucchi infatti si caratterizzano per una certa compattezza che presuppone l'impiego di soluzioni molto diluite. Le sospensioni adottate possono essere fino a dieci volte meno concentrate rispetto a quelle usate per le pitture murali. In questi casi quindi risulta spesso utile l'applicazione della sospensione mediante uno spruzzature manuale a getto regolabile. Nel caso di materiale lapideo, le nanoparticelle di idrossido di calcio possono essere applicate con una procedura mediante immersione, spray o iniezione. importante che la zona degradata della pietra sia completamente saturata con il prodotto, altrimenti non si pu escludere un consolidamento incompleto. Si dovrebbe inoltre evitare una rapida evaporazione del solvente. Se necessario il trattamento pu essere ripetuto tra gli 8 e i 10 giorni. La quantit di prodotto necessario dipende dalla porosit del materiale e dalla profondit del degrado: tipici rapporti sono intorno ai 100ml/m2, ma sono comunque possibili anche quantit pi alte [54]. In generale, l'applicazione delle sospensioni stabili di idrossido di calcio non richiede particolari accorgimenti tecnici o operativi. Inevitabilmente, per, sono da considerare alcune limitazioni e accorgimenti. Usando le nanoparticelle si evita di apportare acqua sul dipinto essendo la sospensione in alcool isopropilico, ma in realt sovente viene comunque aggiunta una percentuale d'acqua per poter attivare la carbonatazione. Inoltre una grande difficolt risulta essere quella di calibrare bene la permeabilit del supporto per poter applicare la diluizione giusta di nanoparticelle ed evitare sbiancamenti anche importanti in superficie. Questo effetto collaterale, rappresentato dalla emersione di vere e proprie velature bianche, pu comunque essere ridotto: le velature possono essere rimosse per mezzo di spugnature o impacchi di acqua deionizzata, applicando il prodotto fino a raggiungere il limite di assorbimento del supporto. Inoltre la capacit di sospendere il trattamento 70
con le nanoparticelle appena prima della completa saturazione del supporto consente comunque di ridurre al minimo la formazione degli sbiancamenti. La ripetizione del trattamento a distanza di alcuni anni non prevede alcuna controindicazione: la porosit della superficie trattata con idrossido di calcio, infatti, pur riducendosi, non risulta annullata e questo consente anche l'applicazione di altri eventuali consolidanti che dovessero risultare pi efficaci nel futuro. Il metodo pu essere utilizzato in numerose occasioni, non ultima la protezione di supporti lapidei, ma sempre opportuno procedere a un'attenta valutazione delle peculiarit del supporto e delle alterazioni: qualora le alterazioni siano macroscopiche, per esempio, l'applicazione del metodo non risulta adeguato; allo stesso modo, la ricoesione di frammenti completamente distaccati non favorita dall'azione consolidante non cos rapida ed elevata; infine, quando grandi quantit di solfati solubili (come solfati di sodio o magnesio) sono presenti nel dipinto, il consolidamento con nanoparticelle di idrossido di calcio non produce effetti durevoli. Infatti gli ioni solfato possono reagire con l'idrossido di calcio per dare una reazione di doppio scambio, producendo gesso leggermente solubile (solfato di calcio bi-idrato). Il risultato finale la mancanza di un vero effetto consolidante. Inoltre, la recristallizzazione del nuovo gesso porta alla formazione di gi menzionati sbiancamenti sulla superficie dipinta [46]. Ca ( OH )2 + Na 2 SO 4 + 2H 2 O CaSO 42H 2 O + 2NaOH Prima di usare le nanoparticelle i restauratori hanno provato ad usare anche le microdispersioni, ottenute disperdendo finemente in alcool, tramite bagno a ultrasuoni, del grassello di calce, a pari concentrazioni. Le prove di confronto tra nanodispersioni e microdispersioni hanno dato ad alte concentrazioni (0,067 moli/litro) entrambe imbianchimen-
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to, ma le aree trattate con nanocalce venivano ripulite con pi facilit. Questi risultati hanno consigliato perci di diluire maggiormente l'applicazione da stendere sulla carta giapponese che viene collocata sulle parti da restaurare. In definitiva perci, il trattamento con nanoparticelle di calce risulta essere attualmente una buona soluzione per il restauro di affreschi e materiali lapidei, preferibile ai trattamenti tradizionali e dalla sicura efficacia, compatibilit e ritrattabilit. 4.6 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalce in Italia 4.6.1 Gli affreschi del complesso Agostiniano di Santa Maria delle Grazie di Gravedona (CO) Lintervento stato condotto su un dipinto murale raffigurante Matteo Evangelista posto sulle facciate esterne del chiostro del complesso (Fig. 36).
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Il dipinto, che fa parte degli apparati pittorici del chiostro databili tra 1467 e il 1530, stato eseguito su un intonaco costituito da un impasto di calce magnesiaca e sabbia grossa il cui rapporto legante:inerte 1:1. La tecnica pittorica a calce con aggiunta di leganti organici. I pigmenti identificati sono principalmente composti da azzurrite, ocra gialla e rosso di marte. La superficie pittorica, contrariamente allintonaco del supporto, risultava notevolmente compromessa da tutta una serie di fenomeni di degrado che rendevano il quadro conservativo complessivo molto preoccupante (Fig. 37) .
In particolare il viso del santo, gi compromesso da lacune diffuse, presentava un vistoso quadro decoesivo e nella zona frontale sinistra tutta una serie di microsollevamenti della pellicola pittorica (Fig. 38). Il dipinto era stato oggetto di una parziale indagine nel dicembre 2000 solo nella sua parte inferiore e si rendeva quindi necessario completare
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il quadro conoscitivo con ulteriori indagini sulla rimanente parte. Il volto di San Matteo, per la gravit del suo stato, che era da mettere in relazione allalto tasso di solfatazione riscontrato, stato prescelto per verificare se nelle condizioni di avanzato degrado in cui la pellicola pittorica si trovava fosse stato possibile ottenere attraverso lapplicazione delle nanoparticelle un effetto consolidante tale da permettere lesecuzione delle successive operazioni. Il trattamento stato condotto quindi prima di eseguire la desolfatazione.
Uno degli obiettivi di questa seconda campagna di indagini stato quello di individuare i sali presenti nella struttura e quantificarne il contenuto. I risultati evidenziarono un alto contenuto salino nella parte superiore dellaffresco (Fig. 39); il tasso di salinit si riduceva man mano che si scendeva, fino a stabilizzarsi.
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Fig. 39: punto di prelievo del campione con il pi alto tasso di solfati [13]
Dalle indicazioni raccolte nelle prove preliminari emersa la possibilit di poter controllare in maniera adeguata il processo applicativo delle nanoparticelle in relazione allo stato di conservazione della superficie dipinta, utilizzando un pennello di setola morbida, interponendo un foglio di carta giapponese (Fig. 40).
Le soluzioni applicate avevano le seguenti caratteristiche: soluzione alcolica di Ca(OH)2 costituita da particelle con gran-
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dezza compresa tra i 50 e i 300 nm e con una concentrazione di 7/8 g/l soluzione alcolica di Ca(OH)2 costituita da particelle con grandezza compresa tra i 200 nm e i 2 3 m e con una concentrazione di ca. 4 g/l Le particelle risultate idonee per il trattamento avevano dimensioni comprese tra i 50 e i 300 nm . Il ciclo applicativo si svolto nel seguente modo: prima applicazione della dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio (Fig. 40); dopo 18 ore, impacco di carbonato di ammonio all8% al fine di ridurre il contenuto in solfato dalla superficie (Fig. 41); secondo trattamento con nanoparticelle (Fig. 42); dopo 4 ore, impacco di acqua deionizzata in polpa di carta (Figg. 43-44).
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Fig. 42: dopo il primo trattamento con nanoparticelle e successivo impacco di carbonato d'ammonio [13].
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Fig. 43: dopo il secondo trattamento con nanoparticelle e successivo impacco di acqua deionizzata in polpa di carta [13].
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Fig. 44: particolari del dipinto dopo il trattamento: si nota una maggiore vivacit dei colori e una maggiore coesione dello strato pittorico [13].
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Le prove condotte hanno evidenziato che lapplicazione di nanoparticelle di idrossido di calcio pu avvenire anche in fase di preconsolidamento delle superfici pittoriche con risultati molto soddisfacenti. Lefficacia consolidante del trattamento stata verificata anche in presenza di un alto contenuto di solfati. La superficie pittorica sollevata si riadagiata al substrato dopo la prima applicazione e la decoesione della pellicola pittorica rientrata permettendo di eseguire le operazioni successive. Il sistema superficie pittorica /consolidante venutosi a creare a seguito del trattamento con nanoparticelle di idrossido di calcio completamente compatibile con la struttura di partenza. In definitiva quindi, considerati i risultati ottenuti, il metodo si pone come valida alternativa ad interventi dello stesso tipo finora eseguiti con materiali organici. 4.6.2 Gli affreschi di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (Chiostro Verde nella basilica di Santa Maria Novella a Firenze) I dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (Chiostro Verde della Basilica di Santa Maria Novella, Firenze) sono stati restaurati nel 2000 mediante il trattamento a base di nanocalci disperse in 1-propanolo. Le immagini sottostanti (Figg. 45-46) mostrano una porzione del dipinto contenente una decorazione geometrica, prima e dopo il trattamento. Il deterioramento era dovuto principalmente a esfoliazione e a polverizzazione dello strato pittorico, che richiede un pre-consolidamento. Normalmente questo si ottiene usando una miscela di calce e caseina, ma questa introduce un materiale incompatibile (la caseina) nella struttura del dipinto murale. Si applicata allora una miscela con calce/dispersione 1-propanolo, che totalmente compatibile con la matrice organica del supporto. 80
Fig. 45: porzione di uno dei dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli prima del restauro [49].
Fig. 46: porzione di uno dei dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli dopo il pre-consolidamento effettuato con una dispersione di nanocalce in 1propanolo [49].
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La dispersione viene applicata usando un pennello, proteggendo nel frattempo pezzi di 30x30 cm della superficie del muro con fogli di carta giapponese. La carta giapponese permette alla dispersione di essere applicata sulla superficie dipinta senza arrecare i danni provocati dalla rimozione meccanica della polvere di pigmento e/o di frammenti. La distribuzione dimensionale dei pori della carta giapponese viene selezionata in modo che tutte le particelle di Ca(OH)2 della dispersione calce/alcool possano penetrare nel muro senza lasciare alcun residuo sulla superficie della carta. Per prima cosa il muro viene trattato con 100 ml di dispersione contenente 0,5 g di Ca(OH)2 per 100 ml di 1-propanolo e lasciato asciugare per una settimana. Questa dispersione leggermente meno concentrata rispetto a quella testata in laboratorio (0,625 g per 100 ml), come precauzione contro il rischio di formazione di pellicole bianche sulla superficie del dipinto. Una seconda applicazione di 70 ml della stessa dispersione viene poi effettuata con la stessa procedura, e lasciata asciugare per 10 giorni. Dopo questo pre-consolidamento, l'affresco stato conservato utilizzando il metodo Ferroni-Dini. I risultati sono fondamentalmente gli stessi di quelli ottenuti con la tecnica a base di caseina, ma con l'importante differenza che non vengono introdotti permanentemente materiali organici nella struttura del dipinto, che potrebbero provocare effetti dannosi a causa della proliferazione di microrganismi, o a causa delle differenti propriet fisicochimiche del materiale organico [49]. 4.6.3 Gli stucchi della Cappella della Madonna di Lourdes nella Chiesa di S. Giovanni Evangelista di Venezia La laguna veneziana presenta un particolare contesto ambientale e microclimatico che ha sempre posto problematiche peculiari, sia riguardo l'impiego di opportuni materiali in edilizia storica, sia riguardo le tec82
niche di esecuzione sia, infine, riguardo i metodi di intervento conservativo messi a punti per contrastare la massiccia azione degli agenti di degrado tipici di Venezia [55]. Lo stucco veneziano utilizzato soprattutto per i rivestimenti parietali, per figurazioni a rilievo decorative o per la definizione di elementi architettonici. un materiale molto compatto e resistente, tuttavia in molti casi si sono manifestate forme di degrado anche molto avanzate. Numerose evidenze sperimentali hanno tra l'altro dimostrato che in alcuni casi stato proprio l'impiego di prodotti di restauro a concorrere all'accelerazione dei naturali processi degradativi [56]. Spesso infatti, a causa della loro minore durabilit, sono soggetti all'azione degradativa molto pi del substrato stesso, di natura inorganica, su cui sono stati applicati. Purtroppo tali effetti non sono solitamente prevedibili. Il complesso architettonico oggetto dell'intervento di restauro stato realizzato nel 1591, quando i confratelli della Scuola di San Giovanni Evangelista decisero di ampliare la chiesa preesistente. La committenza prevedeva la costruzione delle due cappelle laterali, separate da un corridoio che conduceva al cortile interno dell'abitazione signorile confinante. Questo ampliamento della chiesa gotica confer all'edificio la sua struttura architettonica conclusiva, cos come appare tuttora. La cappella fu oggetto di interventi rilevanti tra il 1872 e il 1885, occasione in cui venne ridedicata alla Madonna di Lourdes. Infatti, dall'archivio della chiesa, risulta una completa rivisitazione dell'ambiente: dall'esecuzione delle decorazioni a stucco alla scelta degli arredi e alla stessa messa in opera del pavimento. Lo stato di degrado dei rivestimenti a stucco e delle figurazioni a rilievo era piuttosto avanzato tanto da richiedere un intervento di pre-consolidamento. L'umidit di risalita infatti aveva generato effetti di disgregazione riscontrabili anche sulla superficie decorata a stucco della parete sinistra della cappella e delle murature, associati anche ad efflorescenze saline, evidenti fino alla cornice del piano di imposta. Erano visibili, inol83
tre, le alterazioni provocate dalle infiltrazioni di acqua meteorica dal coperto. Sul soffitto a cassettoni erano notevoli le fessurazioni e i sollevamenti della pellicola pittorica con conseguente diffusa caduta della stessa, a volte accompagnata anche dalla perdita degli strati preparatori sottostanti accentuati specialmente sul lato esterno. La tipologia del degrado del film pittorico (arricciamento della pellicola) faceva presupporre l'utilizzo di un legante sintetico, il quale poteva essere attribuito ad un intervento successivo di ridipintura. Sulla parete sinistra in corrispondenza del corridoio interno sono andate perdute, sempre a causa dell'umidit di risalita, gran parte delle decorazioni a stucco. Le lacune formatesi hanno messo in evidenza gli strati sottostanti mostrando le cantinelle di supporto e gli strati preparatori. Si sono riscontrate le tipiche stesure stratigrafiche di uno stucco: fondo a base di inerte a cocciopesto, strato di calce e sabbia, stesura finale a base di calce e polvere di marmo con aggiunta di pigmento. Prima dell'intervento di restauro sono state utilizzate tecniche diagnostiche indirizzate alla determinazione esatta della composizione e delle tecniche d'esecuzione delle decorazioni dipinte, nonch dello stato di degrado dei manufatti. In particolare si cercato di determinare il contenuto di eventuali sali, informazione importante ai fini della sperimentazione che si intendeva condurre mediante le dispersioni di nanocalce. Infatti la persistenza di soluzioni saline dopo il trattamento avrebbe potuto compromettere gli eventuali effetti positivi da esso generati. I prelievi sono stati eseguiti sugli stucchi delle pareti e del soffitto. Gli stucchi delle pareti laterali sono risultati composti da calce, sabbia e polvere di marmo. Su alcuni compariva uno strato pittorico, presumibilmente originale, a giallo di cromo, bianco di bario e bianco di zinco, mentre risultata ovunque una stesura di rifacimento in alcune aree decoese, costituita da una miscela di bianco di titanio, ocre e terre naturali. Le analisi dei sali solubili effettuate sugli stucchi, sull'arriccio a calce 84
e sabbia e sul rinzaffo a cocciopesto hanno presentato cloruri con concentrazione massima di 1,5% in peso e un campione ha presentato anche solfati in concentrazione 8%. Su tutti i campioni si evidenziata una piccola frazione di nitrati (0,2 %). Gli stucchi del soffitto sono risultati composti da gesso, mentre tutte le decorazioni a rilievo e gli stucchi di rivestimento sono a base di calce. I test applicativi sono stati quindi eseguiti su due aree selezionate (chiamate zona 1 e zona 2) delle pareti, le quali presentavano essenzialmente due tipologie di degrado. La zona 1 con polverizzazione degli strati inferiori, mostrava la presenza di evidenti lacune anche se le parti superficiali ancora presenti mostravano una discreta coesione; la zona 2 presentava evidenti sollevamenti fino a completo distacco degli strati superficiali, con quest'ultimi estremamente fragili ed in parte friabili. Sono state delineate due aree, di dimensioni 40 x 15 cm, e si deciso di intervenire secondo due procedure sulla base della consistenza e della scabrezza dei materiali. L'applicazione indicata con P1 stata utilizzata nella zona 1 ed basata sull'uso del pennello con cui il prodotto stato dosato direttamente sulla superficie protetta con carta giapponese. Sulla zona 2, adiacente alla precedente, essendo impensabile il trattamento a pennello data la scarsa consistenza degli strati superficiali, si impiegato un nebulizzatore (procedura P2). L'intervento non ha richiesto la pulitura della superficie, operazione tra l'altro impossibile da effettuare data l'estrema fragilit del materiale. L'applicazione del trattamento stata suddivisa in due fasi: la prima ha previsto l'impiego di circa 400 ml di dispersione a concentrazione 4,5 g/l, la seconda, a distanza di circa 24 ore, ha richiesto 100 ml della dispersione a concentrazione 2,2 g/l. Sono state applicate quantit di prodotto consistenti; nonostante questo non si sono evidenziate alterazioni, almeno a livello visivo, delle 85
caratteristiche morfologiche delle superfici. Il materiale penetrato in grandissima parte e non sono state alterate le cromie presenti a livello di strato superficiale. L'analisi diffrattometrica non ha fornito informazioni utili sugli effetti del trattamento riguardo agli strati superficiali a base di calce e polvere di marmo, data la composizione del tutto omogenea del materiale (calcite al 95%). Risultati invece pi interessanti ed effetti evidenti si sono registrati a livello dello strato interno a base di inerte a cocciopesto per il quale si osservato un netto aumento della frazione carbonatica (legante) per effetto del trattamento. Sulla zona 1 sono stati eseguiti numerosi scotch tape test, prima e dopo il trattamento. Le misure effettuate trascorsi 35 giorni dall'applicazione hanno riguardato non solo le parti a vista, ma anche gli strati interni dello stucco messi a nudo dalla presenza di ampie lacune. I risultati ottenuti hanno evidenziato un apprezzabile effetto di ricoesionamento, sia sulle parti pi incoerenti (strati interni), sia sugli strati superficiali (comunque pi compatti). Lo scotch tape test ha fornito informazioni anche sulle propriet meccaniche delle superfici. In particolare ha consentito di esprimere il grado di coesione superficiale dei materiali esaminati. La tecnica risultata poco invasiva ed eseguibile in situ. Dai risultati ottenuti dai test sperimentali si evince quindi che il trattamento di preconsolidamento risultato soddisfacente [57]. 4.6.4 Gli affreschi della Cappella del Podest al Museo del Bargello di Firenze Il ciclo di affreschi sul quale stato eseguito l'intervento opera della scuola di Giotto (XIV secolo) ed piuttosto famoso per la presenza, in una scena, di una figura riconosciuta come il ritratto di Dante (Fig. 47). I dipinti, scialbati alla fine del '500, sono stati in seguito oggetto di svariati interventi di restauro che li hanno in parte snaturati a causa 86
di reintegrazioni, ridipinture o fissaggi eseguiti con resine. Le scene oggetto di restauro sono le Storie della Maddalena di San Giovanni Battista e il Paradiso. Il lavoro, svolto sotto la direzione dell'Opificio delle Pietre Dure, prevedeva la sperimentazione di nanomateriali per risolvere una problematica che non si inseriva solo nell'ambito del pre-consolidamento, ma che era quella di conferire nuovo vigore strutturale, oltre che estetico, alle porzioni di film pittorico ancora integre.
Nel progettare l'intervento, era tuttavia necessario considerare che qualunque procedura di consolidamento che prevedesse l'impiego di soluzioni acquose (ad esempio l'idrossido di bario) provocava la formazione di maculature gialle a causa della movimentazione di sostanze organiche, introdotte nei restauri precedenti, che risalivano verso la superficie pittorica. Queste sostanze costituivano un impedimento anche all'uso di dispersioni in solvente non acquoso perch agivano da impermeabilizzanti per la superficie, rendendo cos necessario l'impiego di sistemi molto diluiti. In questo contesto si inserita cos la possibilit di sperimentare la
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metodologia basata sull'impiego di nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in alcool isopropilico. La sperimentazione aveva lo scopo di determinare in situ quali fossero le reali potenzialit del consolidante e le modalit di applicazione per ottenere le migliori prestazioni. Le zone prescelte per la sperimentazione erano distribuite su di un'intera parete, in prossimit di una finestra; le prove preliminari sono state effettuate su una porzione costituita da pigmento (terra verde) polverulento, ma piuttosto adeso al substrato (zona 1). L'area stata divisa in due parti uguali, 13 x 15 cm 2 ciascuna, e trattata con una dispersione di Ca(OH)2 nanometrico in 2-propanolo, di concentrazione 0,0085 M (lato destro) e 0,0043 M (lato sinistro). L'applicazione stata eseguita a pennello fino a rifiuto, su carta giapponese preventivamente bagnata con 2-propanolo. A superficie asciutta si osservato che entrambe le aree presentavano velatura di intensit proporzionale alla concentrazione usata. Si quindi proceduto con l'applicazione di un impacco d'acqua deionizzata su supporto di polpa di cellulosa, proteggendo la superficie con carta giapponese, per rimuovere l'imbianchimento (tempo di contatto: rispettivamente 15 e 30 minuti per la zona sinistra e destra). Trascorsa una settimana dall'applicazione, sono state eseguite delle prove di assorbimento d'acqua sulle superfici trattate: quella di destra, che aveva ricevuto la dispersione pi concentrata, risultava pi assorbente di quella di sinistra, trattata con un sistema pi diluito. Era evidente come l'eccessiva concentrazione non costituisse un fattore positivo per il consolidamento, ma piuttosto un impedimento alla penetrazione delle particelle disperse. Inoltre l'impiego dell'impacco d'acqua necessario per rimuovere le consistenti velature aveva generato un ingiallimento della zona, rendendo inaccettabile l'adozione di questa metodica per l'intervento. L'unica soluzione ad un simile problema era di effettuare un trattamento preliminare che consentisse di aprire la porosit della superficie, solubilizzando le sostanze organiche altrimenti impenetrabili e favorendo cos la distribuzione del consolidante all'inter88
no della matrice. Per verificare che il 2-propanolo fosse un solvente adatto a questo scopo, stato effettuato un pre-trattamento su due diverse porzioni del dipinto. L'operazione consisteva nell'applicare il 2propanolo, puro o in soluzione con il 20% di acqua a pennello, fino a rifiuto, proteggendo la superficie pittorica con carta giapponese. A superficie asciutta si riscontrato che, mentre la zona trattata con la miscela alcol-acqua, mostrava un discreto ingiallimento ai bordi dell'area interessata, le aree trattate invece con 2-propanolo puro non avevano subito alcuna alterazione indesiderata. Inoltre, la porosit di queste superfici appariva pi aperta e assorbente, priva dell'innaturale lucentezza percettibile prima dell'intervento e conferita dalla presenza di sostanze estranee al dipinto. Si quindi proceduto applicando dispersioni di idrossido di calcio nanometrico a composizione diversa sulle due zone che avevano dato un risultato soddisfacente: 0,0043 M in 2-propanolo contenente il 2% di acqua in peso (zona 2 dx) e 0,0043 M in una miscela contenente 2-propanolo e il 10% d'acqua in peso (zona 3). la presenza di una certa percentuale d'acqua nella dispersione necessaria per assicurare una buona carbonatazione del consolidante. L'applicazione stata ripetuta una seconda volta per entrambe le dispersioni, a distanza di 24 ore dalla prima. Trascorsa una settimana, nelle due zone si riscontrata l'assenza sia di imbianchimenti, sia di maculature; il colore, inizialmente arido, appariva pi consistente, ma senza l'indesiderata lucidit propria della superficie contaminata da sostanze organiche. Visto l'effetto positivo del lavoro, anche altre due zone sono state trattate con la stessa procedura usata per la seconda zona (pre-trattamento con 2-propanolo, poi due applicazioni della dispersione 0,0043 M contenente il 10% d'acqua). La sperimentazione di questo consolidante per affreschi stata affiancata da uno studio colorimetrico di alcune aree specifiche. Sono state cos identificate 6 zone, due a due differenti. Due zone sono state consolidate con l'idrossido di calcio nanofasico, le due zone intermedie 89
sono state lasciate come controllo e le ultime due sono state consolidate col metodo solitamente utilizzato dall'Opificio delle Pietre Dure, vale a dire la pasta cellulosica con idrossido di bario in percentuale variabile, che nel caso specifico risultata dell'8% e con un tempo di contatto di 2 ore e 30 minuti. Per ognuna delle zone sono stati identificati sei punti sui quali sono state effettuate le misure di controllo per evidenziare eventuali variazioni di colore dovute al prodotto consolidante. Le misure di controllo sono state effettuate prima dell'operazione di consolidamento e dopo circa due mesi dalla messa in opera dei consolidanti. Nella zona trattata con idrossido di bario si ha una tendenza alla diminuzione della luminosit e un ingiallimento della superficie, mentre nella zona trattata con idrossido di calcio nanofasico si ha un comportamento opposto con un aumento della luminosit e uno spostamento verso il blu, e anche nelle aree non trattate si hanno variazioni, molto simili per comportamento a quelle della zona trattata con idrossido di calcio nanofasico. Il risultato quindi assolutamente positivo [59]. 4.6.5 Gli affreschi della cripta di San Zeno a Verona Oggetto del presente intervento di restauro sono le pitture murali medievali (XIII e XIV secolo) eseguite a calce, a fresco e a secco nella cripta della Basilica di San Zeno di Verona [60]. Le pitture mostravano un forte degrado, come perdita di coesione dei pigmenti e strato biancastro sulle superfici. Scartate le resine acriliche e fluorate, nonch il silicato di etile, per problemi di alterazioni del cromatismo delle pitture e di rischio di perdita di permeabilit, si deciso di utilizzare consolidanti inorganici. Purtroppo la percentuale di umidit relativa della cripta piuttosto alta e fenomeni di condensazione si alternano frequentemente sui sottili 90
strati pittorici, a stento aggrappati alle superfici di pietra dei pilastri. Vista quindi la complessit del caso in esame, l'impiego di nanodispersioni di idrossido di calcio come materiale consolidante si configurato come il metodo pi promettente, sia per la sua compatibilit con il substrato, sia per la capacit di penetrazione. Le nanoparticelle sono state preparate e caratterizzate secondo la metodologia riportata in letteratura [49]. La fase disperdente pi idonea a questo tipo di trattamento costituita da una miscela di alcol isopropilico (98% in peso) e acqua (2% in peso), che ha la giusta velocit di evaporazione e buona capacit di essere assorbita nella matrice porosa. La presenza di acqua in piccola quantit, inoltre, costituisce un'importante riserva per favorire il processo di carbonatazione del legante. L'intervento vero e proprio stato preceduto da prove di confronto tra due serie di dispersioni, nano e micro, di idrossido di calcio in alcol isopropilico, contenenti il 2% di acqua in peso, a diversa concentrazione. Dopo opportuna sonicazione (15 minuti), 20 l di ogni dispersione sono stati posti sulla superficie del provino (una mattonella di terracotta con stesure di arriccio e intonaco, il cui pigmento era stato stemperato in sola acqua e steso a secco per simulare la decoesione dello strato pittorico). Le dispersioni pi concentrate per entrambe le tipologie di consolidante sono quelle che producono velature pi marcate. Si notano per alcune differenze riguardo l'imbianchimento: quello generato dalla nanodispersione si presenta come un film sottile e lucente, mentre quello prodotto dalla micro simile ad un'efflorescenza ed pi difficile da rimuovere. Le dispersioni pi diluite, invece, sembrano penetrare meglio e non producono evidenti imbianchimenti. Dallo studio fatto emerso che la concentrazione che produce saturazione della superficie trattata pi bassa per le nanodispersioni che per quelle micro. A parit di effetto consolidante (verificato poi nel corso delle applicazioni in situ), si evidenziato che l'efficacia del metodo non soltanto legata alla quantit di materiale introdotto, ma dipende anche dalla sua qualit in termini di morfologia e dimensioni, 91
che ne determinano la superficie attiva e quindi la capacit di interazione col substrato. In sistemi ad elevata area superficiale, come quelli costituiti da nanoparticelle, l'interazione fra ogni singola unit consolidante e la matrice molto favorita e viene ottimizzata quando la concentrazione bassa, perch il moto di ogni particella non impedito dall'ingombro di altre. Invece nei sistemi micrometrici, dove la morfologia irregolare e le dimensioni delle particelle sono confrontabili con quelle dei grani che compongono la matrice, l'approccio del consolidante al substrato avviene in maniera pi disordinata; cos, al raggiungimento del livello di saturazione si produce imbianchimento che, pur non differenziandosi in maniera evidente dalla matrice porosa, non origina un miglior consolidamento. Dopo questi risultati si proseguito con le prove in cantiere, su un totale di 13 zone campione, selezionate in porzioni marginali, ma rappresentative delle molteplici tipologie di degrado. Inizialmente si sono utilizzate nano e microdispersioni concentrate per un massimo di sei applicazioni: per ogni applicazione, eseguita fino a rifiuto, si misurata la quantit di materiale introdotto e si posta attenzione all'eventuale comparsa di depositi superficiali di carbonato di calcio. Su ogni prova e per ogni tipo di pigmento si sono verificati il grado di ricoesionamento dei pigmenti in polvere e la tenuta della riadesione dei sollevamenti e delle scaglie di colore, mediante una procedura univoca di controllo incentrata nella campionatura eseguita per rullaggio di uno stoppacciolo bagnato sulla superficie trattata e nella successiva valutazione a secco della quantit dei residui di pigmento non riadeso rimossi del tampone. Questo sistema ha permesso, per mezzo dell'esecuzione preliminare di un campione di confronto eseguito in zone limitrofe non trattate e del raffronto dei tamponi prelevati dalle aree campione, di valutare l'effettivo decremento della perdita di colore ottenuto con ogni applicazione fino al raggiungimento del massimo grado di consolidamento possibi92
le per ogni pigmento o area degradata. Per la riadesione dei sollevamenti e delle esfoliazioni, sono state testate nanodispersioni in maggiore diluizione. L'idrossido di calcio in microdispersione stato applicato in tutti i casi di rilevata mancanza di coesione dei pigmenti e in presenza di sollevamenti di colore a scaglie o aperti, mentre lo stesso in nanodispersione stato per lo pi utilizzato per la riadesione di sollevamenti a forma chiusa. Si quindi proceduto prima con applicazione di carta giapponese con alcool isopropilico e una piccola aggiunta di acqua demineralizzata per migliorare il contatto del supportante con la superficie da trattare; successivamente si provveduto all'imbibizione delle dispersioni fino a saturazione, al riadagiamento delle porzioni di colore sollevato e delle sbollature, a successive applicazioni della dispersione usufruendo dello stesso supportante ancora aderente alla superficie, e infine all'asciugatura dell'area trattata e rimozione a secco della carta giapponese (Figg. 48-49). Due applicazioni di idrossido di calcio sono risultante mediamente sufficienti a stabilizzare la pellicola pittorica e consentire le successive operazioni di restauro previste, articolate in pulitura, consolidamento di profondit, rimozione e risarcimento delle vecchie stuccature, integrazione pittorica. In conclusione l'impiego dell'idrossido di calcio ha ottenuto esiti positivi in cantiere, ma non senza limiti che si sono rivelati nel corso della sua utilizzazione, vale a dire la diversa capacit di consolidamento delle dispersioni che, a parit di diluizione e di numero di applicazioni, ha determinato un minor grado di ricompattamento dei pigmenti. Nonostante ci, il grado di stabilizzazione della policromia raggiunto da considerarsi sufficiente per la conservazione della decorazione parietale escludendo la futura applicazione di materiali e trattamenti diversi [60]. 93
Fig. 48: pitture nella cripta di San Zeno, prima (in alto) e dopo il trattamento con nanocalci (in basso) [15]
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Fig. 49: particolare di un affresco nella cripta di San Zeno, prima (in alto) e dopo l'applicazione delle nanodispersioni di calce [15]
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4.7 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalci nel mondo 4.7.1 I dipinti murali dei siti archeologici Maya in Messico Le pitture murali delle antiche civilt del Mesoamerica presentano caratteristiche peculiari nell'uso dei materiali, tali da rappresentare oggi una delle pi difficili sfide per i conservatori, anche per via delle particolari condizioni microclimatiche dell'area sub-tropicale che costringono ad un'attenta scelta della pi opportuna metodologia conservativa. Questi dipinti infatti soffrono soprattutto di bio-deterioramento a causa di micro-organismi, batteri e alghe che possono crescere sulla superficie degli strati pittorici ottenendo nutrimento dalla polvere o dai componenti organici dei dipinti stessi. In tali condizioni dunque la compatibilit chimico-fisica dei prodotti da impiegare diventa non solo un'opportunit ma un imperativo categorico da rispettare. Nel sito archeologico Maya di Calakmul (Fig. 50), patrimonio dell'UNESCO, sono state scoperte estese scene pittoriche, misteriosamente sepolte dalle antiche popolazioni Maya, che tornate alla luce e a contatto con l'ambiente, hanno richiesto urgenti intervento di consolidamento dello strato pittorico e dei supporti [61].
Fig. 50: veduta dell'area archeologica dalla sommit della Piramide II [62]
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L'area di Calakmul infatti caratterizzata da un regime climatico subtropicale con temperature pressoch stabili durante tutto l'anno (2535C), valori di umidit relativa estremamente elevati (dal 75% al 95%) per gran parte dell'anno, e una breve stagione delle piogge. Precedenti interventi eseguiti in altri siti dello Yukatan mediante utilizzo di polimeri sintetici mutuati dalle esperienze europee (Paraloid B72, Mowilith 30, Primal AC 33) hanno prodotto, sfortunatamente, effetti spesso disastrosi. Infatti se in ambienti controllati i risultati sono spesso accettabili, in siti archeologici con le condizioni climatiche del Mesoamerica, l'uso di polimeri sintetici produce, dopo pochissimi anni, forte accelerazione delle reazioni chimiche che portano al degrado dei dipinti, come distacco ed esfoliazione delle superfici, perdita di adesione del pigmento e ingiallimento dei polimeri. Le precedenti esperienze hanno perci condotto gli archeologi alla ricerca di metodologie innovative e pi rispettose delle caratteristiche chimico-fisiche e micro-strutturali dei materiali originali, come il trattamento con nanodispersioni di idrossido di calcio. Il sito archeologico di Calakmul si trova nella regione di Peten, nella parte meridionale dello stato di Campeche (Messico), presso il confine con il Guatemala (Fig .51). L'intera serie di edifici che costituivano la citt immersa nella Riserva di Calakmul, un'area protetta di circa 724000 ettari di giungla tropicale. Calakmul costituiva uno dei centri pi importanti della civilt Maya del periodo classico (250-800 d.C.); il sito contiene un gran numero di monumenti scolpiti, e pi di 120 steli che riportano la storia delle popolazioni che lo abitavano. Vi sono evidenze che la citt sia stata abitata per pi di 12 secoli, a partire dal 400 a.C. (periodo Pre-Classico), raggiungendo il massimo sviluppo tra il 600 e l'800 d.C. (periodo Tardo Classico) e quindi venendo lentamente abbandonata intorno al 900 d.C. (periodo Post-Classico).
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Fig. 51: mappa del sito archeologico di Calakmul in relazione con gli altri siti Maya [63].
Calakmul fu scoperta nel 1931 dal botanico Cyrus Lundell, che diede al sito archeologico l'attuale nome, che in lingua Maya significa Ca due, lak vicine, mul colline artificiali (piramidi) o cumuli. L'area urbana di Calakmul suddivisa principalmente in sei aree: Gran Plaza, Gran Acropolis, Acropolis Norte o Acropolis Chik Naab, Grupo Noreste, Grupo Sureste e Pequea Acropolis (Fig. 52).
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Sono stati finora identificati, all'interno delle sei aree, circa 6250 tra edifici, sculture e monumenti quali steli e altari. Nel 1993 nato il Proyecto Arqueologico Calakmul (PAC), che fino al 2005 ha pianificato ed eseguito, di anno in anno, scavi in tutta l'area. Tra febbraio e settembre 2005 sono stati effettuati scavi e restauri in Gran Plaza, Gran Acropolis e Acropolis Chik Naab (o Acropolis Norte) (Fig. 53).
Fig. 53: mappa del complesso archeologico di Calakmul a maggiore scala di dettaglio [65].
Il lavoro si concentrato soprattutto nella Gran Plaza e nell' Acropolis Chik Naab. Nella primo sito la Struttura II (Fig. 54) consta di una piattaforma sulla quale emergono approssimativamente 9 edifici in forma di Acropolis. Gli interventi si sono concentrati su uno degli edifici, denominato Sub II-c1, su vari elementi di stucco modellato policromo, come il fregio della sua facciata principale (Fig. 55) con 20 m di larghezza e 4 m di altezza, in cui si rappresenta un personaggio con caratteristiche di rettile al centro, fiancheggiato da due uccelli con elementi di serpente. Altri elementi in stucco sono due grandi maschere: la prima (Fig. 56), di dimensioni 375 x 170 cm, fa parte della facciata dell'edificio che 99
fiancheggia la scalinata principale che parte dal livello della Gran Plaza e porta alla parte interna del complesso architettonico retrostante, verso sud; l'altra maschera situata nella parte ovest della facciata dello stesso edificio.
Fig. 54: vista aerea della Struttura II in Gran Plaza, prima (in alto) e dopo l'intervento (in basso) [66].
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Fig. 55: fregio nella Substruttura II-c1 durante (in alto) e dopo (in basso) l'intervento di restauro [66] [67].
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Le maschere erano state identificate durante l'esplorazione delle precedenti strutture e si era scoperto che erano state intenzionalmente seppellite usando un insieme di materiali selezionati (pietre con dimensioni ben definite e un gran numero di frammenti di ceramica) e uno strato spesso di riempimento, consistente in stucco di malta e gesso decomposti e calcare. La deliberata e attenta sepoltura indica l'intenzione di preservare questi elementi, probabilmente per ragioni religiose. Le condizioni generali delle maschere sono buone: qualche sezione si separata dal supporto e, in alcuni casi, rotta, ma rimasta in situ. I pigmenti decorativi sono stati trovati anch'essi in buono stato di conservazione. L'esposizione di questi elementi a nuove condizioni climatiche (luce, temperatura e umidit) stata monitorata e controllata per minimizzare i potenziali effetti negativi, mediante l'installazione di co102
perture e limitando la presenza di persone al minimo numero necessario per effettuare le delicate operazioni di escavazione e restauro [68]. L'edificio Sub II-c2, localizzato a sud del precedente e a circa 35 m di distanza, ha anch'esso un'enorme maschera la cui bocca corrisponde a una volta a botte, unica per la zona Maya e per tutto il continente americano di questo periodo (Fig. 57).
Nell' Acropolis Chik Naab i lavori si sono concentrati nel primo gruppo (Gruppo A) e nella Struttura I, dove dipinti murali ben conservati del periodo Pre-Classico (250 600 a.C.) dovevano essere esaminati e restaurati. I dipinti del Gruppo A sono localizzati sullo schienale e sulla parte inferiore della cosiddetta banqueta, una camminata sopraelevata che serve da passaggio e confine tra questa Acropolis e l'area centrale della citt (Fig. 58).
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Fig. 58: veduta esterna (in alto) e interna (in basso) del Gruppo A6 dell'Acropolis Chik Naab, in cui si evidenzia la banqueta, una camminata sopraelevata con un'estesa decorazione pittorica [62].
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I dipinti del Gruppo A6 sono tra quelli che, in seguito al dissotterramento, hanno richiesto maggiori interventi di consolidamento. Essi, infatti, mostravano fenomeni di deterioramento, dovuti principalmente all'azione di infiltrazioni di acqua e di soluzioni saline contaminanti la matrice porosa della parete. L'invecchiamento naturale ha provocato in alcune zone il distacco dello strato pittorico e la polverizzazione della superficie con perdita di coesione tra pigmenti e substrato [69]. Nella Struttura I della stessa Acropolis, i dipinti murali coprivano invece i muri (o i gradoni) della Substruttura piramidale (Fig. 59), datata nel Periodo Pre-Classico. L'edificio quadrato ha una base di 10 m2 ed alto 5 m. Sono state state esplorate le sezioni est e ovest, con la sezione est ben conservata rispetto a quella ovest che risulta solo parzialmente conservata. Questi dipinti costituiscono uno dei pi importanti documenti della storia dell'arte pre-colombiana e un raro esempio di dipinto Maya del periodo Pre-Classico (Fig. 60). I dipinti riproducono scene di vita quotidiana (Figg. 61-63) che possono dare una visione delle relazioni sociali del popolo Maya. Questa scoperta archeologica straordinaria in quanto il popolo Maya, cos come molte altre civilt, rappresentava per lo pi divinit, autorit religiose e governanti; i dipinti che descrivono attivit domestiche e artigianali della popolazione Maya sono state trovate solo nel sito archeologico di Calakmul.
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Fig. 60: dipinti murali del periodo Pre-Classico, che decorano la Substruttura I nel lato sud-est dell'edificio [63]
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Fig. 61: dettaglio del dipinto murale della Substruttura I; la scena mostra un momento in cui viene preparato e servito un pasto [70].
Fig. 62: dettaglio del dipinto murale della Substruttura I; la scena mostra una nobildonna mentre sistema una grande giara di farina di mais o pappa di granturco sulla testa di una serva [71].
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Fig. 63: dipinto murale della Substruttura I: scena di un portatore che trasporta un vaso usando una fascia legata alla fronte [63].
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Nel 2004, sono iniziati gli scavi nel complesso di Chik Naab, gruppo architettonico di circa 2,5 ettari a nord del nucleo principale. Tra i suoi confini sono stati rilevati 68 edifici, di cui la Struttura I la pi alta. Scoperta come un mucchio crollato, era stata prima pulita dei detriti superficiali e poi consolidata prima che fosse scavato un tunnel per esplorare il suo interno. Come molti edifici Maya, la Struttura I ha dimostrato di essere un accrescimento di strutturazioni sovrapposte. I dipinti trovati sui muri della Struttura I misurano 9 x 9 m di base e 8 m di altezza [70]. Sebbene non prodotti mediante la tecnica dell'affresco vera, i risultati delle indagini effettuate suggeriscono che questi dipinti siano stati realizzati con un legame durevole con la superficie del gesso ottenendo un effetto simile all' affresco. I colori usati sono blu, verde e una variet di gialli, rossi e marroni applicati sullo sfondo di uno stucco bianco-grigio con tinta rosata. Alcune delle figure umane dipinte sono sproporzionate, e ci evidente soprattutto nelle dimensioni delle teste e delle spalle. I dipinti mostrano gruppi di uomini, donne e bambini impegnati in differenti attivit. La proporzione delle donne molto elevata paragonata con l'arte Maya in generale e circa un terzo delle figure ci sono donne. La maggior parte delle scene includono immagini di vasi di ceramica, vassoi, e vari tipi di contenitori. Altre scene mostrano persone che preparano dei pasti ed altre che li consumano (Fig. 64). Per consolidare le superfici pittoriche sono state usate nanoparticelle di idrossido di calcio in sospensione alcolica e nanoparticelle di idrossido di bario. Questa formulazione ha dato effetti positivi e un buon consolidamento (con risultati significativi gi dopo una settimana) anche se i dipinti avevano un alto contenuto di sali solfato. Infatti in presenza di grandi quantit di solfati, l'effetto di
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consolidamento dell'idrossido di calcio supportato dall'uso complementare delle nanoparticelle di idrossido di bario, che porta alla formazione di un solfato di bario totalmente insolubile, e quindi inerte [63].
Fig. 64: scena che mostra una donna con un contenitore cilindrico di ceramica [63].
La caratterizzazione chimico-fisica delle particelle, precedentemente all'applicazione, avvenuta tramite misure di diffrazione di raggi X (XRD) e di microscopia elettronica a scansione (SEM). noto come nella tecnica pittorica Maya si utilizzassero estrattivi e resine di piante locali, quali phitecellobium albicans (chucum), bursera simaruba (chaca) e brosimum alicastrum (ramn). L'impiego di
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queste sostanze era esteso alla realizzazione degli intonaci, per lo spegnimento della calce, ma anche alla stesura dello strato pittorico, in cui essi venivano utilizzati come leganti. plausibile che la presenza di resine vegetali nello strato pittorico conferisca caratteristiche idrofobiche alla superficie, che potrebbero risultare essenziali per la conservazione dei dipinti in regioni cos umide. Per valutare l'idrorepellenza dello strato pittorico dei campioni prelevati dal sito, si sono effettuate misure di assorbimento capillare di acqua su un campione staccato proveniente dal Gruppo A6. L'acqua stata fatta assorbire direttamente dallo strato pittorico, valutando l'aumento in peso del campione nel tempo. Le misure sono state effettuate prima e dopo il trattamento consolidante dei campioni con una dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio (denominata dispersione 1). Dopo un primo trattamento con dispersione alcolica di nanoparticelle si registrato un leggero aumento nella quantit totale di acqua assorbita dal campione. Anche la velocit di assorbimento cresciuta dopo il trattamento. Questo dato ha portato all'ipotesi che l'alcool potesse aver solubilizzato in parte la frazione organica, costituita da estrattivi vegetali, presente nello strato pittorico, abbassandone l'idrorepellenza. Anche se a tale alterazione non risultata associata una perdita di pigmentazione, si pensato al modo di limitarne l'entit. A tale scopo stata proposta una diversa formulazione delle dispersioni basata sull'aggiunta di una parte di resina di Ramon (denominata dispersione 2). La resina stata ricavata direttamente dalla pianta, e una piccola porzione di estratto (1 ml) stata diluita con 2-propanolo (9 ml) ad ottenere una dispersione flocculosa della gomma. Sono stati inoltre prelevati 30 ml di dispersione di Ca(OH) 2 in forma di nanoparticelle a concentrazione di 5 g/l. Le due dispersioni sono quindi state unite e trattate in bagno a ultrasuoni per 4 ore, fino ad ottenere una dispersione cineticamente stabile (su tempi di 3-4 ore). La dispersione 111
lattiginosa presentava una tenue colorazione beige-chiaro. stata applicata a pennello e a rifiuto sulla pittura murale, protetta con carta giapponese. Dopo qualche ora dall'applicazione, stato posto sulla superficie un impacco di acqua demineralizzata, per 1 ora circa, allo scopo di mantenere umida la superficie e rallentare il processo di carbonatazione. Al termine del trattamento non si osservato alcun effetto estetico sgradevole (imbianchimento o alterazione cromatica). Dopo il trattamento stata effettuata una misura di risalita capillare, la quale ha evidenziato che l'idrorepellenza stata in buona parte conservata. Difatti, entro le prime due ore di risalita, la velocit di assorbimento paragonabile a quella precedente il trattamento. I buoni risultati hanno suggerito l'opportunit di utilizzare dispersioni contenenti estratti di Ramon per il consolidamento dei dipinti murali di Calakmul. Questo assicura il rispetto del criterio di massima compatibilit chimico-fisica tra agente di restauro e substrato su cui esso viene applicato e di raggiungere quindi un soddisfacente livello di consolidamento. Le immagini seguenti (Fig. 65) mostrano l'effetto della procedura di applicazione delle nanoparticelle sulle superfici dei dipinti.
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Fig. 65: dettaglio dei dipinti murali della Struttura I dell'Acropolis Chik Naab. Le immagini a sinistra mostrano la presenza di solfati e fenomeni di distacco che hanno danneggiato i dipinti; le immagini a destra mostrano lo stesso dettaglio sei mesi dopo l'applicazione della miscela di nanoparticelle di idrossido di calcio/bario [46].
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5. Il nanoidrossido di stronzio
5.1 Il nanoidrossido di stronzio: propriet, sintesi e applicazioni Il nanoidrossido di stronzio Sr(OH)2 , insieme alla nanocalce, un consolidante facente parte degli idrossidi alcalini. Questo materiale ancora in fase sperimentale ma pu avere interessanti applicazioni nella conservazione del patrimonio culturale in luogo di soluzioni molto tossiche come ad esempio l'idrossido di bario. Viene spesso utilizzato anche per l'eliminazione di sali nella pietra, nelle pitture murali e nei rivestimenti in gesso, grazie alla loro alta reattivit con gli ioni solfato [72]. Grazie al suo carattere basico, entrando in contatto con superfici che hanno subito processi di acidificazione per via di agenti di deterioramento, come pietre di tipo carbonatico (calcare, dolomia, marmo), malte e ceramiche [72], pu modificare il loro pH e portare alla loro deacidificazione. L'utilizzo di soluzioni alcoliche, spesso preferite per via del loro carattere volatile, la bassa tensione superficiale, la facile capacit di penetrazione e il rispetto dell'ambiente naturale, assicura l'omogeneit e la profondit di penetrazione neutralizzando l'acidit e riducendo la cinetica del processo di degrado [72]. Una tecnica di sintesi di queste nanoparticelle, oggetto di un recente studio sperimentale [73], quella in fase omogenea a bassa temperatura. Il processo sperimentato produce le nanoparticelle di idrossido di stronzio iniziando da materiali grezzi a basso costo in mezzo acquoso (fase omogenea) e a bassa temperatura (sotto i 100C) tramite precipitazione chimica da soluzioni saline, richiedendo passi operativi molto semplici ed evitando l'uso di solventi organici, apparecchiature specialistiche, lunghi tempi di processo o componenti chimici costosi.
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I materiali impiegati sono il nitrato di stronzio Sr(NO) 3 (purezza del 99,95%) e l'idrossido di sodio NaOH (purezza del 99,99%), utilizzati senza ulteriori processi di purificazione. Quantit appropriate dei due composti vengono dissolte in acqua separatamente in modo da ottenere soluzioni di 0,7 M per il nitrato di stronzio e 0,3 M per l'idrossido di sodio. La soluzione di Sr(NO) 3 viene poi riscaldata fino alla temperatura di sintesi di 60C con un bagno termostatico ad acqua. La reazione ha luogo facendo gocciolare, mediante energica agitazione, la soluzione basica nella soluzione salina di stronzio, mantenendo la temperatura costante al valore di 60C 1C. La selezione delle concentrazioni della soluzione e della temperatura essenziale per raggiungere l'alto grado di supersaturazione necessario per avere una velocit di nucleazione dell'idrossido di stronzio sufficientemente pi grande rispetto alla velocit di accrescimento dei cristalli [74]. Questo infatti un importante requisito per la produzione delle nanoparticelle, dato che una rapida nucleazione, seguita da un lento accrescimento delle particelle, fondamentale per sintetizzare nanoparticelle di alta qualit in termini di uniformit della forma e distribuzione dimensionale. Sebbene la solubilit dell'idrossido di stronzio sia pi alta degli altri idrossidi (calcio, magnesio), le condizioni sperimentali idonee richieste per raggiungere un alto grado di supersaturazione sono ben definite e ottenibili facilmente, e permettono di produrre nanoparticelle di forme regolari, omogenee e con un diametro in media piuttosto piccolo. Quando la precipitazione di Sr(OH)2 completa, la miscela viene mescolata energicamente e continuamente per ulteriori 60 min (tempo di invecchiamento) in modo da disgregare il precipitato bianco nel minor tempo possibile. La sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene poi raffreddata fino alla temperatura ambiente e lasciata decantare per 24 ore. La soluzione supernatante viene aspirata da una pipetta e la sospensione rimanente viene lavata per tre volte con acqua fredda deionizzata (la115
sciando decantare la soluzione ogni volta per 24 ore) in modo da eliminare il nitrato di sodio solubile in eccesso. Infine, la sospensione acquosa Sr(OH)2 viene trattata in un bagno ultrasonico per 30 min per ridurre ulteriormente le dimensioni delle particelle. Tutte le operazioni vengono compiute in atmosfera d'azoto per evitare indesiderati effetti collaterali come la formazione di carbonati derivanti da atmosfere con diossido di carbonio [45]. La morfologia della polvere di idrossido di stronzio cos preparata, indagata mediante la tecnica SEM (Fig. 66) mostra che il campione di Sr(OH)2 costituito da una grande quantit di particelle nanodimensionate, le quali si presentano omogenee, con una forma ben definita e abbastanza regolare (quasi sferica), e una dimensione media molto piccola (circa 30 nm di diametro).
Fig. 66: risultati SEM del materiale Sr(OH) 2 sintetizzato (a e b) mostrano la grande quantit di particelle nanodimensionate; (c) e (d) mostrano le particelle nel detta glio [73].
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L'idrossido di stronzio subisce poi una reazione con la CO 2 dell'atmosfera, che d origine a carbonato di stronzio (Fig. 67).
Fig. 67: diffrazione dei raggi X (XRD) effettuata su nanocristalli di idrossido di stronzio dopo esposizione in atmosfera per 24 ore: si evidenzia la formazione di carbonato di stronzio [73].
Proprio la formazione di carbonato di stronzio indirizza l'utilizzo di questo prodotto al consolidamento dei beni del patrimonio culturale. Infatti, se una dispersione di nanoidrossido di stronzio viene applicata sugli affreschi o su materiale lapideo, potrebbe penetrare dentro i materiali e reagire con il diossido di carbonio, formando carbonato di stronzio. Dato che il volume molare del carbonato di stronzio simile a quello del carbonato di calcio (Tab. 3), si possono evitare tensioni meccaniche all'interno degli strati del materiale. Un altro punto che merita di essere menzionato che l'accumulo di carbonato di stronzio negli strati di intonaco dei dipinti murali potrebbe fornire una funzione protettiva come materiale sacrificale. Infatti il carbonato di stronzio proveniente dal processo di carbonatazione, reagendo con gli inquinanti atmosferici produce solfato di stronzio (celestite SrSO4). La costante di solubilit pi bassa di quella del gesso (Tab. 3), quindi prevalentemente il carbonato di stronzio a reagire 117
con gli ioni solfato e non si arriva al consumo di carbonato di calcio, evitando cos la formazione di solfato di calcio bi-idrato solubile. Test in provetta hanno inoltre rivelato che l'idrossido di stronzio in grado di reagire, oltre che con il diossido di carbonio atmosferico, anche con gli ioni di solfato derivati del gesso. Quindi pu essere usato come nuovo materiale sacrificale sia in affreschi che in restauri di gesso senza i problemi di tossicit tipici delle soluzioni di idrossido di bario.
Costante di solubilit a 25 C (mol/l) Ca(OH)2 Sr(OH)2 CaCO3 calcite SrCO3 stronzianite CaSO4 2H2O gesso SrSO4 celestite 4,8 x 10-5 3,2 x 10-4 3,36 x 10-9 5,60 x 10-10 3,14 x 10 3,44 x 10
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Tab. 3: costante di solubilit e volume molare dei prodotti di calcio e di stronzio a confronto [73].
I dati sperimentali raccolti suggeriscono quindi che i nanocristalli di idrossido di stronzio potrebbero rappresentare una buona alternativa agli altri tradizionali metodi usati nella protezione e nel consolidamento dei manufatti del patrimonio artistico.
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6. La nanosilice
6.1 La nanosilice: propriet e metodi di sintesi La nanosilice un prodotto a base di biossido di silicio (SiO2). Queste nanoparticelle sono di forma sferica e con diametro compreso tra 5 e 100 nm. importante sapere che esistono decine di tipologie di nanosilici, per dimensioni e distribuzione delle particelle, modalit di stabilizzazione, presenza di additivi di vario tipo, e che solo alcune hanno dato risultati apprezzabili per il settore restauro. A seconda delle modalit con cui vengono prodotte, le nanoparticelle di silice possono essere: monodisperse (con una distribuzione dimensionale delle particelle molto ristretta); polidisperse (con una pi ampia distribuzione dimensionale). In generale la nanosilice si presenta come una dispersione colloidale acquosa, e le sue dimensioni si attestano al di sotto dei 20 nm, inferiori quindi sia a quelle dichiarate per le microemulsioni acriliche (40-50 nm) che a quelle della nanocalce (200 nm). Nella soluzione acquosa generalmente sono disperse delle sostanze con funzione anti-agglomerante, come ad esempio lidrossido di sodio. Esso induce la formazione di una carica negativa sulla superficie delle particelle che vengono cos a respingersi lun laltra, garantendo la loro stabilit senza agglomerazioni (Fig. 68).
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Eventuali fenomeni di evaporazione possono per variare la concentrazione delle particelle nella soluzione, con conseguente aumento del rischio di agglomerazione. A parit di altre condizioni (temperatura, pH, contenuto di eventuali altri additivi), le condizioni di stabilit della sospensione acquosa aumentano con il grado di diluizione. Grazie alle ridotte dimensioni delle particelle, la nanosilice [76] si presenta come un liquido molto fluido, anche se ha un residuo secco del 30%, che nella maggior parte delle applicazioni deve essere diluito con 1-2 parti di acqua, portando cos la quantit di silice anche al di sotto del 10%. Prima di essere applicato, la superficie da trattare deve essere ovviamente pulita e risanata da eventuali sali efflorescibili presenti. Il funzionamento molto semplice: pu essere applicata per immersione, mediante pennello o anche a spruzzo con irroratori a bassa pressione, ed infine iniettata tramite siringhe nelle fessurazioni. A seguito dellevaporazione dellacqua, le particelle si legano tra s formando un gel di silice, analogamente a quello che si ottiene dalla reazione del silicato detile (altro materiale molto utilizzato nel campo del restauro per il consolidamento di materiali lapidei), che pu creare dei ponti tra i granuli decoesi di una pietra o di un intonaco (effetto consolidante), o legare particelle di pigmento sulle superfici lapidee (patinature), oppure pu tenere insieme inerti di vario tipo (realizzazione di malte da stuccatura inorganiche). La formazione del gel di silice non avviene solo per evaporazione del veicolo acquoso, ma anche agendo su altri tre parametri: Cambiando il pH (mescolato con la calce si cementa improvvisamente) Miscelandolo con solventi idrosolubili (alcool, acetone) Aggiungendo un sale (metodo per sconsigliato per il settore restauro)
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necessario quindi valutare linfluenza di questi parametri prima di procedere all'utilizzo. Nel caso di sovradosaggio sempre possibile asportarne l'eccesso, prima dell'indurimento, con tamponi imbevuti in acqua demineralizzata. Generalmente il silicato d'etile, date le sue dimensioni a livello molecolare, si dimostra essere pi penetrante. A confronto infatti, il livello di penetrazione di una nanosilice molto inferiore, trattandosi di particelle vere e proprie, anche se nano. Sono stati effettuati dei test comparativi [77] tra i due prodotti (nanosilice e silicato di etile) con provini di pietra, trattati per assorbimento capillare e a pennello, e lasciati reagire per il tempo necessario. Sono stati esaminati tramite misure di assorbimento dacqua per capillarit, di permeabilit al vapor dacqua, e analisi al SEM-EDX. Sui provini di pietra trattati e non trattati si anche proceduto ad un invecchiamento accelerato con soluzione salina secondo la norma UNI-EN 12370, per 15 cicli di cristallizzazione, al termine del quale sono stati pesati i provini per determinare la loro perdita in peso dovuto al degrado delle superfici per la violenta azione del sale. Mentre per lapplicazione tramite assorbimento capillare il silicato detile riesce a permeare lintero provino e impartisce una eccezionale resistenza al provino sottoposto a invecchiamento accelerato con soluzioni saline, nel caso pi vicino alla realt di cantiere, ovvero lapplicazione a pennello, i risultati permettono di affermare che la protezione impartita dai tre sistemi con nanoparticelle risulta discreta, come si evince dalla tabella sottostante:
Trattamento Non trattato Nanoparticelle di SiO2 Nanoparticelle di Ca(OH)2 Nanoparticelle di Sr(OH)2 Silicato di etile
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Il silicato di etile si dimostra essere il consolidante pi efficace, con una perdita % in peso di circa un quinto rispetto al provino non trattato, mentre i sistemi nanoparticellari oscillano tra un quarto e la met della perdita di peso rispetto a quella subita dall'originale. Daltro canto le nanoparticelle lasciano la pietra pi permeabile al vapor dacqua, rispetto al silicato detile, come chiaro dalla tabella sottostante, riportante la variazione di permeabilit al vapore rispetto alla pietra non trattata.
Infine le misure SEM-EDX hanno dimostrato ancora una volta che il silicato detile permea in profondit i provini, mentre la percentuale di silice depositata dalle nanoparticelle rilevante solo in superficie, ovvero entro un millimetro di profondit. Questo risultato concorda con il noto limite delle nanoparticelle, gi riscontrato per quelle di idrossido di calcio [77]. 6.1 Applicazioni della nanosilice in edilizia e nel restauro Le nanoparticelle di silice trovano applicazione sia nel campo dell'edilizia che del restauro. Un materiale in cui viene impiegato con efficacia il calcestruzzo, il quale, in virt della sua struttura composita, costituisce un candidato ideale per lapplicazione della nanotecnologia. Infatti il legante cementizio, ottenuto attraverso una reazione chimica tra cemento e acqua, caratterizzato da una microstruttura con una scala che spazia dai millimetri ai nanometri. Ne consegue che essa pu essere modificata
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ed i prodotti di idratazione controllati e variati, con lobiettivo di migliorare le prestazioni del calcestruzzo, soprattutto dal punto di vista della sua durabilit nel tempo. Ad esempio si possono inserire nella matrice cementizia materiali di rinforzo a scala nanometrica, anche se di costo elevato, come nanofibre e nanotubi di carbonio, cos come si possono introdurre additivi chimici e aggiunte minerali, come il caso della nanosilice. Dispersioni acquose o fanghi di particelle nanometriche di silice amorfa vengono aggiunte per migliorare le prestazioni del calcestruzzo sia allo stato fresco (bassa segregazione) che allo stato indurito (migliori prestazioni a livello meccanico e di durabilit), permettendo la realizzazione di calcestruzzi con elevata resistenza alla compressione e alla flessione, nonch una riduzione della porosit dopo l'indurimento, caratteristica importantissima per la diminuzione dei fenomeni di carbonatazione dei cementi con una maggiore durata dei ferri posizionati all'interno. Inoltre, aggiunta al cemento Portland, la nanosilice pu essere utilizzata per prevenire la reazione espansiva alcali-silice (ASR) nei calcestruzzi con aggregati potenzialmente reattivi [75]. Questa reazione, sviluppandosi fra gli alcali contenuti nel cemento e le fasi reattive agli alcali degli aggregati, si rivelata particolarmente dannosa per il calcestruzzo delle opere idrauliche come le dighe, in quanto il rigonfiamento ad esso associato in grado di provocare disallineamenti, problemi di movimentazione agli organi di manovra degli scarichi ed estesi stati fessurativi. Per prevenire questa reazione vengono di solito utilizzate aggiunte minerali quali il fumo di silice condensato o la pozzolana naturale, ma la nanosilice, essendo costituita da particelle ultrafini di silice amorfa, appare potenzialmente ancora pi efficace. Nel campo del restauro, la nanosilice stata utilizzata come consolidante, grazie agli studi del restauratore Martin Pittertschatscher che l'aveva applicata con buoni risultati per il consolidamento di un intonaco molto poroso [78], e come protettivo, grazie alla sua insolubilit 123
in acqua e alla sua stabilit chimica, termica, alle radiazioni e ai microrganismi: questo materiale produce infatti un film con una buona adesione e uneccellente stabilit. Non porta alla formazione di pellicole superficiali o precipitati che determinano ostruzione della porosit, effetti antiestetici e riduzione della permeabilit. Inoltre, dato che gli strati vengono applicati in uno spessore molto piccolo, i substrati conservano le loro caratteristiche. Alcune applicazioni sono state effettuate anche sulle pitture murali; infatti, considerata la trasparenza di queste nanoparticelle e il loro diametro medio inferiore al potere risolutivo dellocchio umano, si pu ottenere un'ottima barriera fisica per i pigmenti instabili alle principali fonti di attacco chimico e fisico, ma necessaria unattenta valutazione, date le limitate conoscenze attuali, ed in particolare considerando lalcalinit di alcuni tipi di dispersioni di nanosilici. Un recente studio su provini che simulano affreschi deteriorati [79] infatti ha mostrato come siano fondamentali le condizioni applicative e soprattutto la porosit del supporto su cui si vanno ad utilizzare le nanosilici. Da un confronto con nanocalci si evidenziato per entrambi i prodotti una riduzione di assorbimento dacqua ed un ricompattamento dello strato pittorico [80]. Sempre nel campo del restauro stato effettuato un interessante studio [81] su pigmenti organici ricoperti con successo con nanoparticelle di silice utilizzando la tecnica layer-by-layer assembly, che consiste nel ricoprire i pigmenti con pi strati protettivi di nanosilice. noto infatti che i pigmenti organici, anche se utilizzati spesso in pittura, hanno un limitato potere coprente, scarsa capacit di dispersione e soprattutto scarsa durabilit nell'ambiente esterno. Se coperti con nanosilice come strato protettivo, i pigmenti organici potrebbero per migliorare le loro propriet di difesa dai raggi UV, la loro stabilit, ed acquisire maggiore resistenza. Tuttavia sulla superficie del pigmento si pu formare solo uno strato molto fine di SiO 2, che potrebbe non essere sufficiente per conferire al pigmento una maggio124
re propriet di difesa dai raggi UV, inoltre la riproducibilit dei risultati finora ottenuti molto scarsa [82]. La tecnica layer-by-layer assembly permette per di realizzare pi strati di nanosilice sulla superficie del pigmento, conferendo caratteristiche di dispersione degli UV e/o di assorbimento. stato in particolare dimostrato che queste propriet migliorano dopo l'applicazione del secondo e del terzo strato di SiO 2, aumentando cos anche la durabilit nei confronti dell'ambiente esterno. Infine la nanosilice stata utilizzata come consolidante per i materiali lapidei, come nel caso dei capitelli del loggiato del primo ordine della Torre di Pisa. Questi elementi, finemente scolpiti in marmo bianco di Carrara, avevano perso gran parte del modellato a causa del degrado dovuto alla presenza di sali nei pori del materiale e ai noti effetti dell'inquinamento (croste nere), senza tralasciare i danni arrecati dalla naturale esposizione agli agenti atmosferici. Il materiale sopravvissuto si presentava con un aspetto polverulento e incoerente. Per il trattamento di consolidamento, la nanosilice stata dispersa in solvente acquoso e applicata per immersione: in corrispondenza di ogni capitello stata creata una vasca, sigillata con del silicone e riempita con il prodotto. La nanosilice muovendosi all'interno dei pori del materiale riuscita a penetrare dappertutto, riempiendo in poco tempo tutte le cavit, innescando un meccanismo molto simile alla diagenesi delle rocce (il lungo processo geologico per mezzo del quale i sedimenti sciolti si trasformano in dura roccia). Da subito si constatato un notevole aumento della coesione del marmo senza alterazioni nel colore dei capitelli, e grazie agli ottimi risultati ottenuti lo stesso prodotto stato utilizzato per il consolidamento del loggiato dell'ordine superiore [83]. Dal punto di vista della sicurezza, trattandosi di una dispersione acquosa, non infiammabile e non presenta simboli di tossicit, con conseguente riduzione dei fattori di rischio in laboratorio e su cantiere, e riduzione dei costi di trasporto e stoccaggio. Tuttavia essendo un 125
materiale ancora poco studiato, non sono ben noti gli effetti sulla salute della nanosilice. 6.1.1 Esempio di applicazione della nanosilice per il consolidamento di una calcarenite molto porosa Una sperimentazione in laboratorio [84] ha riguardato l'applicazione della nanosilice sulle pietre con una porosit molto alta. In particolare stato effettuato un trattamento con nanosilice su un provino di calcarenite, generalmente nota come pietra gentile, una pietra molto porosa di colore bianco. Questa pietra rappresentativa di molte pietre tenere e porose ampiamente utilizzate negli edifici storici del patrimonio culturale cos come in molti siti archeologici, grazie alla loro facile estrazione e lavorazione a dispetto della loro limitata durabilit. La loro scarsa resistenza ai processi di degrado chimico-fisico le rende particolarmente soggette a problemi di decoesione, perci richiedono trattamenti di consolidamento per ripristinare le caratteristiche fisicomeccaniche sulla loro superficie e l'adesione al supporto non deteriorato. Il trattamento stato effettuato con nanoparticelle di silice disperse in mezzo acquoso, ed stato applicato con diversi metodi (per capillarit e mediante pennello) e differenti quantit di prodotto. Dopo la pulitura con un pennello morbido, i campioni sono stati lavati con acqua deionizzata, in modo da rimuovere la polvere, e poi sono stati asciugati a 60C. Prima del trattamento le pietre sono state stabilizzate in laboratorio in condizioni controllate (22 2C, 45 5% di umidit relativa U.R. ) per 24 ore. Sono stati applicati i seguenti trattamenti. Trattamento A: applicazione per capillarit per un'ora in modo da ottenere la saturazione del materiale da parte della soluzione. Trattamento B: applicazione mediante pennello con diverse applicazioni consecutive fino a rifiuto. 126
Trattamento C: applicazione mediante pennello, in quattro passaggi, con un intervallo di tempo di 10 minuti l'uno dall'altro fino a rifiuto. Trattamento D: applicazione mediante pennello con applicazioni consecutive della met della quantit massima di soluzione utilizzata nell'applicazione B. I dettagli delle applicazioni sono mostrati in Tab. 4.
Trattamento
Metodo di applicazione
A B C
Capillarit Pennello, continue applicazioni fino a rifiuto Pennello, quattro applicazioni con intervallo di tempo
280 200 36
Pennello, consecutive
100
30
Dopo i trattamenti, i campioni sono stati seccati fino a peso costante a T = 22C, U.R. = 40%. Con riferimento alle quantit di soluzione applicate, si notato che l'applicazione del trattamento in diversi passaggi con un intervallo di tempo tra l'uno e l'altro, inibisce l'assorbimento della soluzione, in particolare questo si rilevato molto pi basso rispetto al massimo ottenuto mediante le applicazioni consecutive fino a rifiuto. L'osservazione morfologica dei campioni sottoposti ai differenti trattamenti ha rilevato che il miglior risultato in termini di distribuzione superficiale della nanosilice stato ottenuto dal trattamento D. Infatti comparando la superficie dei campioni trattati e non trattati risultato che il trattamento D non altera l'originale morfologia della superficie della pietra (Fig. 69). Al contrario, i trattamenti A, B e C tendono ad
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allargare le aree di accumulazione del prodotto, nascondendo la morfologia originale della pietra, come si pu osservare in Fig. 70, dove sono evidenti anche delle microfratture nello strato di nanosilice sulla superficie della pietra.
Fig. 69: in alto, superficie della pietra non trattata; in basso, superficie del campione su cui stato applicato il trattamento D (profondit non specificata) [84].
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Fig. 70: morfologia della superficie del campione su cui stato applicato il trattamento A (in alto) e il trattamento B (in basso) [84].
Macroscopicamente, l'accumulo del prodotto porta a un aspetto translucido della superficie della pietra e alla presenza di una polvere bianca di nanosilice. La Fig. 71 mostra le superfici dei campioni di pietra trattati e non, osservati mediante stereomicroscopio, usando luce ra-
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dente. stata inoltre analizzata la variazione di colore mediante un colorimetro a riflessione e non risultano grandi alterazioni cromatiche delle superfici dei campioni trattati rispetto al campione non trattato. Tuttavia la variazione di colore pi bassa risulta essere quella conseguente ai trattamenti A e B, in contrasto con quanto rilevato a occhio nudo. In questo caso la colorimetria sembra perci non essere un metodo ottimale per registrare le propriet di colore delle superfici trattate. Questo pu essere dovuto alla presenza della nanosilice sulla superficie, che realizza uno strato lucido: i fenomeni di riflessione indotti dalle superfici molto lucide hanno potuto infatti causare errori nelle misurazioni colorimetriche in luce diretta.
Trattamento B
Si evidenziata inoltre una penetrazione non omogenea del prodotto sotto la superficie a causa dell'eterogeneit della struttura della pietra, ma abbastanza soddisfacente, nell'intervallo di 5 10 mm sotto la superficie, pi frequentemente di 7 8 mm. stato inoltre determinato con EDX il profilo del contenuto di silice, per i trattamenti A, B e D, fino a 8 mm di profondit. A dispetto delle differenti quantit di soluzione applicate per ogni trattamento, il contenuto di silice sembra essere abbastanza simile nei trattamenti A e D (Fig. 72), mentre il trattamento B quello con la quantit pi bassa. Questi risultati dimostrano che, a dispetto delle quantit di soluzione applicate nei vari trattamenti, la profondit e la distribuzione delle nanoparticelle di silice sono quasi le stesse, quindi la maggior quantit di
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soluzione utilizzata nei trattamenti A e B eccede la massima capacit di penetrazione della nanosilice permessa dalla pietra. In questo senso il miglior trattamento risulta essere il D, essendo in grado di offrire una penetrazione comparabile con gli altri trattamenti ma con una quantit di soluzione applicata pi bassa; inoltre evita l'accumulo di nanosilice sulla superficie che potrebbe derivare da un eccesso di soluzione applicata.
Fig. 72: profilo di distribuzione della silice mediante analisi EDS in riferimento a ogni trattamento [84].
Infine, dal punto di vista della resistenza meccanica, tramite Test di abrasione stato rilevato che l'applicazione di nanosilice ha condotto a un aumento del 7% della resistenza superficiale. 6.1.2 Esempio di applicazione della nanosilice nel sito archeologico di Tajin in Messico Il sito architettonico di Tajin (Fig. 73) rappresenta la pi grande e importante citt preispanica della costa settentrionale del Golfo del Messico. Raggiunse il suo apice tra il IX e il XIII secolo d.C. e conserva costruzioni con dettagliate scene religiose e simboliche scolpite in bassorilievo su colonne, fregi, pannelli e altari, evidenziando la fede e le
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credenze dei suoi abitanti [85]. Il materiale utilizzato in questo sito archeologico la pietra arenaria, che nel tempo ha sofferto di diverse forme di degrado, come esfoliazione, distacco ed erosione, fino alla perdita di estese porzioni dei bassorilievi. Inoltre si sono verificati scolorimento, efflorescenze, deformazione e svariate colonizzazioni biologiche. Taijin infatti circondato dalla giungla, con un clima caratterizzato da alta temperatura e molta umidit per la maggior parte dell'anno, e in prossimit del sito si trovano aree di estrazione petrolifera che costituiscono una forte fonte di inquinamento.
In questo contesto si pensato di operare il consolidamento delle opere mediante preparati con silice colloidale, una sospensione con una determinata frazione in volume di particelle sferiche di SiO 2 in vari solventi. La dimensione delle particelle varia da 30 a 100 nm e, a seconda del solvente, della temperatura e dell'umidit, si ha una diversa sedimentazione. Diversi studi descrivono l'uso della silice colloidale come consolidante per pietre, intonaci e dipinti murali [87]. 132
In base all'analisi petrografica l'arenaria di Taijin pu essere classificata come una litarenite calcarea con frammenti di rocce sedimentarie e quarzo. Quindi l'utilizzo di silice colloidale assicura il rispetto della compatibilit chimica con il materiale originale. Si pensato di preparare un intonaco di ripristino a base di silice colloidale e pietra macinata applicandolo con uno strato sottile, come quello che si otterrebbe con un intonaco di calce. L'intonaco a base di silice ha una consistenza simile alla pietra originale, principalmente grazie alla dimensione delle particelle di aggregato. La coesione anche determinata dalla forma di queste particelle, dal momento che tutta l'acqua in cui dispersa la silice colloidale evapora e solo i cristalli di SiO2 rimangono. L'intonaco di silice colloidale si dimostrato essere ben aderente alla pietra, ma allo stesso tempo facile da rimuovere, dal momento che l'interazione tra intonaco e pietra esclusivamente meccanica e direttamente relazionata alla consistenza superficiale e la disposizione degli aggregati. Infatti se questi non sono setacciati, l'intonaco meno resitente rispetto a quello ottenuto con particelle di dimensioni minori. Nel caso invece di intonaci con aggregati molto fini, risulta molto difficile distinguere l'interfaccia tra pietra e intonaco, se non a livello microscopico. Inoltre gli intonaci a grana fine sono pi facili da applicare, e permettono di realizzare strati molto sottili che si conformano bene ai dettagli dei rilievi. La coesione che apportano fornisce stabilit al materiale influenzandone positivamente anche la durabilit: dopo un anno di esposizione dei materiali alle estreme condizioni ambientali di Tajin, gli intonaci pi fini rimangono invariati. Questi intonaci inoltre non lasciano residui sulla pietra, se non a livello microscopico, e danno buoni risultati anche dal punto di vista del colore, infatti il colore e la consistenza degli intonaci a base di silice e dell'arenaria sono molto simili (Fig. 74). In conclusione si pu affermare che la silice colloidale fornisce una buona matrice microcristallina per la coesione degli aggregati e quindi 133
Fig. 74: applicazione in situ di silice colloidale nel pannello centrale dell'edificio Ballgame. In alto, la zona trattata (nel riquadro) mostra un disegno relativo a Quetzalcoatl; al centro, prove di colore e consistenza prima dell'applicazione di silice colloidale; in basso, la stessa area dopo il trattamento [85].
Valutati dopo un anno di esposizione alle condizioni tropicali e di inquinamento di Tajin, gli intonaci a base di silice colloidale hanno dimostrato di avere una buona durabilit, stabilit e caratteristiche estetiche. Inoltre prove in laboratorio suggeriscono che sono pi compatibi-
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li con l'arenaria di quanto non lo siano i materiali a base di calce. Sono quindi suggeriti anche per futuri interventi conservazione nel sito di Tajin, che continuer ad essere monitorato fino al 2020 [85].
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7. Il nanobiossido di titanio
7.1 La fotocatalisi contro l'inquinamento atmosferico Il problema dellinquinamento atmosferico sta assumendo proporzioni sempre pi drammatiche, con conseguenze negative sia sulla salute umana che sugli edifici del patrimonio architettonico. Le principali fonti di inquinamento sono gli ossidi di azoto (NOX) e di zolfo (SOX), le polveri sottili (PTS), i composti volatili VOC (Volatile Organic Compound) e l'ozono. Gli ossidi di azoto sono formati da miscele di composizione casuale di monossido e biossido di azoto. Il biossido di azoto si sviluppa nell'atmosfera dal monossido di azoto, prodotto in primo luogo dall'utilizzo di combustibili fossili, ad esempio nei motori degli automezzi o nei sistemi di riscaldamento domestico. Con il termine polveri sottili si intende invece l'insieme delle polveri sospese in aria con diametro aerodinamico inferiore ai 10 millesimi di millimetro. Le principali fonti di polveri sottili sono legate all'attivit dell'uomo: processi di combustione (tra cui quelli che avvengono nei motori a scoppio, negli impianti di riscaldamento, in molte attivit industriali, negli inceneritori e nelle centrali termoelettriche), usura di pneumatici, freni ed asfalto. Secondo i dati dell'Agenzia regionale per la Protezione dell'Ambiente (ARPA) della Lombardia, la principale fonte dinquinamento da PM10 costituita dal traffico stradale, causa del 80% delle emissioni totali. Se l'inquinamento (da PM10) venisse eliminato si avrebbe come effetto immediato la diminuzione dei decessi annuali. Basterebbe inoltre ridurlo della met per limitare notevolmente gli episodi di bronchite acuta nei bambini, i ricoveri annuali per cause respiratorie e cardiache, gli attacchi d'asma, oltre ai giorni di lavoro persi a causa di un'indisposizione legata all'inquinamento.
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Con la denominazione di Composti Organici Volatili (VOC) infine viene indicato un insieme di sostanze in forma di vapore, con la capacit di evaporare facilmente a temperatura ambiente. I composti che rientrano in questa categoria sono numerosi. Le concentrazioni urbane dei VOC sono quasi esclusivamente prodotte dalla combustione degli autoveicoli, dalle centrali a carbone, dagli inquinanti di incenerimento e dall'evaporazione di solventi e combustibili. I VOC inoltre vengono generati anche dall'utilizzo di prodotti per la pulizia, dalle pitture, dai pesticidi, da colle e adesivi, stampanti e fotocopiatrici, fumo di tabacco, etc. Il problema dellinquinamento nelle citt, e non solo, noto anche per le conseguenze devastanti di degradazione delle superfici degli edifici e dei monumenti. Attualmente lo smaltimento di inquinanti in matrice acquosa avviene soprattutto attraverso metodi chimici, come ladsorbimento su carboni attivi o i trattamenti diretti con sostanze chimiche (forti ossidanti o agenti coagulanti), che per comportano notevoli costi e presentano rese basse. Poich gli inquinanti organici refrattari ai metodi convenzionali continuano ad aumentare nellaria e nei corsi dacqua di scarico, le leggi e le norme ambientali diventano sempre pi rigorose e severe. Perci, diventa necessario sviluppare nuovi metodi eco-compatibili per labbattimento di questi inquinanti. Le attivit di ricerca si sono concentrate su nuovi metodi di ossidazione denominati processi di ossidazione avanzati (AOP), per la distruzione di specie organiche sintetiche resistenti ai metodi convenzionali. Gli AOP si basano sulla generazione in situ di specie radicaliche altamente reattive, principalmente HO, tramite energia solare, chimica o altre forme. Tra queste, le tecnologie a base di luce solare sono quelle maggiormente eco-compatibili essendo questa una fonte rinnovabile e pulita di energia. La maggiore attrattiva di tali processi che i radicali fortemente ossidanti permettono la distruzione di un ampio range di substrati organici, senza selettivit, ma con unelevata efficienza; in137
fatti in condizioni opportune le specie da rimuovere vengono completamente convertite a CO2, H2O e sali minerali innocui. cos possibile migliorare le condizioni ambientali e combattere lo sporco purificando le emissioni gassose di origine industriale o prodotte da veicoli mediante tecnologie semplici e a bassi costi [88]. Il disinquinamento ambientale ormai un nuovo promettente campo, sia dal punto di vista tecnologico che economico, nel quale la fotochimica sta avendo un grande sviluppo. Intense ricerche hanno fornito le basi per un'ampia applicazione delle tecnologie fotochimiche ai materiali da costruzione. I nuovi materiali in grado di mangiare gli inquinanti atmosferici organici e inorganici applicano il processo della fotocatalisi, reazione chimica che imita la fotosintesi clorofilliana (Figg. 75-76) degli alberi nell'assorbire e trasformare le sostanze inquinanti in elementi non nocivi [89]. Questo fenomeno stato scoperto nel 1972 da Fujishima e Honda, i quali si erano prefissi di scindere lacqua tramite lazione della luce solare (fotoelettrolisi), in analogia a quanto fanno le piante con la fotosintesi [90]. Rispetto a quest'ultima, in cui la clorofilla cattura la luce solare per trasformare acqua e anidride carbonica in ossigeno e glucosio, la fotocatalisi (in presenza di un fotocatalizzatore, di luce e di acqua) genera un forte agente ossidante in grado di trasformare le sostanze. La fotocatalisi quindi un fenomeno naturale in cui una sostanza (il fotocatalizzatore), attraverso lazione della luce di opportuna lunghezza d'onda (naturale o artificiale prodotta da speciali lampade) modifica la velocit di una reazione chimica, spesso velocizzandola o potenziandola drasticamente. In presenza di aria (e conseguente umidit) e luce si attiva un forte processo ossidativo che porta alla decomposizione dei contaminanti organici e di alcuni contaminanti inorganici che entrano a contatto con le superfici fotocatalitiche. Infatti, l'ossidazione della maggior parte degli idrocarburi procederebbe piuttosto lentamente in assenza di sostanze attive catalitiche. 138
Fig. 75: confronto tra la fotosintesi clorofilliana (in alto) e il processo di fotocatalisi (in basso) [91].
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Le sostanze inquinanti e tossiche cos vengono trasformate, attraverso il processo di fotocatalisi, in nitrati di sodio (NaNO 3), carbonati di sodio (Ca(NO3))2 e calcare (CaCO3), innocui e misurabili in ppb (parti per miliardo). Il risultato una sensibile riduzione degli inquinanti tossici prodotti dalle automobili, dalle fabbriche, dal riscaldamento domestico e da altre fonti [89]. La tecnologia della fotocatalisi quindi in sostanza un acceleratore dei processi di ossidazione gi attivi in natura. E i materiali che modificano la velocit di una reazione chimica, attraverso lazione della luce, sono i semiconduttori. Per definizione, un semiconduttore un materiale con una struttura a bande caratterizzata da una banda di valenza (VB) quasi piena, separata dalla banda di conduzione (CB), quasi vuota (Fig. 77).
Metallo (a)
Metallo (b)
Semiconduttore (c)
Isolante (d)
Fig. 77: banda di valenza (in azzurro) e conduzione (in bianco) di metalli, semiconduttori e isolanti: in alcuni metalli la banda di valenza parzialmente piena e funge anche da banda di conduzione (a). In altri metalli la banda di valenza piena, ma la banda di conduzione si sovrappone ad essa (b). In un semiconduttore la banda di valenza piena, mentre quella di conduzione vuota. Il band gap (E) per sufficientemente piccolo da permettere ad alcuni elettroni di transitare verso la banda di conduzione acquistando energia termica (c). In un isolante la banda di valenza piena e un grande salto energetico (E) la separa dalla banda di conduzione vuota. Pochissimi elettroni possono transitare tra le due bande e gli isolanti non conducono elettricit (d) [88].
Durante linterazione degli atomi, la combinazione degli orbitali atomici d luogo ad una serie di orbitali molecolari la cui sovrapposizio140
ne risulta nella formazione della banda di valenza (VB), riempita dagli elettroni, e della banda di conduzione (CB), vuota, ad energia maggiore. Nei metalli, la banda di valenza pu essere parzialmente piena, e quindi fungere anche da banda di conduzione, o piena e la CB si sovrappone ad essa. Perci gli elettroni di valenza possono essere eccitati termicamente dagli orbitali di valenza pieni a quelli vuoti: la banda continua contiene il cosiddetto gas di elettroni che, muovendosi liberamente nel reticolo del metallo, d luogo alla conduzione elettrica. I materiali semiconduttori invece presentano propriet di conduttivit elettrica comprese fra quelle dei metalli e degli isolanti e le due bande, di valenza e di conduzione, distano di un certo intervallo di energia, noto come salto energetico (EBG), la cui ampiezza varia a seconda del semiconduttore e che corrisponde alla minima energia di luce richiesta per rendere il materiale conduttore (Fig. 78). Essendo l'intervallo di energia piuttosto piccolo, un gran numero di elettroni pu essere eccitato termicamente dalla banda di valenza a quella di conduzione. La differenza fra un isolante ed un semiconduttore proprio nel valore del salto energetico, che nellisolante E BG = 410 eV mentre nel semiconduttore inferiore o uguale a 4 eV.
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Quando un semiconduttore colpito da fotoni aventi energia h maggiore del suo EBG, si ha una promozione degli elettroni della banda di valenza alla banda di conduzione con seguente creazione di buchi (vacanze o lacune) h+ al limite superiore della banda di valenza. I componenti della coppia fotogenerata (e h+) sono in grado, rispettivamente, di ridurre ed ossidare una sostanza adsorbita sulla superficie del fotocatalizzatore (Fig. 79). Se il semiconduttore a contatto con acqua, le lacune (h+) possono produrre radicali ossidrilici OH (Eq. 1), mentre gli elettroni (e) fotogenerati sono abbastanza riducenti da produrre, dallossigeno, lanione superossido O2 (Eq. 2). Queste due specie, fortemente reattive, sono in grado di decomporre le sostanze adsorbite. (1) H2O + h+ OH + H+ (2) e + O2 O2
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Lefficacia dellattivit fotocatalitica di un semiconduttore dipende da molteplici e differenti fattori, quali la tipologia e la quantit relativa di fase cristallina presente, la dimensione delle particelle e quindi la loro superficie specifica, la tipologia dei materiali da degradare, il grado di cristallinit, le impurezze, la densit dei gruppi ossidrile di superficie ed il metodo di preparazione. In ogni caso, preferibile disporre di fotocatalizzatori di dimensione nanometrica, perch solo nel campo dimensionale <10 nm entra in gioco la variabile dimensione nelle propriet dei solidi cristallini. In particolare, per ci che concerne i semiconduttori, il controllo dimensionale permette variazioni programmate delle caratteristiche del materiale senza alterarne la composizione chimica. Variando, infatti, la dimensione dei cristalli, possibile variare il potenziale redox della coppia fotogenerata (e - h+). A riguardo, nei nanocristalli, causa lallargamento dellintervallo di energia, i potenziali redox aumentano, anche se la presenza di difetti nel reticolo cristallino pu dare origine a fenomeni di ricombinazione di carica che limitano lattivit fotocatalitica. Dal momento che lattivit fotocatalitica si esplica sulla superficie del fotocatalizzatore, lelevato rapporto superficie/volume che caratterizza un nanomateriale, aumentando la disponibilit di siti superficiali, contribuisce ad incrementare la velocit delle reazioni di foto-decomposizione. Gli atomi superficiali infatti sono caratterizzati da valenze non sature, le quali danno un contributo diverso allenergia libera del cristallo rispetto agli atomi presenti allinterno del reticolo, che invece hanno tutte le valenze saturate. Nei solidi di volume gli atomi superficiali rappresentano solo una piccola frazione del totale rendendo tale effetto trascurabile. Nel caso dei materiali nanostrutturati, invece, la frazione di atomi presenti sulla superficie non trascurabile rispetto al totale rendendo le propriet chimico-fisiche dipendenti dalle dimensioni. Quando il diametro di un semiconduttore diventa confrontabile con il diametro eccitonico (ossia la distanza fra lelettrone e la buca fotoge143
nerati), insorgono degli effetti, detti di confinamento quantico, che fanno s che i semiconduttori nanostrutturati abbiano propriet intermedie fra quelle dei semiconduttori di volume e quelle delle molecole. Il principale effetto di questo confinamento quantico la discretizzazione dei livelli energetici agli estremi delle bande di valenza e conduzione (Fig. 80).
Fig. 80: discretizzazione dei livelli energetici nei semiconduttori nanocristallini al variare delle dimensioni [93].
La discretizzazione degli estremi di banda sempre pi evidente al diminuire delle dimensioni del nanocristallo, inoltre si osserva un aumento progressivo dell'ampiezza del band gap: maggiore il suo valore minore la porzione di radiazione solare utilizzabile dal semiconduttore per formare il sistema buca-elettrone [93]. Altro fattore che pu modificare lattivit del fotocatalizzatore la superficie specifica, a sua volta funzione della morfologia delle particelle: ad una maggiore superficie specifica corrisponde, infatti, una pi efficace attivit fotocatalitica. A riguardo, la superficie specifica aumenta sia al diminuire delle dimensioni delle particelle, sia sviluppando particelle di idonee geometrie, quali nanotubi, nano-bastoncini (nano-rods) o morfologie come i nano-fiori (nano-flowers). La tendenza, quindi, quella di preparare fotocatalizzatori nanocristallini con geometrie particolari ad elevato sviluppo superficiale. Per
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questo motivo importante disporre di tecniche di sintesi in grado di controllare opportunamente le propriet dei nanocristalli. 7.2 Le propriet fotocatalitiche del nanobiossido di titanio Il biossido di titanio, detto anche titania, l'ossido di titanio naturale, una polvere cristallina incolore, tendente al bianco (Fig. 81).
un ossido semiconduttore dotato di una elevata reattivit per cui pu essere chimicamente attivato dalla luce solare. La notevole efficacia del biossido di titanio (TiO 2) nel neutralizzare le sostanze inquinanti (gas, sali, particelle solide, fumi, microrganismi, ecc.) stata oggetto di numerosi studi gi a partire dal 1972 in Giappone, ma il processo di analisi si intensificato a livello internazionale soprattutto a partire dagli anni '90 e negli ultimi anni. Con lo sviluppo della nanotecnologia lindustria chimica ha ottenuto nanoparticelle di dimensioni pari a pochi milionesimi di mm, che op-
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portunamente integrate con altre sostanze, hanno consentito di ottimizzare le caratteristiche del processo di fotocatalisi attivato dalla luce solare o artificiale e dallaria in presenza di TiO 2. Infatti, se il biossido di titanio di dimensioni nanometriche, l'effetto massimizzato perch proporzionale al rapporto superficie/volume: gli alti valori di questo rapporto caratteristici delle nanoparticelle ostacolano la ricombinazione dei portatori di carica incrementando in modo notevolissimo lefficienza fotocatalitica. Inoltre a causa dellalta area superficiale si ha un elevato numero di siti attivi e quindi unalta velocit di reazione. Per questo il biossido di titanio uno dei materiali fotocatalitici pi frequentemente utilizzati per la preparazione di diversi prodotti (cementi, rivestimenti, vernici), avendo stabilit chimica, termica e fotochimica, che gli conferiscono un'elevata attivit fotocatalitica nell'ossidare gli inquinanti dell'aria e dell'acqua. Inoltre un materiale, oltre che fortemente ossidante, anche atossico ed economico. Il biossido di titanio partecipa ai processi fotochimici di superficie attraverso lassorbimento diretto di fotoni incidenti (Figg. 82-83).
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Il biossido di titanio presente in natura in tre diverse forme cristalline (rutilo, anatasio e brookite, colorate a causa di impurit presenti nel cristallo) e in fase amorfa. Il rutilo e lanatasio sono le forme pi diffuse in natura. Il rutilo un sistema cristallino tetragonale, l'anatasio ha anch'esso struttura tetragonale, ma pi allungata rispetto a quella del rutilo, mentre la brookite ha una struttura ortorombica. La struttura tetragonale del rutilo contiene due molecole di TiO2 per cella primitiva. Gli ottaedri TiO6 rappresentano lunit strutturale di base delle varie strutture polimorfe. Le maggiori differenze strutturali tra le diverse forme sono nel numero di ottaedri condivisi, cio due nel rutilo, tre nella brookite e quattro nellanatasio. Ci determina una diversa azione catalitica a vantaggio dell'anatasio, che permette la migliore combinazione di fotoattivit e fotostabilit e per questo trova maggiore applicazione come fotocatalizzatore. Il rutilo invece la forma cristallina pi stabile termodinamicamente (se sottoposte ad opportuno ciclo termico, le fasi metastabili si trasformano irreversibilmente in rutilo) e per questo la pi usata industrialmente, soprattutto come pigmento bianco.
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Da un punto di vista elettronico, il biossido di titanio un semiconduttore di tipo n; il valore di EBG dellanatasio pari a 3,2 eV, quello del rutilo a 3,0 eV. Da questi valori, si evince, dallequazione: hc 1240 =
E BG = h =
dove: EBG = salto energetico; h = costante di Planck [eVs] = frequenza della radiazione incidente [1/s]; c = velocit della luce nel vuoto [3108 m/s]; = lunghezza d'onda [nm] che lanatasio attivato da luce avente lunghezza donda 388 nm, ossia dalla porzione UVA dello spettro elettromagnetico, mentre il rutilo da 413 nm. Lossido di titanio il migliore semiconduttore studiato nel campo della conversione chimica e dellimmagazzinamento dellenergia solare, nonostante il fatto che assorba solo il 5% della radiazione solare incidente, questo grazie alla sua capacit di combinare lalto indice di rifrazione con lalto grado di trasparenza nella regione dello spettro visibile. Infatti confrontando lindice di rifrazione (rapporto tra la velocit della luce nel vuoto e nel materiale) del rutilo e dellanatasio con quello di altri materiali si evince che tanto pi grande la differenza tra lindice del materiale e quello dellaria, tanto maggiore sar la riflessione della luce. Lindice di rifrazione (n) vale 2,76 per il rutilo e 2,52 per lanatasio (per un paragone, basti pensare che nei diamanti n=2,4). Un'altra propriet molto interessante della titania quella della superidrofilicit, grazie alla quale l'acqua tende a ricoprire la superficie del materiale senza formare goccioline arrotondate. Questa caratteristica 148
si manifesta dopo l'esposizione del materiale a luce UV. Il fenomeno pi accentuato quando il titanio in nanoparticelle, in quanto le propriet superidrofiliche aumentano con l'aumentare del rapporto superficie/volume. L'idrofilia viene misurata empiricamente osservando langolo di contatto che si forma tra la superficie di una goccia di liquido immobile e quella del solido su cui essa appoggia (Fig. 84) e si definisce superidrofilica una superficie il cui angolo di contatto dopo attivazione con luce ultravioletta risulta essere generalmente inferiore a 15.
Fig. 84: angolo di contatto tra liquido e superficie solida: se maggiore di 90 (a sinistra), si ha scarsa bagnabilit; se inferiore a 90 (a destra) si ha elevata bagnabili t; se nullo la bagnatura completa [98].
Il fenomeno dell'idrofilia del TiO2 stato scoperto fortuitamente nei laboratori della TOTO Ltd., JP, nel 1997 [98]. In pratica, dopo illuminazione UV, parte degli elettroni e lacune fotogenerati reagiscono in maniera differente, ossia, gli elettroni tendono a ridurre i cationi Ti 4+ in Ti3+ e le lacune ossidano gli anioni O 2-. Mediante questo processo, gli atomi di ossigeno sono espulsi e le vacanze che cos si formano vengono ad essere occupate da molecole dacqua. I gruppi ossidrilici, che si legano alle molecole di acqua con legami a idrogeno, rendono idrofila la superficie di TiO2. Laumento del tempo di esposizione alla luce della superficie di TiO2, riduce langolo di contatto con lacqua. Se il TiO2 nella forma cristallina dellanatasio viene esposto alla luce UV si ottengono angoli di contatto molto bassi (<1). Dopo circa trenta minuti sotto una sorgente luminosa UV di moderata intensit,
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langolo di contatto tende a zero, ci significa che lacqua ha la tendenza a ricoprire perfettamente la superficie, e rimane piatta invece di formare delle goccioline. Se si interrompe lilluminazione il comportamento superidrofilo rimane per circa due giorni. In questa situazione il biossido di titanio presenta un effetto autopulente, infatti lo sporco lavato via pi facilmente da essa, consentendo anche una notevole riduzione della necessit di ricorrere a sostanze detergenti (anche loro di per s inquinanti). Si pensi ad esempio che la maggior parte delle mura esterne dei palazzi viene sporcata dai gas di scarico dei veicoli e da microrganismi, la cui crescita favorita dallaccumulo di grassi e polveri. Se queste superfici vengono rivestite di materiale fotocatalitico, lo sporco sar lavato via con la pioggia e saranno, cos, preservate le caratteristiche estetiche dei manufatti. Per applicazioni di questo tipo, il biossido di titanio impiegato sotto forma di film molto sottile depositato sulla superficie da preservare. Lefficienza fotocatalitica del film per influenzata dallo spessore, dalla rugosit superficiale, dalla porosit, dalla cristallinit, dalla quantit di impurit e dalla concentrazione di ioni ossidrilici in superficie. Ovviamente, secondo la composizione ed il trattamento, una superficie pu presentare unattivit pi o meno fotocatalitica e pi o meno idrofila. Tale aspetto una peculiarit del TiO 2, in quanto, a titolo di esempio, il SrTiO3 qualora irraggiato da luce UV, si comporta da fotocatalizzatore senza divenire idrofilo; per contro il WO 3, pur mostrando propriet idrofila, non evidenzia attivit fotocatalitica. Un altro importante effetto dellilluminazione UV delle superfici rivestite con biossido di titanio l'azione antimicrobica: l'eliminazione dei batteri e lo sporco di natura organica subisce il medesimo processo di degradazione che avviene nel caso degli agenti inquinanti. La fotocatalisi infatti non uccide le cellule dei batteri, ma le decompone. Il sistema sinergico TiO2-luce genera le cosiddette Specie Reattive all'Ossigeno (ROS), quali O2-, H2O2 e OH, che vengono coinvolte 150
nell'azione battericida e virucida della fotocatalisi. In particolare i radicali ossidrile OH sono agenti ossidanti estremamente potenti. Proprio per la loro forte capacit ossidativa, lossidazione fotocatalitica pu effettivamente igienizzare, deodorare e purificare l'aria, l'acqua e diverse superfici. Inoltre, avendo una durata estremamente breve, ed essendo generati in prossimit della superficie, risultano innocui verso le persone. Si scoperto inoltre che leffetto antibatterico della titania risulta essere pi efficace di qualsiasi altro agente antimicrobico, perch la reazione fotocatalitica lavora anche quando ci sono cellule che coprono la superficie e quando i batteri si stanno attivamente propagando. Riassumendo quindi il biossido di titanio di dimensioni nanometriche risulta essere il candidato ideale per combattere l'aggressione di inquinanti e contaminanti. Applicato in ambienti urbani all'esterno degli edifici, protegge palazzi e monumenti dallo smog, decomponendo le molecole organiche e inorganiche e riducendo l'effetto visibile dei depositi, spesso rappresentato anche dalla semplice polvere: basta una semplice pioggia per rimuoverlo dalle pareti e mantenere quindi inalterata nel tempo l'integrit estetica di tali elementi, riducendo i costi di manutenzione e l'inquinamento causato dall'uso di detergenti. All'interno di gallerie e infrastrutture risulta decisivo per la sicurezza stradale: le gallerie infatti subiscono pesantemente gli attacchi delle sostanze inquinanti provenienti dai gas di scarico delle automobili, diventando scure e pericolose per la circolazione. Stesso discorso vale per tutti i luoghi ad altissima concentrazione di emissioni di inquinanti da auto, come i parcheggi sotterranei e le aree di sosta. Applicato all'interno degli edifici invece, tramite pavimenti, vernici o rivestimenti, svolge la medesima funzione, ma con l'ulteriore beneficio di eliminare anche batteri e odori derivanti dallo sporco, trattandosi di molecole organiche ossidabili attraverso l'azione della fotocatalisi che quindi vengono fortemente degradate e ridotte a sostanze non pi percettibili dal nostro olfatto. 151
Queste propriet potrebbero potenzialmente portare allo sviluppo di una nuova classe di materiali dotati di propriet autopulenti e disinquinanti, per questo numerose sperimentazioni e applicazioni sono in atto a livello internazionale, ma anche nazionale, per la produzione di materiali sempre pi ecologici ed economici. 7.2.1 Metodi di sintesi I metodi di sintesi riportati in letteratura della titania da utilizzare come fotocatalizzatore sono diversi. In generale, i metodi di preparazione elencati di seguito portano alla formazione di TiO 2 nanostrutturato. Possono essere cos classificati: idrolisi in condizioni idrotermali da: tetraetossido di titanio a temperature >250 C, TiOSO4 [99], soluzione acquosa di TiCl4 [100] e solfato di titanio [101]; idrolisi di vapore di tetraisopropossido di titanio a 260C [102]; idrolisi da sol-gel e precipitazione da isopropossido di titanio, seguito da trattamento idrotermale [103]; processo di precipitazione omogenea (HPP), a partire da soluzione acquosa di TiOCl2 e successivo trattamento termico a temperature >400 C per ottenere polveri cristalline di TiO 2 [104]. Indicativamente, i metodi che si avvalgono di solfati o cloruri sono sconsigliabili per la presenza di impurezze nei prodotti finali. In particolare, limpiego di TiCl4 come precursore, non permette di controllare facilmente durante il trattamento termico la forma, dimensione e distribuzione delle particelle di ossido. Inoltre, il rilascio di HCl o Cl 2 rappresenta un aspetto negativo ed i costi di produzione sono elevati. Per contro, i metodi sol-gel e di sintesi idrotermale consentono di controllare meglio le caratteristiche morfologiche della polvere. Nel solgel, comunque, lutilizzo di alcossidi necessita di un attento controllo
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della reazione ed inoltre, essendo molto costosi, il loro potenziale di commercializzazione limitato. Il metodo della sintesi idrotermale produce polveri di elevata qualit, anche se un processo continuo di difficile realizzazione. Il metodo della precipitazione omogenea sembra offrire un buon compromesso fra polveri di buona qualit e costi relativamente contenuti. 7.3 Applicazione del nanobiossido di titanio in edilizia In ambito edilizio uno dei primi materiali su cui si sperimentato con successo il processo fotocatalitico il cemento, che rappresenta un supporto ideale per la sua diffusione. Infatti le molecole del biossido di titanio aderiscono alla superficie delle particelle a grana grossa del cemento e si insediano nelle intercapedini pi basse del substrato [105]. Combinando il biossido di titanio con il cemento stato possibile ottenere un legante che alle tradizionali caratteristiche di resistenza meccanica e durabilit associa propriet fotocatalitiche e autopulenti, legate al rispetto dellambiente e alla conservazione del valore estetico dei manufatti. Le applicazioni pi frequenti sono le pavimentazioni stradali (Fig. 85), ma viene impiegato con successo anche nei manufatti architettonici. Oltre al cemento, altri materiali utilizzati nel mondo delle costruzioni sono stati resi fotocatalitici con l'aggiunta o il rivestimento di biossido di titanio nanometrico: vernici, piastrelle e vetri fotocatalitici che, rivestiti con film trasparenti di biossido di titanio, permettono l'abbattimento dell'inquinamento e l'autopulitura delle superfici [88]. Utilizzando queste nuove soluzioni il problema dell'inquinamento nelle aree urbane sarebbe in gran parte risolto, cos come quello estetico, per non parlare degli enormi benefici dovuti al miglioramento delle condizioni di vivibilit e di salute dei cittadini.
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Fig. 85: confronto tra superficie stradale ordinaria (a sinistra) e superficie stradale trattata con biossido di titanio nanometrico (a destra) [101].
7.4 Applicazione del nanobiossido di titanio nel restauro Nel campo del restauro il nanobiossido di titanio viene utilizzato soprattutto come protettivo autopulente su superfici su cui si sia gi intervenuto con un intervento di pulitura. Un esempio di intervento quello effettuato nel 2009 su un arco della cella campanaria della Torre di Pisa [83]. Nell'intradosso dell'arco posto sotto pendenza, si potevano infatti osservare delle antiestetiche rigature scure dovute all'incanalamento dell'acqua piovana lungo direttrici preferenziali sulla superficie della pietra. Dopo un'attenta pulitura del marmo, stato applicato a pennello un prodotto a base di biossido di titanio nanoparticellare [106], incolore e disperso in solvente acquoso, per rendere la superficie autopulente e antinquinante. Un altro utilizzo riguarda il nanobiossido di titanio ottenuto da processi idrotermali e sol-gel, applicato mediante spray sulle superfici lapidee per realizzare uno strato auto-pulente in grado di limitare gli inter-
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venti di manutenzione e pulitura nel tempo [107]. A questo proposito sono state effettuate sperimentazioni su diversi tipi di pietra (travertino, marmo, pietra leccese) che hanno dimostrato l'efficacia del trattamento. Nei paragrafi successivi questi studi saranno analizzati nel dettaglio. 7.4.1 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su travertino Una sperimentazione in laboratorio [107] ha studiato l'applicazione del nanobiossido di titanio su travertino, una pietra calcarea spesso utilizzata nei monumenti e nelle facciate degli edifici storici, per la realizzazione di uno strato autopulente in grado di limitare gli interventi di pulitura e manutenzione dei manufatti architettonici. Una soluzione acquosa di titania (con un contenuto di TiO 2 pari all'1% in peso) stata preparata mediante la tecnica sol-gel, ottenendo una dimensione media delle particelle tra 40 e 50 nm. I campioni di travertino da trattare hanno invece dimensioni 8 x 8 x 1,5 cm3. La soluzione stata depositata sulle superfici dei campioni mediante la tecnica spray, scelta per la sua facilit e velocit di utilizzo, senza alcun tipo di trattamento termico aggiuntivo, dal momento che non sempre possibile utilizzare processi termici sulle superfici delle pietre nel campo del restauro. Sono state applicate due differenti quantit di titania: il primo trattamento con singolo strato (T1) e una quantit di titania depositata pari a 0,12 g/m 2, il secondo trattamento con tre strati (T2) e 0,40 g/m2 di TiO2 depositato. Dopo una fase di asciugatura, solo le particelle di nanobiossido di titanio risultano aderenti alle superfici della pietra, dal momento che l'acqua della soluzione acquosa evapora. La morfologia della pietra coperta con TiO 2 non differisce da quella dei campioni non trattati. Il sottile strato di titania ben al di sotto di 1 m di spessore e copre uniformemente la superficie senza originare 155
fratture e segregazione o modificare la morfologia del substrato. Per verificare il potenziale del trattamento con TiO 2 nel campo del restauro, necessario testare il soddisfacimento dei seguenti requisiti: a) il mantenimento dell'aspetto originale delle pietre trattate; b) una reale efficienza auto-pulente;
c) assenza di effetti collaterali dovuti all'idrofilicit fotoindotta,
poich cambi della bagnabilit potrebbero portare a una maggiore esposizione a sali solubili, componenti acidi/basici e agenti di degrado portati dalla soluzione acquosa. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono stati analizzati i cambiamenti estetici dal punto di vista del colore e della lucidit, valutati e monitorati in accordo con la normativa UNI EN 15866:2010. Le differenze di colore dopo il trattamento risultano piuttosto basse, non avvertibili a occhio nudo, e non ci sono cambiamenti neanche dal punto di vista della lucidit. Infatti la titania ottenuta mediante tecnica solgel risulta trasparente, quindi altamente compatibile con le superfici architettoniche. L'efficacia auto-pulente stata valutata mediante due procedure standard: il test di degrado del biossido di azoto e l'analisi di decolorazione con il colorante Rodamina B. Per determinare l'efficacia fotocatalitica contro gli agenti inquinanti, il degrado del biossido di azoto viene determinato sistemando i campioni in un reattore in cui passa aria secca contenente 0,6 ppm di NO a un intervallo di 1,5 l/min. Dopo un breve periodo le superfici vengono esposte a radiazione UV-A per un massimo di 45 minuti. La decomposizione fotocatalitica viene monitorata ogni minuto per un massimo di 125 minuti. Per entrambi i trattamenti (T1 e T2) evidente la decomposizione del NO, ma il trattamento a tre strati (T2) risulta essere pi efficiente rispetto a quello con singolo strato (T1), in particolare la diminuzione di concentrazione di ossido di azoto risulta del 50% e del 30% rispettivamente. La decomposizione dura per tutto il tempo dell'irradiazione e 156
termina entro breve dal momento in cui la lampada UV viene spenta. Per quanto riguarda l'analisi con Rodamina, questa consente di valutare il comportamento nei confronti dello sporco. I campioni di travertino vengono macchiati con una soluzione acquosa di Rodamina B e dopo una fase di asciugatura i campioni vengono esposti a radiazione UV. La decolorazione della tinta organica applicata sulle superfici dei campioni viene monitorata mediante misurazioni cromatiche prima dell'irradiazione e dopo 1, 4 e 26 ore di esposizione (Fig. 86).
Fig. 86: analisi con Rodamina B: superfici dei campioni all'inizio dell'analisi (NT(0), T1(0), T2(0)) prima dell'esposizione ai raggi UV e dopo 1, 4, 26 ore di illuminazione UV [108]
Durante le prime 4 ore di esposizione, il valore medio di decolorazione della Rodamina B sulle superfici trattate circa 2-3 volte pi alto rispetto alle superfici non trattate. Dopo 26 ore di irradiazione, il trattamento con unico strato (T1) non mostra una maggiore decolorazione rispetto al campione non trattato, mentre il trattamento con tre strati (T2) assicura il 17% in pi di decolorazione rispetto al campione non trattato. 157
Infine, per valutare i problemi di eventuali effetti collaterali dovuti all'idrofilicit fotoindotta, viene misurato l'angolo di contatto, prima e dopo l'esposizione ai raggi UV, di 5 l di gocce d'acqua. Senza esposizione ai raggi UV le differenze tra campione trattato e non trattato sono abbastanza moderate e principalmente relazionate con le propriet fisiche eterogenee (porosit e rugosit) dei substrati di pietra. Comparato con le superfici non trattate, il trattamento T1 aumenta leggermente il valore medio dell'angolo di contatto, mentre le superfici del trattamento T2 non mostrano cambiamenti. Durante l'irradiazione ultravioletta, l'idrofilicit della titania ben evidente e i valori dell'angolo di contatto delle superfici trattate sono molto pi bassi (Tab. 5).
T1 finale iniziale
T2 finale
Angolo di 59.0 19.9 77.7 19.1 21.8 8.7 59.0 20.1 20.7 8.4
Tab. 5: valori medi dell'angolo di contatto in funzione del contenuto di titania, prima dell'irradiazione UV (iniziale) e dopo 50 minuti di esposizione (finale) [108].
In particolare risultato che durante il primo periodo di esposizione l'angolo di contatto maggiore per T1, ma dopo 30 minuti di irradiazione UV i valori sono molto simili in entrambi i trattamenti, diminuendo drasticamente fino a un valore praticamente stabile. I valori finali ottenuti mostrano come si arrivi a una condizione di idrofilicit ma non di superidrofilicit, quindi a un comportamento pi uniforme del materiale. Comparando i valori finali con la situazione pre-irradiazione, chiaro che l'idrofilicit fotoindotta dovuta a esposizione UV ha una influenza sulla tensione superficiale delle gocce d'acqua, e quindi sulla loro forma, pi grande di quella che potrebbe avere la morfologia della stessa titania. Da successive analisi di assorbimento d'acqua sia per capillarit che
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mediante un nebulizzatore spray, risulta che l'idrofilicit fotoindotta non necessariamente porta a un maggiore assorbimento d'acqua sulle superfici trattate, dal momento che l'acqua crea un film sulla superficie solida del materiale scorrendo via per la forza di gravit senza essere assorbita. Mentre i campioni non esposti a UV non mostrano evidenti differenze, la superficie trattata esposta a UV mostra una forte diminuzione nell'assorbimento d'acqua. Questo comportamento suggerisce l'utilizzo del nanotitanio per superfici verticali o inclinate. La differenza tra il trattamento T1 e il trattamento T2 piuttosto moderata, in quanto la presenza di pi strati di titania non sembra influenzare molto le propriet fotoindotte rispetto al singolo strato. Alla luce di questi risultati quindi appare evidente che l'applicazione di strati multipli di titania non porta a evidenti benefici se non nel breve-medio periodo, il che tuttavia porta anche a un aumento dei costi. Grazie alla trasparenza degli strati, l'efficacia nella rimozione dello sporco e degli inquinanti e l'assenza di incrementi di assorbimento d'acqua, l'uso della titania sembra essere una promettente soluzione nel campo del restauro. Tuttavia sono necessarie ulteriori analisi a lungo termine e soprattutto in situ per verificare la reale compatibilit di questo trattamento con gli elementi in pietra del patrimonio culturale [108]. 7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su marmo L'applicazione del nanobiossido di titanio stata studiata anche su marmo, un materiale con bassa porosit ampiamente utilizzato nei monumenti del nostro patrimonio culturale. Uno studio in laboratorio [109] ha effettuato un confronto tra due differenti litotipi carbonatici: il marmo di Carrara (con una porosit 159
dell'1%) e una generica pietra calcarea (con porosit tra il 20 e il 30%). Il trattamento utilizzato consisteva in una dispersione acquosa di un polimero acrilico e nanoparticelle di anatasio. L'applicazione avvenuta mediante pennello, con due differenti quantit per ogni litotipo, a seconda della porosit della pietra: 2 e 4 g/m 2 per il campione di marmo (ML e MH rispettivamente), 20 e 40 g/m 2 per la pietra calcarea (CL e CH). Sono stati osservati la profondit di penetrazione della titania, l'efficacia antibatterica, l'assorbimento d'acqua, l'angolo di contatto e le variazioni di colore. Per quanto riguarda il primo aspetto, tramite analisi SEM-EDS (Fig. 87) si evidenziato che la distribuzione della titania diminuisce allontanandosi dalla superficie.
Fig. 87: sezione trasversale dei campioni di pietra calcarea (a) e marmo (b) trattati. Le misurazioni di concentrazione della titania sono state effettuate nel reticolato [109].
In particolare dall'analisi EDS risultato che per il campione di marmo il valore del contenuto di Ti diminuisce drasticamente dopo i 200 m di profondit, per via della scarsa porosit del materiale, mentre per il campione di pietra calcarea quantit misurabili di Ti sono state individuate fino a 3 mm dalla superficie. Questo potrebbe essere un
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vantaggio a favore del marmo, dato che le nanoparticelle sono prevalentemente concentrate in superficie, quindi in posizione corretta per agire come fotocatalizzatrici; nella pietra calcarea invece la maggior parte delle particelle saranno inattive dal punto di vista fotocatalitico. Per valutare l'efficacia antibatterica stato utilizzato un metodo consistente nell'osservazione della crescita di colonie di funghi (Aspergillus niger) sulla superficie della pietra (Fig. 88). Le specie fungine vengono inserite in un mezzo liquido di coltura. Una volta che i microorganismi si sono sviluppati, 500 l di sospensione vengono applicate sulla superficie di campioni di dimensioni 2 x 2 x 1 cm e poi questi vengono esposti direttamente all'ambiente esterno. Dopo otto giorni, le osservazioni hanno rilevato una diffusa crescita di colonie sui campioni non trattati. In particolare, i campioni di pietra sembrano essere leggermente pi sensibili all'attacco biologico, probabilmente per la loro superficie rugosa. I trattamenti sui campioni inibiscono la crescita dei funghi e questo effetto sembra essere simile per i due litotipi. Inoltre sembra che una maggiore quantit di nanotitanio applicato sui campioni non incrementi l'efficienza dell'effetto antibatterico. Dal punto di vista delle variazioni di colore, tramite test colorimetrici emerso che queste sono trascurabili, il che conferma l'adattabilit del prodotto a scopi restaurativi. Per valutare la bagnabilit delle superfici trattate, stata fatta una misurazione dell'angolo di contatto di 20 gocce d'acqua versate sui campioni, prima e dopo 1000 h di esposizione ai raggi UV. Sui campioni di marmo, dopo il trattamento, si registrato un piccolo incremento dell'angolo di contatto; inoltre dopo l'irradiazione le superfici trattate sembravano avere un comportamento simile a quelle non trattate.
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Fig. 88: colonizzazione di funghi sui campioni di pietra: campione di marmo trattato (a) dopo un giorno dall'inoculazione; campioni di marmo trattati (b) e non trattati (c) dopo 8 giorni; microfotografia della superficie del marmo colonizzata (d); campione di pietra calcarea trattata dopo un giorno dall'inoculazione (e); campioni di pietra calcarea trattati (f) e non trattati (g) dopo 8 giorni; microfotografia della superficie della pietra calcarea colonizzata (h) [109].
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Per quanto riguarda la pietra calcarea, i risultati sono differenti: dopo il trattamento l'angolo di contatto aumentato da 0 a 100, mentre dopo l'irradiazione stata registrata una piccola diminuzione (di circa il 20%). In Tab. 6 sono mostrati i valori dell'angolo di contatto sui vari campioni. Infine stato valutato l'assorbimento d'acqua, uno dei fattori pi pericolosi per il degrado dei materiali. stato analizzato l'assorbimento per capillarit sia sui campioni trattati che non trattati e dopo irradiazione UV, per simulare il comportamento dello strato di titania dopo un certo periodo di irradiazione solare, che potrebbe portare a una diminuzione della resistenza all'acqua, a causa dell'alterazione del film polimerico.
Angolo di contatto () Campione Marmo non trattato ML MH Pietra calcarea non trattata CL CH Dopo il trattamento Dopo irradiazione 32 7 84 6 90 5 0 106 7 117 8 32 5 32 8 36 7 0 83 8 85 8
Tab. 6 : valori dell'angolo di contatto dell'acqua versata sui campioni prima e dopo 1000 h di esposizione a luce UV [109].
I campioni di marmo dopo il trattamento mostrano una diminuzione nell'assorbimento d'acqua, mentre dopo l'irradiazione hanno un comportamento simile ai campioni non trattati. Risultati migliori sono stati ottenuti per i campioni di pietra calcarea: dopo il trattamento si registrata una diminuzione dell'assorbimento d'acqua di un ordine di grandezza, mentre dopo l'irradiazione non ci sono state rilevanti variazioni. Questo comportamento pu essere spiegato con la diversa quantit di prodotto applicata sui due litotipi, essendo quella utilizzata per la pietra calcarea pi grande di un ordine di grandezza. Inoltre la differente 163
porosit che caratterizza i due materiali ha giocato un ruolo fondamentale: essendo la porosit della pietra calcarea dieci volte maggiore di quella del marmo, il prodotto penetrato pi in profondit. In conclusione, facendo una media dei risultati ottenuti, l'applicazione di titania sembra avere la migliore efficacia per la pietra calcarea. 7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su pietra leccese Un'ulteriore applicazione del nanotitanio stata studiata [110] nei confronti della pietra leccese, una calcarenite molto porosa che si pu considerare rappresentativa dei materiali porosi utilizzati negli edifici storici del nostro patrimonio culturale, particolarmente nel Sud Italia e in molti Paesi del bacino del Mediterraneo. La pietra ha una composizione carbonatica ed costituita principalmente da calcite. La sua microstruttura caratterizzata da uno scarso grado di cementazione, con una bassa coesione dei grani. La sua porosit piuttosto alta, dell'ordine del 30-40%. Per via di queste caratteristiche questa pietra mostra scarsa durabilit, essendo facilmente oggetto di degrado chimico, biologico e fisico. Sono state cos studiate le prestazioni della pietra in seguito all'applicazione di nanotitanio in sospensione acquosa. In particolare, sono stati preparati tre prodotti a base di nanotitanio (HT01, HT02, HT03) mediante processi sol-gel e idrotermici variando la temperatura, la pressione e il tempo di esposizione a questi parametri. I campioni di pietra invece, prima del trattamento, sono stati puliti con un pennello morbido e lavati con acqua deionizzata in modo da rimuovere i depositi di sporco. Sono stati poi completamente asciugati e tenuti per 24 h a una temperatura di 23 C e in condizioni di umidit relativa del 50%. 164
Ogni prodotto stato applicato su 5 campioni di 5 x 5 x 2 cm e 5 campioni di 5 x 5 x 1 cm. Solo un lato 5 x 5 cm stato trattato. La titania stata applicata mediante spray, dopodich i campioni sono stati tenuti in laboratorio per tre giorni, in condizioni di umidit relativa del 50% e temperatura di 23 C; poi sono stati asciugati in forno a 60 C fino a raggiungere stabilit del peso. Sono stati valutati i cambiamenti di colore, l'assorbimento d'acqua, la permeabilit al vapore acqueo, l'attivit fotocatalitica e la propriet autopulente, confrontando i campioni trattati con quelli non trattati. Per quanto riguarda i cambiamenti di colore, non si sono evidenziate forti variazioni tra i campioni trattati e non trattati con i tre prodotti. La loro entit infatti al di sotto del valore minimo che l'occhio umano potrebbe distinguere. L'assorbimento d'acqua stato valutato mediante capillarit: nel campione non trattato, per via delle sue caratteristiche intrinseche, molto alto e rapido e non si formano gocce sulla sua superficie. Lo stesso risultato si ottiene sui campioni trattati con titania, in perfetto accordo con la sua nota propriet di idrofilicit. La permeabilit al vapore acqueo invece risultata in leggera diminuzione dopo l'applicazione del trattamento, ma senza minare l'efficienza del prodotto. L'attivit fotocatalitica stata valutata mediante una prova di rimozione degli NOX e la propriet autopulente mediante la decomposizione di metile rosso sotto irradiazione UV. Entrambe hanno dato risultati soddisfacenti. In conclusione il trattamento con titania su pietra leccese, dati i risultati positivi in termini di attivit fotocatalitica e di variazione del colore, dell'assorbimento d'acqua e della permeabilit del vapore acqueo, si pu considerare un buon candidato nel campo del restauro; l'applicazione mediante spray inoltre rappresenta un metodo pratico ed economico per applicare TiO2 nanometrico senza alterare la morfologia e la permeabilit delle pietre porose. 165
7.5 Impatto ambientale del nanobiossido di titanio La reazione fotocatalitica presenta dei residui che scaturiscono dalla sua azione ossidante. Generalmente i composti che derivano dalla trasformazione degli inquinanti sono sali minerali e calcare, prodotti in quantit minima (parti per miliardo) invisibili e innocui. Tuttavia gli effetti sulla salute delle nanoparticelle non sono ancora noti. Di certo, valutare la tossicit della titania non un compito facile, in quanto dipende da tanti fattori, ad esempio dal tipo di sostanze chimiche utilizzate nella produzione e dal materiale presente sulla superficie delle particelle. Inoltre ogni particella diversa: ci sono molti modi per produrre le nanoparticelle e ogni azienda produttrice ha una sua modalit. Uno studio [111] effettuato sull'applicazione di biossido di titanio nanometrico su pannelli di vetro impiegati come finestre ha evidenziato come l'uso di TiO2, se da un lato ha effetti positivi contro l'inquinamento, sia interno che esterno, dall'altro risulta ecologicamente tossico, aumentando i carichi ambientali nel riscaldamento globale, l'esaurimento dei combustibili fossili, il consumo d'acqua e i rischi per la salute umana (Fig. 89). stato riportato inoltre che le radiazioni, anche quelle provenienti dal sole, possono aumentare la tossicit delle particelle di biossido di titanio da 20 a 40 volte [112]. Il biossido di titanio in forma di anatasio [113] considerato rischioso per la salute, dannoso per inalazione, irritante per gli occhi, il sistema respiratorio e la pelle. Inoltre fa parte di una gamma di ENM (nanomateriali ingegnerizzati) che sono stati collegati a diversi gradi di interruzione delle funzioni cellulari del cervello, nei polmoni e in altri organi vitali [114]. Oberdorster [115] e Bermudez [116] hanno dimostrato che in seguito all'inalazione di particelle ultrasottili di biossido di titanio si verifica un'accentuata infiammazione del tratto respiratorio, maggiore rispetto 166
a quella riscontrata in seguito all'inalazione di particelle sottili dello stesso materiale. evidente quindi che la dimensione delle particelle costituisce un fattore chiave nella determinazione della tossicit delle stesse [117].
Fig. 89: indici normalizzati dell'impatto ambientale dei vetri rivestiti o meno con nanotitanio (secondo norme ISO 14040) [111].
Spesso per le aziende non forniscono informazioni circa la tossicit e la natura delle nanoparticelle che utilizzano nei loro prodotti. Non si conosce molto circa le modalit di trasporto di queste particelle e come si trasformano nell'ambiente. quindi difficile prevedere cosa potrebbe succedere in caso di rilascio e, quindi, di un aumento della concentrazione nell'atmosfera. Gli autori segnalano che le nanoparticelle possono essere accidental-
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mente liberate nell'ambiente in differenti momenti del loro ciclo di vita. Una volta nell'ambiente i nanomateriali possono subire diverse trasformazioni fisiche, chimiche e biologiche che cambiano le loro propriet. Per questo, secondo alcuni ricercatori, essenziale elaborare un profilo di esposizione integrale del ciclo di vita dei nanomateriali, per valutare i possibili effetti sulla salute umana e sull'ecosistema.
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Conclusioni
Si visto come la nanoscienza abbia un enorme potenziale nella conservazione del patrimonio culturale, dovuto alle propriet uniche che la riduzione delle particelle conferisce ai nanomateriali comparati con i corrispettivi micrometrici. Dagli affreschi ai manufatti architettonici, l'applicazione delle nanoparticelle garantisce la compatibilit fisico-chimica con i materiali trattati e la ripetibilit dei trattamenti. La nanocalce si rivelata un ottimo consolidante per dipinti murali, mentre la nanosilice e il nanoidrossido di stronzio, seppur ancora in fase sperimentale, hanno dimostrato buone capacit consolidanti e protettive per i materiali lapidei. Tuttavia la capacit di penetrare pi o meno in profondit va valutata caso per caso in base al litotipo da trattare e alla sua microstruttura. Infine il nanobiossido di titanio conferisce ai materiali su cui applicato propriet autopulenti e disinquinanti, favorendo il rispetto dell'ambiente e la conservazione del valore estetico dei manufatti. Tutte queste caratteristiche comportano anche una maggiore durabilit delle opere d'arte e di conseguenza un minor numero di interventi di manutenzione. I risultati nel campo dei beni culturali sono quindi incoraggianti, ma gli studi condotti finora sono soprattutto di laboratorio e quelli in situ sono ancora limitati. Purtroppo inoltre di pari passo con lo sviluppo e la messa a punto di nuovi processi produttivi e nuovi prodotti legati alle nanotecnologie, si sta sempre pi palesando la preoccupazione, innanzitutto legata alla salvaguardia dei lavoratori addetti alla realizzazione delle nanoparticelle, di possibili effetti nocivi legati alle nanoparticelle stesse. Questa preoccupazione ha finora pochi riscontri sperimentali, ma sembra essere connessa da un lato alla scarsa capacit di prevedere il comporta-
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mento dei sistemi nanostrutturati durante tutto il loro ciclo di vita, dall'altro alla consapevolezza dell'esistenza di precedenti situazioni di ignoranza del rischio che hanno poi causato seri problemi di salute pubblica (come ad esempio il caso dell'amianto). Nel caso delle nanoparticelle c' poi una preoccupazione ulteriore, legata alle loro dimensioni, che le rende estremamente leggere e difficilmente potrebbero essere catturate una volta che venissero inavvertitamente rilasciate nell'ambiente. La loro propagazione pu quindi avvenire in modo eguale tramite l'aria, l'acqua e il suolo, con la conseguenza che diverse specie viventi potrebbero essere interessate all'esposizione, entrando in questo modo a far parte anche della catena alimentare. Per questo motivo l'analisi del ciclo di vita dei nanomateriali o dei prodotti contenenti nanoparticelle, considerando gli stadi che vanno dalla produzione, all'uso e al suo smaltimento, diventa essenziale ed urgente prima che l'impiego di questi materiali diventi ancora pi ampio.
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Non ringraziamenti
Credo che in ogni tesi di laurea che si rispetti la pagina dei ringraziamenti dovrebbe essere depennata in favore di una pi sincera e onesta lista di non ringraziamenti. Perch diciamoci la verit, quando finalmente riusciamo a liberarci di questo fardello, siamo solo incazzati neri, esausti, privi di ogni entusiasmo, vogliamo chiudere questo capitolo e non tornarci mai pi sopra. Fare l'ennesimo buon viso a cattivo gioco con una serie di smielati grazie sarebbe davvero chiedere troppo. Perci comincio subito col non ringraziare tutti coloro che in questi anni si sono prodigati nel farmi perdere tempo, salute e soldi (al di l delle tasse universitarie assolutamente non proporzionate ai servizi offerti, ho buttato una marea di soldi in carta, ovvero stampe A0 a colori richieste dai docenti di progettazione non tutti per fortuna per la revisione settimanale), riuscendo a rendere difficili e quasi impossibili situazioni che con un minimo di organizzazione potevano essere semplici e addirittura piacevoli. Non ringrazio ad esempio il Consiglio del Corso di Laurea che ho dovuto pregare quasi in ginocchio per farmi riconoscere un legittimissimo Erasmus Placement di cui sono risultata vincitrice, solo perch avrei ottenuto dei punti extra curriculari e quindi non necessari al conseguimento della laurea: in Italia si sa, non usanza premiare i pi meritevoli! Non ringrazio i docenti che: non si sono presentati agli appelli desame, facendomi arrivare sulle soglie di un esaurimento nervoso; mi hanno dato appuntamento per un ricevimento e puntualmente mi hanno dato buca; allultimo momento hanno cambiato data dellesame o peggio, per loro prassi (come il Prof. D.), fanno sapere la data dellesame solo 4 giorni prima. Non ringrazio coloro (docenti e personale amministrativo) che sono convinti che noi studenti abbiamo una tenda piazzata nei corridoi della facolt e facciamo passeggiate
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ogni giorno davanti ai dipartimenti per vedere se c' un nuovo post-it Avviso importante. Spesso questi post-it contengono davvero informazioni fondamentali per la prosecuzione della propria carriera universitaria, e perderne uno comporta una serie di problemi a cascata e all'ennesimo esaurimento nervoso. Non ringrazio poi il personale della segreteria, assolutamente incapace di svolgere il proprio lavoro in modo decente. Non ringrazio in generale tutti i docenti che mi hanno fatto sgobbare non gi per amore di insegnamento ma per i loro porci comodi, perch il mio lavoro gli serviva (per le loro ricerche, i loro progetti, i loro studi privati e quantaltro). Non ringrazio la Commissione di Laurea (il mio relatore escluso dalle accuse che seguono) che alla mia sudata, anche se compilativa tesi, hanno dato due soli punti, senza neanche ascoltare la mia esposizione (a questo proposito non ringrazio i docenti che quando ho iniziato la discussione si sono alzati e allontanati, in particolare non ringrazio il Presidente della Commissione che si addirittura permesso di rispondere a una telefonata durante i miei miseri 15 minuti di esposizione), per l'ovvia ragione di non aver compreso assolutamente nulla dell'argomento d'altronde ad eccezione del mio relatore nessuno era anche lontanamente vicino alla materia. Non ringrazio, in generale, il sistema universitario italiano fatto solo di teorie, carta, parole, numeri e cazzate che solo nelle loro menti bacate possono trovare un senso. Lunica persona che devo ringraziare sono io.
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