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Simone Secchi
Dipartimento di Matematica ed Applicazioni
Università degli Studi di Milano–Bicocca
22 febbraio 2009
ii
Prefazione
iii
iv
Gli argomenti trattati sono quelli classici, esposti nell’ordine più clas-
sico:1 brevi richiami di insiemistica e di teoria elementare delle funzioni,
successioni e loro limiti, limiti di funzioni e funzioni continue, derivazione,
integrazione secondo Riemann. I prerequisiti sono quelli di ogni corso di ma-
tematica a livello universitario, e comprendono l’algebra delle scuole supe-
riori, i principi della geometria analitica nel piano, le più importanti formule
della trigonometria e possibilmente la capacità di usare la logica elementare.
In queste dispense mancano, salvo poche eccezioni, esempi ed applicazio-
ni. D’altronde, libri di testo pieni di figure e di esempi banali abbondano
in ogni biblioteca universitaria. Personalmente ho sempre faticato ad im-
parare la matematica su questo genere di libri, e posso garantire che molte
applicazioni sono in realtà accademiche.
proprio risolvere. Incoraggio dunque tutti gli studenti ad utilizzare gli esercizi
proposti e risolti in [6].
Sono certo che molti dei miei studenti hanno letto fin qui nella speranza
di trovare la frase che ogni Autore si sente in obbligo di inserire nell’intro-
duzione alla propria opera: mi sono sforzato di rendere la matematica più
interessante, inserendo svariati esempi e modelli presi dalla realtà. Si è molto
discusso sull’opportunità di seguire il metodo “Mary Poppins” per insegnare
la matematica alle matricole.2 L’opinione di chi scrive è che gli argomenti
trattati sono sufficientemente classici e spesso familiari da lasciare spazio a
quel poco di rigore indispensabile in tutte le discipline scientifiche moderne.
Ringraziamenti tecnico–informatici
Queste dispense sono state redatte utilizzando il sistema di scrittura
3
LATEX su computer dotati dei sistemi operativi Apple Mac Os 10.4 e 10.5,
GNU/Linux Slackware 12.2, Microsoft Windows XP, e (saltuariamente) Sun
Solaris 10 su piattaforma AMD64 e PcBSD-7. L’autore è profondamente
grato a Donald Knuth per aver creato a sviluppato il sistema di videoscrit-
tura TEX, senza il quale la stesura di queste note sarebbe stata molto più
complicata. La variante LATEX è stata costruita da Leslie Lamport, ed è il
“dialetto” utilizzato per scrivere queste dispense.
Le figure sono state prodotte dall’autore mediante i programmi XFig4 e
Maple.5 . La figura 5.1 è stata creata invece con il software Asymptote.6
Insiemi e Funzioni
Innanzitutto, gli oggetti delle nostra logica for dummies sono le propo-
sizioni, cioè frasi di senso compiuto. Indicheremo le proposizioni con lettere
minuscolo, ad esempio p, q, r, ecc. Una proposizione potrebbe essere “se
piove, prendo l’ombrello”, oppure “la mia squadra del cuore è l’Inter”.
Esattamente come i numeri sono gli atomi del calcolo numerico, le pro-
posizioni sono i mattoni con cui costruire il linguaggio della matematica.. Si
pensi ad un teorema, che ha la forma “Se è vera p, allora è vera q”. Ogni
proposizione assume, nella logica classica, due valori: vero (V) o falso (F).1
Esaminiamo rapidamente le principali operazioni con le proposizioni.
1
2 CAPITOLO 1. INSIEMI E FUNZIONI
attenzione alle insidie del linguaggio comune. Infatti, sarebbe sbagliato affer-
mare che la negazione di “oggi piove” è “oggi c’è il sole”. In effetti, potrebbe
anche nevicare!
Definizione 1.2. Date due proposizioni p e q, la loro congiunzione p ∧ q (si
legge: p e q) è vera se e solo se sia p che q sono vere, e falsa in tutte le altre
situazioni. La tavola di verità della congiunzione è pertanto
p q p∧q
V V V
V F F
F V V
F F F
In pratica, congiungere due proposizioni significa metterle a sistema: in
particolare, p ∧ (∼ p) è sempre falsa.
Definizione 1.3. Date due proposizioni p e q, la loro disgiunzione p ∨ q (si
legeg: p o q) è vera quando almeno una fra p e q è vera, e falsa altrimenti.
La tavola di verità risulta pertanto
p q p∨q
V V V
V F V
F V V
F F F
Osservazione 1.4. Lo studente faccia attenzione: l’operazione di disgiun-
zione è intesa in senso largo, non in senso esclusivo. Nel linguaggio comune,
si usa “oppure” per escludere l’eventualità che entrambe le proposizioni siano
vere. In matematica, “oppure” non esclude affatto la verità simultanea dei
due argomenti. In particolare non è contraddittorio dire che “2 è un numero
pari oppure 3 è dispari”.
Veniamo infine all’operazione su cui si costruiscono i teoremi: l’implica-
zione.
Definizione 1.5. Date due proposizioni p e q, l’implicazione p ⇒ q (si legge:
p implica q, oppure “se p allora q”) risponde alla tavola di verità
p q p⇒q
V V V
V F F
F V V
F F V
1.1. CENNI DI LOGICA ELEMENTARE 3
cioè “esiste un numero reale x tale che, per ogni numero naturale n, risulta
n è minore o uguale a x”.
E = {x ∈ Z | x è dispari e ex ≤ 7}.
X = {x | x ∈ X}.
x∈
/ X.
X ∪Y = {x | x ∈ X oppure x ∈ Y }
X ∩Y = {x | x ∈ X e x ∈ Y }
Xc = {x | x ∈
/ X}
X \Y = {x | x ∈ X e x ∈
/ Y }.
dentro e fuori casa. A volte può capitare di dover scrivere proprio un’unione
esclusiva, e in matematica si usa la scrittura
N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, . . . }.
6
Alcuni libri di testo preferiscono escludere lo zero 0 da N. È una scelta supportata
solo dal proprio gusto.
1.3. INSIEMI NUMERICI 7
La necessità di dividere fra loro dei numeri interi relativi ha spinto a costruire
un insieme più capiente di numeri, detti numeri razionali. Precisamente,
p
Q= | p, q ∈ Z, q 6= 0 .
q
N ⊂ Z ⊂ Q ⊂ R.
Nell’affrontare la teoria dei limiti, ci sarà utile la seguente proprietà dei nu-
meri naturali rispetto ai numeri reali. La dimostrazione può essere letta
in [24].
7
Algebricamente, Q è il primo insieme numerico, a parte l’ovvietà della costruizione di
Z, costruibile in maniera elementare ma non banale. Precisamente, i numeri razionali sono
delle classi di equivalenza di coppie ordinate di numeri interi con segno. Se lo studente
non ha capito nemmeno una parola dell’ultima frase, non è grave. In parole povere, la
frazione 1/2 è la coppia ordinata (1, 2), e il fatto che 1/2 = 2/4 = 3/6 = . . . si rispecchia
nell’introduzione di una “regola”, la relazione di equivalenza, che considera uguali le coppie
(1, 2), (2, 4), (3, 6), ecc.
8
Già quarant’anni fa, Walter Rudin osservava nella prefazione del suo libro [24] che la
maggior parte degli studenti non sente la necessità di costruire l’insieme dei numeri reali,
almeno in prima battuta.
9
In realtà, non si tratta di vere inclusioni insiemistiche; piuttosto dovremmo parlare di
immersioni.
8 CAPITOLO 1. INSIEMI E FUNZIONI
{x ∈ R : |x| ≤ ε} ⊃ {x ∈ R : −ε ≤ x ≤ ε}
x ≥ m per ogni x ∈ E.
Per esempio, N è limitato dal basso poiché ogni numero naturale è mag-
giore o uguale a zero. Tuttavia N non è limitato dall’alto, perché esistono
numeri naturali grandi quanto vogliamo.
Sarà comodo, nel seguito, usare delle notazioni meno rigide per inf e sup.
Ad esempio, scriveremo
1
inf = 0
n∈N n
invece di
1
inf | n ∈ N = 0.
n
11
Questa definizione, a pensarci bene, fatica a stare in piedi. Come definire un numero
positivo x, se non chiedendo che x > 0? È un circolo vizioso. Tuttavia, speriamo che lo
studente sappia distinguere un numero positivo da uno negativo in maniera quasi inconscia.
12 CAPITOLO 1. INSIEMI E FUNZIONI
La prima notazione, che sembra interpretare inf come un’operazione sui nu-
meri invece che sugli insiemi, fa il paio con la notazione per le unioni e le
intersezioni di insiemi. Infatti, se A1 , A2 e A3 sno tre insiemi qualsiasi, si
scrive
[3
Ai
i=1
invece di [ [
{A1 , A2 , A3 } = {Aj | i ∈ {1, 2, 3}} .
Queste notazioni abbreviate hanno qualche risvolto curioso. Se E è un
insieme di numeri reali, la scrittura
sup x
x∈E
coincide in tutto e per tutto con sup E, ma questa volta non possiamo dire
che sia preferibile. Ne traiamo una morale: le notazioni con il pedice sono
preferibili quando l’insieme su cui agiscono inf e sup hanno una descrizione
di tipo “funzionale” {f (x) | x ∈ E}. Per un approfondimento delle notazioni
insiemistiche, consigliamo il libro di P. Halmos [15] e quello di J. Kelley [19].
In quest’ultimo si suggerisce anche la notazione
E x2 < 1
x∈R
Quindi ogni numero reale possiede infiniti intorni. Spesso conviene uti-
lizzare intorni simmetrici, della forma (x0 − δ, x0 + δ), dove δ > 0 si chiama
raggio dell’intorno.
Esercizio. Invitiamo lo studente a dimostrare che, se E = (a, b), allora
inf E = a, sup E = b. Inoltre, inf[a, b) = a = min[a, b), e sup[a, b) = b, ma b
non è il massimo di [a, b).
1.5 L’infinito
Nello studio dell’analisi matematica, lo studente si imbatte in un concetto
assolutamente nuovo: quello di infinito. Mentre Algebra e Geometria ele-
mentari si occupano di quantità finite (numeri, rette, piani, ecc.), l’Analisi
14 CAPITOLO 1. INSIEMI E FUNZIONI
inf E = −∞.
infiniti dotati di segno. Ovviamente, si richiede che, per ogni numero reale
x,
−∞ < x < +∞.
È possibile una (parziale) aritmetizzazione di R̄ estendendo le quattro ope-
razioni: per ogni x ∈ R si definisce
x + ∞ = +∞, x − ∞ = −∞
+∞ + ∞ = +∞, −∞ − ∞ = −∞
e ( (
+∞ se x > 0 −∞ se x > 0
x · (+∞) = x · (−∞) =
−∞ se x < 0, +∞ se x < 0,
(+∞) · (+∞) = +∞, (+∞) · (−∞) = −∞, (−∞) · (−∞) = +∞
Non si dà invece alcun senso alle scritture
+∞ − ∞, −∞ + ∞.
Il caso 0·(±∞) è particolare: esistono settori della matematica in cui conviene
porre 0 · (±∞) = 0, ad esempio la Teoria della Misura. Nell’Analisi Mate-
matica elementare, è opportuno evitare di definire questo prodotto, poiché
creerebbe pericolose confusioni al calcolo dei limiti. Per uno studente di un
primo corso di matematica, l’uso della retta reale estesa non presenta parti-
colari utilità, e nel resto delle dispense non utilizzeremo mai questo ambiente
numerico.
Può essere utile, in certi casi, adattare al simbolo ∞ alcuni concetti propri
dei punti al finito. Ad esempio, un intorno di +∞ è un qualsiasi intervallo
della forma (a, +∞), e similmente un intorno di −∞ è un qualsiasi intervallo
della forma (−∞, b). Lasciamo allo studente il seguente spunto di riflessione:
se E è un sottinsieme di R, quando +∞ è un punto di accumulazione per E?
E quando lo è −∞? Le risposte sono abbastanza semplici. In particolare,
lo studente si convincerà che +∞ è un punto di accumulazione per E = N,
l’insieme dei numeri naturali.
(1 + x)n+1 ≥ 1 + (n + 1)x.
Supponiamo che l’identità sia vera per n, e dimostriamo che deve essere vera
anche per n + 1. Per n + 1, il primo membro di (1.3) diventa
n
X n−1
X
2
k = k 2 + n2 ,
k=1 k=1
17
La prima curiosità di molti studenti è chi abbia “indovinato” l’identità (1.3). Infat-
ti,
Pn−1dimostrazione
la per induzione non è costruttiva, e non serve a dedurre quanto valga
2
k=1 k . Se nessuno ci scrivesse la formula, per induzione non riusciremmo mai a rico-
struirla. Questo tipo di formule erano il divertimento di matematici del calibro di F. Gauss,
che era solito calcolarle da bambino, mentre il maestro spiegava un’aritmetica evidente-
mente troppo noiosa. Nel libro di M. Spivak, Calculus, c’è un esercizio del primo capitolo
che suggerisce un metodo costruttivo per calcolare somme finite come quella appena vista.
Capitolo 2
Ora che abbiamo conquistato una certa familiarità con il linguaggio degli
insiemi, rivediamo rapidamente il linguaggio della teoria delle funzioni fra
insiemi.
f: X → Y
x 7→ f (x)
19
20 CAPITOLO 2. FUNZIONI FRA INSIEMI
Osservazione 2.3. Una situazione che solitamente risulta insidiosa per gli
studenti è il caso delle funzioni contenenti potenze in cui sia la base che
l’esponente sono variabili. Ad esempio, qual è il dominio di definizione di
x 7→ xx ? O di x 7→ (sin x)log x ? La risposta è che per definire un’espressione
quale
f (x)g(x)
xn = x · x · . . . · x (n fattori).
Il problema però è che non possiamo avanzare pretese sui numeri qn : po-
trebbero essere alternativamente positivi o negativi. Allora, per essere certi
che xpn /qn abbia senso, l’unica via d’uscita è chiedere che x > 0. Morale del
discorso: possiamo elevare ad una potenza reale generica solo le basi positive.
Un approccio alternativo, dovuto a Dedekind, propone di definire xα come il
valore di
Questa uguaglianza è però falsa per x < 0. Resta un ultimo, tremendo, dub-
bio: siccome N ⊂ Z ⊂ Q ⊂ R, come ci comportiamo davanti all’espressione
x2/3 ? Pensiamo 2/3 come un numero razionale oppure come un numero rea-
le? Già, perché le primo caso possiamo scegliere x reale, mentre nel secondo
solo x > 0! La risposta è quella più complicata6 : quando l’esponente è un
numero razionale, lo trattiamo come tale, senza pensarlo come un numero
reale.
Per togliere qualsiasi ambiguità, converrebbe distinguere rigorosamente e
senza eccezioni la funzione esponenziale dalla funzione inversa delle potenze.
In altri termini, dovremmo considerare separatamente (per esempio) le due
funzioni
f ◦ f −1 : y ∈ Y 7→ y ∈ Y (2.1)
e
f −1 ◦ f : x ∈ X 7→ x ∈ X. (2.2)
Definizione 2.9. Sia f : X → Y una funzione biunivoca. La funzione
f −1 : Y → X costruita sopra si chiama funzione inversa di f , ed è carat-
terizzata dalle condizioni (2.1) e (2.2).
Diversamente da alcuni libri di testo, saremo piuttosto rigidi sul concetto
di funzione invertibile. Come visto, per noi una funzione è invertibile quan-
do è biunivoca. Altri chiedono sono l’iniettività: il dominio della funzione
inversa sarà l’immagine della funzione diretta. Questa è una convenzione
legittima e addirittura comoda in certi contesti elementari. Noi privilegiamo
la definizione più comune fra i matematici puri. Tuttavia, lo studente si con-
vincerà facilmente di questo: qualsiasi funzione diventa suriettiva, a patto
di scegliere come codominio l’immagine della funzione. Se ci viene data una
funzione iniettiva f da un dominio X in un codominio Y , la nuova funzione
f˜: X → f (X) è una funzione biunivoca e perciò invertibile. Sebbene f˜ sia
una funzione diversa da f , è comodo indulgere in questa confusione.
Riassumendo, le (2.1) e (2.2) dicono che la funzione inversa è effetti-
vamente quell’operazione che “inverte” una funzione biunivoca rispetto alla
composizione ◦. Quando allo studente dovrà dimostrare che una certa funzio-
ne è invertibile, dovrà verificare che la funzione è iniettiva e suriettiva. Può
far comodo usare la caratterizzazione contenuta nella prossima proposizione.
Proposizione 2.10. Sia f : X → Y .
1. f è iniettiva se e solo se dall’uguaglianza f (x1 ) = f (x2 ) discende x1 =
x2 .
2. f è suriettiva se e solo se, per ogni y ∈ Y , l’equazione (nell’incognita
x ∈ X) f (x) = y possiede almeno una soluzione.
28 CAPITOLO 2. FUNZIONI FRA INSIEMI
per esempio una circonferenza o un’ellisse: sono rappresentanti delle ben note
coniche, ma non sono certamente grafici di funzioni reali di una variabile reale.
Esistono infatti rette verticali che intersecano tali curve in due punti distinti,
contro la definizione di funzione.
x 7→ ax2 + bx + c,
x 7→ ax ,
10
Cioè non lo interseca oppure lo interseca esattamente una volta.
11
Che non sono funzioni!
2.4. FUNZIONI ELEMENTARI 31
Quindi
π
αrad = αgradi .
180
Capitolo 3
33
34 CAPITOLO 3. SUCCESSIONI DI NUMERI REALI
cioè
2
< ε.
n+1
2
La domanda è: esiste un indice N ∈ N tale che n+1 < ε sia soddisfatta per
2
ogni n > N ? Per rispondere, “risolviamo” la disequazione n+1 < ε rispetto a
n:
2
n > − 1.
ε
Pertanto, se scegliamo N uguale al primo numero naturale maggiore di 2ε − 1,
abbiamo finito la verifica del limite proposto.
Dunque la verifica di un limite si riduce nel “risolvere” una disequazione
e nel dimostrare che l’insieme delle soluzioni contiene tutti i numeri naturali
maggiori di un opportuno valore. Prima di passare oltre, osserviamo che il
valore del limite ` è stato “regalato”, e che non saremmo riusciti a calcolar-
lo con la sola definizione. Vedremo fra poco quali strumenti esistano per
l’effettivo calcolo dei limiti.
|x − y| ≤ |x − z| + |z − y| (3.2)
valida per ogni terna x, y, z di numeri reali. Un’altra proprietà delle suc-
cessioni convergenti, cioè delle successioni che tendono a un limite nel senso
della nostra definizione, è che sono successioni limitate.
1. pn + qn → ` + m;
2. αpn → α`;
3. pn qn → `m;
pn `
4. qn
→ m
se m 6= 0.
38 CAPITOLO 3. SUCCESSIONI DI NUMERI REALI
C’è sempre un punto sul quale gli studenti dimostrano molta difficoltà:
rendersi conto che certe successioni non hanno limite, né finito né infinito.
Volendo fare un esempio, possiamo considerare la successione
S − ε < pN ≤ pn < S,
Enunciamo e dimostriamo uno dei criteri più usati per dimostrare la con-
vergenza delle successioni. Come accade sovente in matematica, il principio
è quello di ricondursi al caso precedente.
Teorema 3.21 (Due carabinieri). Siano {an }, {bn } e {pn } tre successioni.
Supponiamo che limn→+∞ an = limn→+∞ bn = ` ∈ R, e che an ≤ pn ≤ bn
definitivamente. Allora limn→+∞ pn = `. Se invece an → +∞ allora pn →
+∞, e se bn → −∞ allora pn → −∞.
Dim. Infatti, fissiamo ε > 0 e scegliamo N ∈ N tale che ` − ε < an < ` + ε e
` − ε < bn < ` + ε. Quindi
` − ε < an ≤ pn ≤ bn < ` + ε,
7
A volte, scriveremo S < +∞.
8
Usiamo questo verbo con una certa imprecisione.
9
Resta inteso che la monotonia deve sussistere per sempre, oltre quel valore dell’indice.
3.3. INFINITESIMI ED INFINITI EQUIVALENTI 43
Non è affatto immediato verificare che questa successione ha limite, dato che
{sin n} ha un comportamento piuttosto bizzarro. Tuttavia, basta osservare
che | sin n| ≤ 1, e quindi
sin n 1
0 ≤ ≤ ,
n n
per concludere che la successione tende a zero. Il teorema dei due carabinieri
si applica con an = 0 e bn = 1/n.
In realtà non è veramente restrittivo pensare alle successioni che conver-
gono a zero. Vale il seguente risultato, la cui dimostrazione immediata è
lasciata per esercizio.
Definizione 3.23. Sia {pn } e {qn } due successioni, entrambe tendenti a zero
(rispettivamente ad infinito). Diciamo che {pn } è un infinitesimo (rispetti-
44 CAPITOLO 3. SUCCESSIONI DI NUMERI REALI
Dim. Infatti,
pn
lim an pn = lim an qn = lim an qn ,
n→+∞ n→+∞ qn n→+∞
3.4 Sottosuccessioni
Immaginiamo di avere una successione
{p1 , p2 , p3 , . . . , pn , . . . }
e di selezionare alcuni elementi da essa, avendo cura di prenderli in ordine
crescente di indici. Per esempio, potremmo selezionare
p3 , p10 , p11 , p50 , p100 , . . .
Anche se a prima vista sembra un po’ curioso, abbiamo costruito un’altra
successione. Diamo una definizione generale per questo procedimento.
10
Su alcuni testi si trova pn ∼ qn , oppure pn ≈ qn .
3.5. IL NUMERO E DI NEPERO 45
Ma chi garantisce che {en } abbia un limite, e che questo limite sia finito?
Poiché [1∞ ] è una forma di indecisione,15 certo non i teoremi sul calcolo
algebrico dei limiti. Si potrebbe dimostrare con un po’ di fatica, ma noi
non lo faremo, che {en } è una successione monotona crescente e limitata. Di
conseguenza, {en } ha un limite finito, e battezziamo e tale limite. Usando
un programma di calcolo, si trova la seguente approssimazione con cinquanta
cifre decimali esatte:
e ≈ 2.7182818284590452353602874713526624977572470937000 . . .
13
La formula eiπ +1 = 0 è considerata una delle relazioni più belle di tutta la matematica,
poiché coinvolge in maniera semplice i cinque numeri più importanti: 0, 1, e, π ed i.
14
Questa affermazione è vera quando si vuole usare il calcolo differenziale. Un tempo
i logaritmi servivano per fare velocemente i calcoli, ed era inevitabile scegliere come base
10, poiché siamo abituati ad usare il sistema decimale per esprimere i numeri. Se fossimo
abituati ad operare nel sistema binario dei computer, useremmo con maggior profitto la
base 2.
15
Lo studente mediti sul fatto che limn→+∞ 1pn = 1, qualunque sia la successione
{pn } che diverge a ∞. Non è in contraddizione con l’affermazione che [1∞ ] è una forma
indeterminata?
3.6. APPENDICE: SUCCESSIONI DI CAUCHY 47
In conclusione, limn→+∞ pn = `.
48 CAPITOLO 3. SUCCESSIONI DI NUMERI REALI
Dim. del teorema di completezza. Sia {pn }n una successione di Cauchy for-
mata da numeri reali. Dalla definizione di successione di Cauchy segue che
{pn }n è necessariamente limitata.16 Sappiamo (si veda il Teorema 3.28) che
ogni successione limitata possiede una sottosuccessione convergente, e chia-
miamo ` tale limite. Dalla precedente Proposizione, tutta la successione
{pn }n deve convergere a `, e questo conclude la dimostrazione.
Il nome di questo teorema è legato al fatto che gli spazi metrici in cui tutte
le successioni di Cauchy sono necessariamente convergenti vengono chiamati
completi.
16
Lo studente si convinca di questa affermazione. Suggerimento: fissato ε = 1, tutti
i numeri della successione, ad esclusione di un numero finito N , distano l’uno dall’altro
meno di 1, e possono dunque essere inseriti in un intervallo di ampiezza 1. Allarghiamo
ora l’ampiezza di questo intervallo finché non vengano intrappolati tutti i primi N termini
della successione...
Capitolo 4
Serie numeriche
Per spiegare che cosa sia una serie numerica,1 pensiamo di raccogliere una
quantità finita di numeri reali, di ordinarli in un certo modo
p1 , p2 , . . . , pN
e di sommarli: p1 + p2 + . . . + pN . P
Si può abbreviare questa scrittura
introducendo il simbolo di sommatoria :
N
X
pi = p1 , p2 , . . . , pN .
i=1
Definizione 4.2. Sia {pn }n una successione di numeri reali. La serie asso-
ciata a {pn }n è la successione {sn }n definita dalla formula
n
X
sn = pj .
j=1
1
Esistono anche altri tipi di serie: di funzioni, di vettori, ecc.
49
50 CAPITOLO 4. SERIE NUMERICHE
Useremo il simbolo ∞
X
pn ,
n=1
P
o anche l’abbreviazione n pn , per indicare la successione {sn }n . La succes-
sione {sn }n prende il nome di successione delle somme parziali della serie.
Osservazione 4.3. Esplicitamente, s1 = p1 , s2 = p1 + p2 , s3 = p1 + p2 + p3 ,
ecc. Osserviamo che, data una serie {sn }n , risulta pn = sn − sn−1 , e pertanto
è univocamente individuata la successione che genera la serie.
Osservazione 4.4. In esatta analogia con le successioni del capitolo pre-
cedente, poco importa da quale valore parte l’indice della serie. Se è vero
che ∞ ∞
X X
pn e pn
n=1 n=0
∞
1X 1 1 1 1 1 1
k
= 0
+ + 2 + 3 + ...
3 k=0 3 3 3 3 3 3
1 1 1
= + 2 + 3 + ...
3 3 3
Dunque una serie è semplicemente una successione, il cui termine gene-
rale è costruito sommando i primi termini di un’altra successione. Si pone
naturalmente il problema della convergenza delle serie numeriche.
Definizione 4.6. La serie ∞
P
n=1 pn converge al valore S se
n
X
S = lim pj ,
n→+∞
j=1
L’angolo dello psichiatra. Gli studenti più attenti si saranno senz’altro ac-
corti della notazione paradossale usata comunemente perP indicare una serie.
Siccome P abbiamo definito una serie come la successione { nk=1 pk }n , usare il
simbolo ∞ n=1 pn significa confondere la serie con il suo limite! Se pensassimo
di estendere questo abuso di notazione a tutte le successioni, ci accorgerem-
mo immediatamente della pazzia compiuta: invece della successione {1/n} P n,
parleremmo della successione 0, il suo limite. La scrittura abbreviata n pn
è già migliore, ma non esente da critiche. Possiamo confrontare quest’uso
“leggero” dei simboli con l’espressione “la funzione x3 ”, che alla lettera non
è affatto una funzione, ma – al massimo – un numero reale. Probabilmente
tutto ci ò è un retaggio della confusione fra successioni, numeri e funzioni
che caratterizzava gli albori dell’analisi matematica.
Pertanto,
n
X 1 − q n+1
sn = qk = .
k=0
1−q
La successione {sn }n delle somme parziali converge se e solo se limn→+∞ q n+1
esiste finito, e questo accade se se solo se 0 < q < 1. Inoltre, abbiamo anche
il valore della serie: ∞
X 1
qn =
n=0
1−q
53
pn = qn − qn+1
Poiché
1 1 1
= − ,
n(n + 1) n n+1
possiamo porre qn = 1/n e concludere da (4.1) che la serie di Mengoli converge
a 1.
In generale, potrebbe non essere evidente fin dall’inizio che una serie è
telescopica. Di primo acchito, la serie
∞
X (n + 1)2
log
n=1
n(n + 2)
non sembra molto telescopica. Usando però le proprietà dei logaritmi, vedia-
mo che
(n + 1)2
log = 2 log(n + 1) − log n − log(n + 2)
n(n + 2)
= [log(n + 1) − log n] − [log(n + 2) − log(n + 1)].
2
Siamo volutamente imprecisi: la conclusione rigorosa sarebbe che le somme parziali
della serie con pn sono maggiorate dalle somme parziali della serie con qn . Come sappiamo,
il criterio asintotico non può garantire
P anche per i primi valori di n, e questo
la (4.2) P
potrebbe invalidare la relazione n pn ≤ (3/2)` n qn .
56 CAPITOLO 4. SERIE NUMERICHE
P
Teorema 4.16 (Criterio del rapporto). Sia n pn una serie a termini posi-
tivi. Supponiamo che
pn+1
lim = L.
n→+∞ pn
1+L n
la serie geometrica convergente ∞
P
Ancora dal confronto con P n=0 2
de-
duciamo la convergenza di n pn . Viceversa, per L > 1, preso ε = (L − 1)/2,
ripetendo gli stessi ragionamenti arriviamo a
n
pN +1 1+L
pn >
1+L N +1 2
2
Osservazione 4.17. Lo studente avrà notato che questi criteri sono sem-
plicemente applicazioni del criterio del confronto con opportune serie geo-
metriche. Le divergenze, invece, sono dedotte dal fatto che viene violata la
condizione necessaria per la convergenza di una serie. Intuitivamente, questo
fatto ci induce a sospettare che i due criteri non siano particolarmente fini nei
casi meno accademici. Come anticipato, nel caso L = 1 nessuno dei criteri è
efficace. Rimandiamo la disamina di questo fatto all’osservazione successiva.
sn = p1 + p2 + . . . + pn ,
tk = p1 + 2p2 + . . . + 2k p2k
n
n
5
K.F. Gauss, uno dei più importanti matematici dell’era moderna, aveva una caparbia
invidiabile nel mettersi a fare calcoli. Oggi lo potremmo definire simpaticamente uno
“smanettone”. Ad onor del vero, certi problemi matematici possono essere risolti solo
ricorrendo a lunghe pagine di calcoli. Quello del matematico come uno scienziato che
risolve problemi difficili senza scrivere una sola riga di conti è un falso mito che lusinga
tutti gli studenti del primo anno. L’eleganza formale con cui vengono presentati i teoremi
non dovrebbe far passare in secondo piano i sacrifici e gli sforzi dei matematici che li hanno
dimostrati per la prima volta.
6
È giunto il momento di sfatare un mito: ovviamente questi criteri si applicano al-
trettanto bene alle serie a termini negativi. L’importante è che tutti i termini della serie
abbiano lo stesso segno.
4.3. CONVERGENZA ASSOLUTA E CONVERGENZA DELLE SERIE DI SEGNO ALTERNO61
visto che i suoi termini non sono tutti dello stesso segno. Usando per ò la
maggiorazione | sin n| ≤ 1, possiamo concludere che questa serie converge
assolutamente, e quindi anche in senso ordinario. 7
Una classe di serie a termine di segno variabile è quella delle serie a termini
di segno alterno.
P
Definizione 4.25. Una serie n pn è detta serie a termini di segno alterno
quando pn pn+1 ≤ 0 per ogni n.
Di fatto, la Definizione richiede che ogni coppia di termini successivi nella
serie sia costituita da due numeri di segno opposto (o eventualmente nulli).
Il caso più frequente è quello delle serie del tipo
X
(−1)n pn ,
dove pn ≥ 0 per ogni n. Per queste serie esiste un potente criterio di conver-
genza (ma non di divergenze). Premettiamo un lemma che corrisponde alla
formula di integrazione per parti nel calcolo integrale.
Lemma 4.26 (Sommatoria per parti). Siano {pn }n e {qn }n due successioni.
Poniamo s−1 = 0 e
Xn
sn = pk
k=0
per n ≥ 0. Se 0 ≤ m ≤ n sono numeri naturali, allora
m
X m−1
X
pk qk = sk (qk − qk+1 ) + sm qm − sn−1 qn . (4.3)
k=n k=n
Dim.
m
X m
X m
X m−1
X
pk qk = (sk − sk−1 )qk = sk qk − sk qk+1
k=n k=n k=n k=n−1
2. q0 ≥ q1 ≥ q2 ≥ . . .;
3. limn→+∞ qn = 0.
P
Allora n pn qn converge.
Dim. Scegliamo M > 0 tale che |sn | ≤ M per ogni n. Fissato arbitrariamente
ε > 0, per l’ipotesi 3 esiste un numero naturale N tale che qN ≤ ε/(2M ).
Per N ≤ n ≤ m, dal Lemma precedente ricaviamo
X m m−1
X
pk qk = sk (qk − qk+1 ) + sm qm − sn−1 qn
k=n k=n
m−1
X
≤M (sk − sk+1 ) + qm + qn = 2M qn ≤ 2M qN = ε.
k=n
P
Questo dimostra che la serie n pn qn soddisfa la condizione di Cauchy, e
quindi converge.
Corollario 4.28. Supponiamo che
1. |c1 | ≥ |c2 | ≥ |c3 | ≥ . . .;
2. c2n−1 ≥ 0, c2n ≤ 0;
3. limn→+∞ cn = 0.
P
Allora n cn converge.
Dim. Applicare il Teorema precedente con pn = (−1)n+1 e qn = |cn |.
n
Questo corollario garantisce ad esempio che n (−1)
P
n
converge. poiché
|cn | = 1/n è decrescente e tende a zero. Si noti il contrasto con la convergenza
assoluta, che in questo caso non sussiste.
Con questo capitolo, lasciamo il mondo delle successioni, cioè delle funzio-
ni definite sul dominio N, ed entriamo in quello delle funzioni reali di una
variabile reale. Vedremo che anche per queste funzioni è sensato pensare a
un concetto di limite, ed anzi c’è una maggiore flessibilità. Come lo stu-
dente avrà osservato, i limiti delle successioni si calcolano solo per l’indice
n → +∞. Parlando in termini estremamente imprecisi, questo non ci sor-
prende più di tanto. D’altronde, se lo spirito dei limiti è quello di vedere cosa
succede quando una variabile si avvicina a piacere a un valore, una variabile
n ∈ N non può avvicinarsi a piacere a un numero reale. Invece, una variabile
reale x può senza dubbio essere vicina a piacere a qualunque altro numero
reale.
63
64 CAPITOLO 5. LIMITI DI FUNZIONI E FUNZIONI CONTINUE
(ii) per ogni ε > 0 esiste δ > 0 tale che |f (x) − L| < ε per ogni x ∈ (a, b)
tale che 0 < |x − x0 | < δ.
Dim. Supponiamo che sia vera la (i) ma che la (ii) sia falsa. Allora esiste
ε > 0 ed esiste una successione {xn } tale che xn → x0 , xn 6= x0 , ma |f (xn ) −
L| ≥ ε. Questà è una contraddizione con l’ipotesi (i), e perciò anche (ii)
deve essere vera. Viceversa, supponiamo che sia vera (ii) e dimostriamo la
(i). Sia {xn } una qualunque successione di elementi di (a, b), distinti da x0
e tali che xn → x0 . Fissiamo ε > 0 e sia δ > 0 il numero la cui esistenza
è garantita dall’ipotesti (ii). Definitivamente, 0 < |xn − x0 | < ε, e dunque
|f (xn ) − L| < ε. Questo significa esattamente che limn→+∞ f (xn ) = L.
Invitiamo lo studente ad osservare e memorizzare la richiesta “xn 6= x0 ” e
l’equivalente 0 < |x − x0 |. Entrambe significano che, nell’effettuare l’opera-
zione di limite per x → x0 , possiamo (e dobbiamo) trascurare completamente
tutto ciò che avviene nel punto x0 . Nel punto x0 a cui tende la x la funzione f
potrebbe tranquillamente non essere definita. Ma anche se lo fosse, il valore
f (x0 ) non importerebbe nulla. Per esempio, le due funzioni
f (x) = x ∀x ∈ R
e (
x, x 6= 0
g(x) =
1, x = 0
assumono valori diversi in x0 = 0, e tuttavia limx→x0 f (x) = limx→x0 g(x) =
0. L’Autore di [13] sottolinea che la richiesta “|x−x0 | > 0” potrebbe tranquil-
lamente essere omessa, perché le funzioni che in questo modo non avrebbero
limite sarebbero “senza importanza”. Chi scrive rispetta ovviamente questo
punto di vista, ma non lo condivide. Il concetto di limite sembra infatti
particolarmente significativo proprio perché è applicabile in quei punti vici-
ni a piacere al dominio di definizione (i cosiddetti punti di accumulazione
2
In certi testi italiani, il prossimo teorema viene chiamato teorema ponte. Non avendo
mai capito bene questa terminologia, preferiamo evitarla.
5.1. LIMITI DI FUNZIONI COME LIMITI DI SUCCESSIONI 65
lim f (x) = L
x→x0
x∈E
se per ogni ε > 0 esiste δ > 0 tale che |f (x) − L| < ε per ogni x ∈ (x0 − δ, x0 ).
Analogamente, diremo che
lim f (x) = L
x→x0 +
se per ogni ε > 0 esiste δ > 0 tale che |f (x)−L| < ε per ogni x ∈ (x0 , x0 +δ).
4
Ricordiamo che (a, +∞) = {x ∈ R | x > a}.
5
Ricordiamo che (−∞, b) = {x ∈ R | x < b}.
5.2. TRADUZIONE DEI TEOREMI SULLE SUCCESSIONI 67
Teorema 5.14 (Unicità del limite). Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ [a, b]. Se
limx→x0 f (x) = L1 e limx→x0 f (x) = L2 , allora L1 = L2 .
Teorema 5.15 (Limitatezza locale). Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ [a, b]. Se
esiste finito il limite limx→x0 f (x), allora f è localmente limitata vicino a x0 .
Più esplicitamente, esiste un intorno I di x0 ed esiste un numero C > 0 tali
che |f (x)| < C per ogni x ∈ I.
Teorema 5.16. Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ [a, b]. Se limx→x0 f (x) = L > 0,
allora esiste un intorno U di x0 in cui f > 0. Se f ≥ 0 in un intorno di x0
e se esiste il limx→x0 f (x) = L, allora L ≥ 0.
Teorema 5.17 (Due carabinieri). Siano f , g ed h tre funzioni definite in
(a, b), e sia x0 ∈ [a, b]. Supponiamo che, per ogni x ∈ (a, b), risulti g(x) ≤
f (x) ≤ h(x). Se limx→x0 g(x) = limx→x0 h(x) = L, allora limx→x0 f (x) = L.
Teorema 5.18. Sia f : (a, b) → R una funzione monotona (crescente oppure
decrescente).
(i) Se f è crescente, allora
Q T
O
P
sin x
Figura 5.1: Il limite notevole limx→0+ x
=1
Quindi
2
1 − cos x sin x 1 1
lim = lim lim = .
x→0 x2 x→0 x x→0 x2 (1 + cos x) 2
sin x
Il terzo limite è quasi ovvio, basta scrivere tan x = cos x
ed usare il primo
limite notevole.
Il quarto limite è di solito usato come definizione del numero di Nepero
e. Spesso lo si trova scritto nella forma equivalente
x
1
lim 1 + = e.
x→±∞ x
Gli ultimi due limiti, fra loro equivalenti (suggerimento: cambiare la variabile
1 + x = et ), possono essere dimostrati solo utilizzando la definizione della
funzione esponenziale. Non avendo tempo di discutere la costruzione delle
potenze reali con base reale, ci accontentiamo di sapere il valore dei limiti.
5.4 Continuità
È inutile sottolineare che non sempre una funzione ha limite. La funzione
f : [0, 1] → R definita da
(
0, x ∈ Q
f (x) =
1, x ∈ R \ Q
Dalle regole per il calcolo algebrico dei limiti, segue immediatamente che
tutte
PN le funzioni polinomiali, cioè le funzione rappresentate da un polinomio
i
i=1 ai x di qualsiasi grado N ≥ 1 sono continue in ogni punto di R. Infatti,
la somma e il prodotto di funzioni continue sono continue. Sono inoltre
continue praticamente tutte le funzioni elementari che lo studente conosce:
seno, coseno, esponenziali, logaritmi.
Osservazione. Capita spesso di sentir dire, anche da persone autorevoli,
che la funzione x 7→ 1/x è discontinua nel punto x = 0. Ora, tale funzione
non è definita in x = 0, ed è pertanto imbarazzante applicare la definizione
di continuità in questo caso. Di solito, non si fanno affermazioni relative ad
oggetti inesistenti. Per esempio, è vero o falso che i mandarini alati hanno
quattro ruote motrici?
È chiaro che questa discussione ha una natura filosofica: è lecito attribuire
proprietà a ciò che non esiste? Io credo che non si possa parlare razionalmente
del nulla, ma capisco anche l’altra posizione: il nulla non possiede alcuna
proprietà, proprio perché è nulla. Quindi, una funzione non definita in un
punto non possiede la continuità, e dunque è discontinua.10
9
Mentre la Definizione 5.20 ha validità generale, il teorema di caratterizzazione non
può coprire una caso particolare: quello di una funzione come f : (0, 1) ∪ {2} → R. Ci
chiediamo che cosa significhi dire che f è continua in x0 = 2. La Definizione 5.20 ci dice
che nei fatti f è sempre continua in tale punto, qualunque “sia il valore di f (2). Mentre
il teorema di caratterizzazione è privo di senso: non si può far avvicinare x a 2 restando
nel dominio di f . In altri termini, non ha senso scrivere limx→2 f (x). Sembra che la
definizione” di continuità proposta in [13, Definizione 7.1] risenta di questa scorrettezza.
In ogni caso, per un corso come il nostro, il dominio delle funzioni non contiene punti
isolati, ed il teorema di caratterizzazione contiene una condizione necessaria e sufficiente
per la continuità.
10
Molti dei più celebri scienziati erano anche filosofi, e queste diatribe hanno a volte
rallentato il progresso scientifico. Nelle scienze umane, la sovrapposizione fra progresso
scientifico e insegnamento religioso ha generato molte pagine buie della storia del pensiero
moderno. In questo senso, una disciplina astratta come la matematica ha sempre goduto
di maggiore libertà.
72 CAPITOLO 5. LIMITI DI FUNZIONI E FUNZIONI CONTINUE
f (x)
lim = 1,
x→x0 g(x)
e scriviamo
f g per x → x0 .
e (
g(x) se x 6= x0
g̃(x) =
0 se x = x0
Teorema 5.32 (Teorema degli zeri). Sia f : [a, b] → R una funzione conti-
nua. Se f (a)f (b) < 0, allora esiste (almeno) un punto x0 ∈ (a, b) tale che
f (x0 ) = 0.
Dim. Supponiamo per comodità che f (a) < 0 e f (b) > 0. Il caso f (a) > 0 e
f (b) < 0 è identico. Definiamo l’insieme
b−a
0 ≤ bn − an ≤ . (5.7)
2n
Le successioni monotone limitate13 hanno limite, siano
a∞ = lim an , b∞ = lim bn .
n→+∞ n→+∞
Dim. Senza ledere la generalità del discorso, supponiamo f (a) ≤ f (b). Sce-
gliamo y0 ∈ [f (a), f (b)] e dimostriamo che esiste x0 ∈ [a, b] tale che f (x0 ) =
y0 .
Se y0 = f (a), basta prendere x0 = a. Analogamente se y0 = f (b).
Se f (a) < y0 < f (b), definiamo la funzione ausiliaria g(x) = f (x) − y0 .
Ovviamente g : [a, b] → R è continua, e g(a) = f (a) − y0 < 0, g(b) = f (b) −
y0 > 0. Per il teorema degli zeri, esiste x0 ∈ [a, b] tale che g(x0 ) = 0. Ma
questo vuole dire che f (x0 ) = y0 . Il teorema è dimostrato.
È facile vedere che, preso arbitrariamente y ∈ [−1, 1], esiste almeno un nu-
mero x ∈ R tale che sin x1 = y. 15 Tuttavia f presenta una discontinuità in
x = 0.
14
Non insistiamo sul fatto che questi metodi funzionano solo per le funzioni del calcolo
differenziale, mentre quelle continue sono indiscutibilmente più numerose. D’altra parte,
molti problemi delle scienze applicate assumono tacitamente che tutte le quantità in gioco
siano funzioni estremamente “addomesticate”.
15
Ad esempio x = 1/ arcsin y per y 6= 0. Il caso y = 0 è altrettanto facile.
78 CAPITOLO 5. LIMITI DI FUNZIONI E FUNZIONI CONTINUE
Abbiamo così dimostrato che f (x1 ) = M = supx∈[a,b] f (x). Ciò implica che
M ∈ R e che x1 è un punto di massimo assoluto per f .
Di questo importantissimo teorema vogliamo presentare una seconda di-
mostrazione, basata sul metodo della bisezione. Seguiamo abbastanza fedel-
mente [13].
Dimostrazione alternativa. Dimostriamo ad esempio che f ha massimo as-
soluto. Detto S = supx∈[a,b] f (x), dividiamo l’intervallo I = [a, b] in due
intervalli uguali, e siano S1 e S2 gli estremi superiori di f in questi due
sottointervalli. Poiché I è l’unione di questi sottointervalli, necessariamen-
te S = max{S1 , S2 }. Abbiamo così individuato un intervallo I1 = [a1 , b1 ]
tale che supx∈[a1 ,b1 ] f (x) = S e b1 − a1 = (b − a)/2. Proseguendo allo
stesso modo, troveremmo degli int ervalli In = [an , bn ] tali che In ⊂ In−1 ,
bn − an = (b − a)/2n , e supx∈[an ,bn ] f (x) = S per ogni n ≥ 1. La successione
{an } è monotona crescente, e la successione {bn } è monotona decrescente.
Siccome entrambe sono limitate, necessariamente sono dotate di limite fini-
to. Inoltre, limn→+∞ bn = limn→+∞ an + (b − a) limn→+∞ 2−n = limn→+∞ an .
Detto x0 ∈ [a, b] il valore comune dei due limiti, vogliamo dimos trare che
f (x0 ) = S. Si ha ovviamente f (x0 ) ≤ S. Se fosse f (x0 ) < S, posto
2p = S − f (x0 ), si avrebbe f (x0 ) = S − 2p < S − p e dunque, per il
teorema della permanenza del segno, esisterebbe un intorno J di x0 tale che
f (x) < S −p per ogni x ∈ J. D’altra parte le successioni {an } e {bn } tendono
a x0 , e quindi per n abbastanza grande sia an che bn cadranno in J, e dunque
In = [an , bn ] ⊂ J. Ma allora si dovrebbe avere f (x) < S − p per ogni x ∈ In ,
il che è in contraddizione con il fatto che supx∈[an ,bn ] f (x) = S. Concludiamo
che f (x0 ) = S, e per definizione ciò significa che x0 è un punto di massimo
assoluto per la funzione f .
Osservazione 5.38. Per gli studenti più curiosi, segnaliamo che la seconda
dimostrazione è basata sulla forma del dominio di f , un intervallo chiuso e
limitato. Il teorema di Weierstrass continua a valere per qualunque funzione
continua definita su un insieme chiuso e limitato (ma non necessariamente
un intervallo). La dimostrazione alternativa non può essere estesa a questo
caso più generale, mentre la prima dimostrazione resta essenzialmente valida.
Per capirci, una funzione continua definita sull’insieme (chiuso e limitato)
5.7. MASSIMI E MINIMI 81
Più esplicitamente, questo teorema ci dice che, sotto le ipotesi fatte, esiste
un punto x0 ∈ [a, b] di minimo assoluto per f , ed esiste un punto x1 ∈ [a, b]
di massimo assoluto per f . Lo studente deve ricordare che il contenuto
del Teorema di Weierstrass è tutto qui. Non si afferma nulla sul numero
di punti di massimo o minimo, né sulla loro localizzazione nell’intervallo
[a, b]. Potrebbero coincidere con gli estremi, potrebbero essere dieci, cento
oppure mille. E, purtroppo, non dice come individuarli. In una giornata
di pioggia, saremmo tentati di sostenere che allora è un teorema inutile. In
tal caso, faremmo bene ad attendere una giornata di sole per schiarirci le
idee. Il teorema appena enunciato ci dice che, sotto le ipotesi scritte, i punti
di massimo e minimo assoluti esistono! Sarebbe una tortura dover cercare
qualcosa che forse non esiste. Ci sarebbero studenti ormai decrepiti, ancora
impegnati a controllare se una funzione ha massimi e minimi.18
Che le ipotesi del teorema di Weierstrass servano proprio tutte, si capisce
dai prossimi esempi. Se il dominio della funzione non è un intervallo chiuso
e limitato19 possono sorge problemi. Prendiamo la funzione f : x ∈ (0, 1] 7→
1/x ∈ R. È continua sul suo dominio, ma non possiede massimo assoluto.
Infatti supx∈(0,1] f (x) = +∞. Il dominio è un intervallo primo di uno degli
estremi. Ma il teorema fallisce anche quando il dominio è un intervallo non
limitato: f : x ∈ R 7→ ex ∈ R è una funzione continua, priva di massimo
e di minimo assoluti. Infine, è evidente che la continuità sia fondamentale.
Definiamo f : [−1, 1] 7→ R come
(
|x|, x 6= 0
f (x) =
1, x = 0.
18
È un dato di fatto che questi studenti ci sono. Forse perché il perfido professore ha
chiesto di studiare una funzione che non verifica le ipotesi del teorema di Weierstrass. La
matematica è interessante soprattutto quando obbliga a usare strumenti non ordinari.
19
In realtà la formulazione generale del teorema di Weierstrass non si limita agli
intervalli, ma non abbiamo le conoscenze per scendere nei particolari.
82 CAPITOLO 5. LIMITI DI FUNZIONI E FUNZIONI CONTINUE
pur essendo entrambi numeri reali. Il valore di f (x0 ) poco importa, non ci
sono speranze che f sia continua in x0 . Intuitivamente, f “salta” dal valore
limx→x0 − f (x) al valore limx→x0 + f (x). Si parla di discontinuità a salto in x0 .
Infine, restano... tutti gli altri casi immaginabili. Ad esempio se almeno
uno dei due limiti destro e sinistro è infinito, oppure se il limite limx→x0 f (x)
non esiste, oppure se uno solo dei limiti destro e sinistro non esiste. Parleremo
di discontinuità di terza specie, senza addentrarci in ulteriori classificazioni.
20
Uno studente spiritoso potrebbe sollevare la seguente obiezione: se è permesso cam-
biare la funzione, qualunque funzione diventa continua. È un po’ provocatorio, ma ha
un fondo di verità: se iniziamo giocando a pallacanestro, non possiamo finire giocando a
briscola.
84 CAPITOLO 5. LIMITI DI FUNZIONI E FUNZIONI CONTINUE
Capitolo 6
Il calcolo differenziale
85
86 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
C’è chi ama parlare di rette tangenti, chi di velocità ed accelerazione. Per
tutte queste motivazioni storico–filosofiche, rimandiamo lo studente ad uno
dei testi citati in bibliografia. In ogni caso, l’idea innovativa in comune è
quella di variazione infinitesima di una funzione.
Ricordiamo che, data una funzione f : (a, b) → R, la variazione di f nel
punto x0 ∈ (a, b) di incremento h è il rapporto
∆f f (x0 + h) − f (x0 )
(x0 , h) = .
∆x h
Questo rapporto è ben definito quando |h| è sufficientemente piccolo, in modo
che x0 + h ∈ (a, b). Ha allora senso domandarsi che cosa rappresenti il limite
∆f f (x0 + h) − f (x0 )
lim (x0 , h) = lim .
h→0 ∆x h→0 h
Spesso questo limite non esiste nemmeno; se consideriamo il punto x0 = 0 e
la funzione f (x) = |x|, allora
f (x0 + h) − f (x0 ) |h|
lim = lim = −1,
h→0− h h→0− h
mentre
f (x0 + h) − f (x0 ) |h|
lim = lim = 1,
h→0+ h h→0+ h
f (x0 + h) − f (x0 )
Df (x0 ) = lim , (6.1)
h→0 h
a patto che tale limite esista finito. Diremo che f è derivabile in x0 se esiste
la derivata Df (x0 ).
d
sin x = cos x.
dx
La notazione
D(x 7→ sin x)(x) = cos x,
per quanto logicamente più corretta, sembra improponibile. Lo studente è
libero di scegliere la notazione preferita, con la consapevolezza che
d
sin x = cos t
dt
è una immane sciocchezza. L’importante è che, compiuta una scelta, ad essa
ci si attenga con coerenza.
88 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
Vediamo adesso che la derivata identifica in modo univoco una retta che
rappresenta la migliore approssimazione lineare di ogni funzione derivabile.
Proposizione 6.4. Sia f : (a, b) → R una funzione, e sia x0 ∈ (a, b). Sono
equivalenti:
(i) f è derivabile in x0 ;
(ii) f è continua in x0 , e la retta di equazione y = Df (x0 )(x − x0 ) + f (x0 )
approssima la funzione f localmente, nel senso che
f (x) − (Df (x0 )(x − x0 ) + f (x0 ))
lim = 0.
x→x0 x − x0
è continua in f (x) perché g è per ipotesi derivabile in f (x). Inoltre per ogni
h sufficientemente piccolo si può scrivere
g(f (x + h)) − g(f (x)) f (x + h) − f (x)
= v(f (x + h))
h h
come si verifica subito distinguendo i due casi f (x + h) 6= f (x) e f (x + h) =
f (x). Per h → 0 si ha f (x + h) → f (x), v(f (x + h)) → v(f (x)) = Dg(f (x))
per il teorema di continuità delle funzioni composte. Quindi
g(f (x + h)) − g(f (x))
lim = Dg(f (x))Df (x),
h→0 h
e il teorema è dimostrato.
Osservazione 6.7. La precedente dimostrazione contiene in realtà una de-
finizione equivalente di derivabilità per una funzione f , introdotta da Weier-
strass. Una funzione f , definita almeno in un intorno del punto x0 , è deriva-
bile in x0 se e solo se esiste una funzione continua ω tale che
y = y(x), w = w(y),
∆f f (x + h) − f (x)
=
∆x h
per il rapporto incrementale. Scriviamo per semplicità y = f (x). Ora, non è
vero che
∆(g ◦ f ) ∆g ∆y
= .
∆x ∆y ∆x
Il punto è che potremmo aver diviso per zero, operazione vietata in mate-
matica. Nessuno può garantire che ∆y = f (x + h) − f (x) 6= 0, a meno
di supporre che Df (x) 6= 0. Tuttavia, sarebbe assolutamente pretestuoso
aggiungere questa ipotesi nel teorema, che infatti vale comunque.4
Per applicare la regola della catena, occorre imparare ad isolare gli “atomi”
che compongono una funzione. Tutte le funzioni di questo corso sono solo
somme, prodotti, quozienti e composizioni delle solite funzioni elementari.
Per esempio x 7→ sin(1 + x) si decompone nella composizione
x 7→ 1 + x 7→ sin(1 + x).
4
D’accordo, lo studente è libero di credere che si commetterebbe un peccato veniale. In
matematica, purtroppo, le dimostrazioni sono giuste o sbagliate. Spiace comunque notare
che parecchi libri di testo, sia per le scuole superiori che per l’università, propongono una
dimostrazione sbagliata della regola della catena.
92 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
Quindi
d
sin(1 + x) = cos(1 + x) · 1,
dx
poiché f (x) = 1 + x e g(y) = sin y. È molto utile ragionare come se fossimo
una calcolatrice: ci viene fornito x, e su tale variabile facciamo delle ope-
razioni. Nell’esempio, prima calcoliamo 1 + x, e poi calcoliamo il seno del
risultato. Ecco dunque le due funzioni che compongono x 7→ sin(1 + x). Non
c’è nulla di sbagliato in questo approccio, anche se presto si impara a rag-
gruppare le operazioni più comuni. Se è vero che per la funzione x 7→ 3x + 2
si prende x, si trova 3x e p oi si trova 3x + 2, ben poche persone applicano
la regola della catena a questa funzione. Più semplicemente, si nota che
d d d
(3x + 2) = (3x) + 2 = 3.
dx dx dx
Il risultato deve essere lo stesso, ma l’esperienza aiuta sempre a scegliere
quale strada prendere per giungere rapidamente al traguardo.
Esiste naturalmente una formula di derivazione della funzione inversa.
Purtroppo, l’enunciato sembra più difficile di quanto non lo sia davvero.
Teorema 6.8 (Derivata della funzione inversa). Sia f : (a, b) → (c, d) una
funzione biunivoca e derivabile nel punto x0 ∈ (a, b). Allora la funzione
inversa f −1 : (c, d) → (a, b) è derivabile nel punto y0 = f (x0 ) ∈ (c, d), e vale
la relazione
1
Df −1 (y0 ) = . (6.2)
Df (x0 )
Dim. La dimostrazione è diretta: siano y0 = f (x0 ) e k = f (x0 + h) − f (x0 ).
Per la continuità della funzione inversa, k → 0 per h → 0. Quindi
f −1 (y0 + k) − f −1 (y0 ) h
lim = lim .
k→0 k h→0 f (x0 + h) − f (x0 )
Quindi
1 1
D log(y0 ) = x
= ,
e 0 y0
e questo vale per ogni y0 > 0. Abbiamo quindi trovato la derivata del-
la funzione logaritmo, senza nemmeno scriverne il rapporto incrementale.
Seguendo questo schema, si calcolano le derivate delle funzioni inverse di se-
no, coseno, tangente. Lo studente potrà ricavare le rispettive formule per
esercizio, e troverà i dettagli nei testi citati in bibliografia.
Definizione 6.9. Sia f : (a, b) → R una funzione continua, e sia x0 ∈ (a, b).
Diciamo che f possiede derivata sinistra in x0 se esiste finito il limite
f (x0 + h) − f (x0 )
lim .
h→0− h
f (x0 + h) − f (x0 )
lim .
h→0+ h
Una prima applicazione di questo fatto è alle funzioni definite per “incol-
lamento”.
94 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
Allora
f (x0 + h) − f (x0 )
.
h
Poiché x0 + h ∈ [x0 − δ, x0 + δ], il numeratore è sempre maggiore o uguale a
zero. Ne deduciamo che
f (x0 + h) − f (x0 )
Df (x0 ) = lim ≤ 0,
h→0− h
mentre
f (x0 + h) − f (x0 )
Df (x0 ) = lim ≥ 0.
h→0+ h
Se un numero è simultaneamente ≤ 0 e ≥ 0, allora tale numero è 0. Il teorema
è così dimostrato per i minimi relativi. Per i massimi relativi, si applicano
le stesse considerazioni, e l’unica differenza è l’inversione delle ultime due
disuguaglianze.
Concretamente, il procedimento per individuare i punti di massimo e
minimo relativi di una funzione assegnata è: isolo i punti dove f non è
derivabile, e isolo gli (eventuali) estremi del dominio di definizione. Infine
cerco gli zeri della derivata. Attenzione, il teorema di Fermat è falso se x0
cade in uno degli estremi di (a, b). Come esempio, sia f : x ∈ [0, 1] 7→ x. Il
minimo assoluto è in x = 0, il massimo assoluto in x = 1. Però f 0 (x) 6= 0 per
ogni x ∈ [0, 1].
Questa definizione non è superflua: non tutti gli zeri della derivata sono
massimi oppure minimi. Se poniamo f (x) = x3 per ogni x ∈ R, troviamo
facilmente l’unico zero della derivata prima, x = 0. Ora, se x > 0 allora
x3 = f (x) > 0, mentre se x < 0 è x3 = f (x) < 0. Quindi, l’origine non è un
minimo né un massimo per f , visto che in ogni intorno dell’origine cadono
punto in cui f vale meno di 0 e punti in cui f vale più di 0. L’origine è dunque
un punto critico di f che non sa ppiamo ancora descrivere bene.6 Infine, la
funzione x 7→ |x| è un classico esempio di funzione con un punto di minimo
assoluto (quale?) dove la derivata non esiste. Il prossimo teorema dà una
6
Qualche studente ricorderà che 0 è un punto di flesso per f , ma ci arriveremo fra un
po’.
96 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
f (b) − f (a)
Df (ξ) = .
b−a
Dim. La tecnica dimostrativa consiste nell’applicare il teorema di Rolle a
una funzione ausiliaria che ne verifica le ipotesi. A tale scopo, definiamo
g : [a, b] → R mediante la formula
f (b) − f (a)
g(x) = f (x) − f (a) − (x − a).
b−a
In pratica, facciamo la differenza fra f e la retta che unisce gli estremi
(a, f (a)) con (b, f (b)). È chiaro che g è continua in [a, b], derivabile in (a, b),
e g(a) = g(b) = 0 Dunque g soddisfa le ipotesi del teorema di Rolle, sicché
esiste ξ ∈ [a, b] dove Dg(ξ) = 0. Le regole di derivazione affermano che
Dg(x) = Df (x) − f (b)−f b−a
(a)
, e la condizione Dg(ξ) = 0 si legge
f (b) − f (a)
Df (ξ) = .
b−a
Questo completa la dimostrazione del teorema.
1 log b − log a 1
< <
b b−a a
Nei vari testi consultati, esistono piccole differenze nella classificazione dei
punti singolari. In particolare, molti libri chiamano cuspide solo un punto
singolare in cui sono infinite sia la derivata sinistra che quella destra. Poi,
però, non attribuiscono alcun nome al punto singolare in cui solo una di tali
derivate è infinita. Fortunatamente, non sembrano esserci divergenze sulla
definizione dei punti angolosi.
3. Se Df (x) > 0 (risp. Df (x) < 0) per ogni x ∈ (a, b), allora f è
strettamente crescente (risp. strettamente decrescente).
Dim. La prima affermazione discende dal teorema della permanenza del se-
gno applicato al rapporto incrementale. Le altre affermazioni sono conse-
guenza del teorema di Lagrange. Fissati arbitrariamente x1 < x2 in (a, b),
esiste un punto ξ ∈ (x1 , x2 ) tale che f (x2 ) − f (x1 ) = Df (ξ)(x2 − x1 ). Quindi
il segno di f (x2 ) − f (x1 ) è individuato dal segno di Df (ξ).
Dim. Sia x ∈ (a, b), x 6= x0 . Per il teorema di Lagrange, esiste ξ = ξ(x) tale
che f (x) − f (x0 ) = Df (ξ)(x − x0 ). Ovviamente, siccome ξ ∈ (x0 , x), si avrà
ξ → x0 per x → x0 . L’ipotesi della Proposizione garantisce allora che
f (x) − f (x0 )
lim = lim Df (ξ) = λ.
x→x0 x − x0 x→x0
Poiché
1
0 ≤ |f (x)| = x sin ≤ x2 → 0
2
x
per x → 0, f è continua un x = 0. Inoltre
f (x) − f (0) 1
lim = lim x sin = 0.
x→0 x−0 x→0 x
Dunque Df (0) = 0. Se x 6= 0, la derivata vale
1 1
Df (x) = 2x sin − cos ,
x x
che non ha limite per x → 0. La Proposizione non è perciò applicabile,
mentre la derivata di f in 0 esiste.11
Definizione 6.23. Diremo che la funzione f è derivabile due volte nel punto
x0 ∈ (a, b) se la funzione derivata di f è derivabile a sua volta in x0 . La
derivata seconda di f in x0 è denotata con uno dei simboli
d2 f
2
D f (x0 ), 00
f (x0 ), (x0 ), f¨(x0 ).
dx2
Evidentemente, è possibile iterare il ragionamento precedente, e parlare
così di derivata terza, quarta, ecc. In generale, per indicare la derivata n–
esima si usano i simboli
dn f
Dn f (x0 ), f (n) (x0 ), (x0 ).
dxn
Impareremo presto ad usare uno strumento, il polinomio di Taylor, in cui le
derivate successive rivestono un ruolo di fondamentale importanza. Nel resto
di questo paragrafo, ci concentreremo sulla derivata seconda, l’ultima ad ave-
re qualche interpretazione geometrica degno di nota. Prima però dobbiamo
introdurre una definizione.
funzione che volge la concavità verso l’alto. Pur sentendoci in grado di af-
fermare che “convessità” è l’unica denominazione in voga nella matematica
contemporanea, poco importano i nomi e gli aggettivi.
Osservazione. Come visto, per noi la definizione di funzione convessa è
di natura globale, e non daremo un significato a frasi quali “la funzione è
convessa in un punto”.
Un altro punto sul quale condividiamo le perplessità dello studente è l’ap-
plicabilità della disuguaglianza di convessità. Se, per esempio, non è difficile
dimostrare con tale definizione che la funzione x 7→ x2 è convessa in tut-
to R, per funzioni più complicate risulta impossibile gestire elementarmente
le disuguaglianze. Occorrono dunque dei criteri, cioè delle condizioni atte
ad assicurare la convessità di una data funzione mediante test maneggevoli.
Eccone uno.
(i) f è convessa.
(iii) Il grafico di f è sopra tutte le sue tangenti, cioè per ogni x, x0 ∈ [a, b]
(i) f è convessa.
Non c’è bisogno di dire che considerazioni del tutto analoghe devono essere
fatte per gli asintoti obliqui per x → −∞. Evidenziamo poi che abbiamo
sempre supposto m 6= 0. Da un lato, il caso m = 0 corrisponde all’asintoto
orizzontale. Dall’altro, se la relazione (6.4) fornisce m = 0, non è corretto
√
affermare che esiste un asintoto orizzontale. Ad esempio, la funzione x 7→ x
non ha asintoti per x → +∞, eppure m = 0.
Da ultimo, una stessa funzione può presentare due asintoti obliqui distinti,
il primo per x → −∞ e il secondo per x → +∞. Dunque le formule (6.4)
e (6.5) devono essere applicate sia per x → +∞ che per x → −∞, senza
alcuna possibilità di fare economia sui calcoli.12
Riassumendo, studiare l’andamento di una funzione è un esercizio che
possiamo suddividere in vari passi. In particolare, lo studente potrà seguire
questo schema.
• Identificare eventuali simmetrie, anche in senso lato, o periodicità della
funzione, così come le zone in cui la funzione è continua, derivabile, ecc.
• Studiare l’andamento asintotico della funzione vicino ai punti estremi
del dominio di definizione. Questo comprende anche il calcolo dei limiti
all’infinito, e l’individuazione degli asintoti.
• Identificare il segno della derivata prima, cioè le zone in cui f è mo-
notona, e i punti critici. Determinare la natura degli eventuali punti
critici, e, quando possibile, studiare il segno della derivata seconda per
definire le regioni di convessità e gli eventuali punti di flesso.
12
Lo studente non prenda questa affermazione come un’accusa di scarsa volontà. In un
corso non specialistico come il nostro, buona parte degli esercizi consiste nel fare conti.
Prafrasando Pasolini, “calcolare stanca”, ma è anche l’unico modo per verificare se lo
studente sa usare le idee presentate a lezione.
108 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
per ogni x ∈ (a, c). Ora, se a < x < y < c, il teorema di Cauchy implica
l’esistenza di un numero t ∈ (x, y) con
f (y)
<r
g(y)
f (y)
p<
g(y)
per ogni a < y < c̄. Riassumendo, abbiamo dimostrato che il rapporto
f (y)/g(y) è vicino a piacere a L, a patto di prendere y abbastanza vicino a
a. La dimostrazione del teorema è completa.
Se
Df (x)
lim = L,
x→a+ Dg(x)
f (x)
lim = L.
x→a+ g(x)
Df (x)
<r
Dg(x)
110 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
per ogni x ∈ (a, c). Ora, se a < x < y < c, il teorema di Cauchy implica
l’esistenza di un numero t ∈ (x, y) con
f (x) − f (y) Df (t)
= < r. (6.6)
g(x) − g(y) Dg(t)
Per fissare le idee, supporremo d’ora in avanti che limx→a+ g(x) = +∞.
Lasciamo allo studente le piccole modifiche necessarie a trattare il caso
limx→a+ g(x) = −∞.
Tenendo y fissa nell’ultima equazione, scegliamo c1 ∈ (a, c) tale che
g(x) > g(y) per ogni x ∈ (a, c1 ). Questo è possibile, perch é g(x) diventa
infinitamente grande al tendere di x verso a. Per la stessa ragione, possiamo
anche supporre che g(x) > 0. Moltiplicando la (6.6) per la quantità positiva
(g(x) − g(y))/g(x), troviamo
f (x) g(y) f (y)
<r−r +
g(x) g(x) g(x)
per ogni x ∈ (a, c1 ). Facciamo tendere x → a+ e deduciamo che esiste c2
tale che
f (x)
<q
g(x)
per ogni x ∈ (a, c2 ). Un ragionamento analogo mostra che per ogni p < L
esiste c3 tale che la disuguaglianza
f (x)
p<
g(x)
sia valida per ogni x ∈ (a, c3 ). Come nella prima parte, la dimostrazione è
completa.
Qualche parola di commento. Per semplificare gli enunciati, abbiamo
presentato un caso modello, il limite per x → a+. Si tratta di una scelta
piuttosto convenzionale, visto che i teoremi continuano a valere anche per
x → x0 ∈ (a, b) e perfino per x → ±∞. È sottinteso che, per i limiti
all’infinito, le due funzioni devono essere definite almeno su un intervallo
della forma (a, +∞) o (−∞, a).
Le dimostrazione dei teoremi precedenti sono abbastanza tecniche, ma
crediamo che quella della prima parte sia piuttosto chiara. L’ipotesi sul limite
del quoziente delle derivate viene usato per mezzo del teorema di Cauchy. La
dimostrazione della seconda parte richiede qualche accorgimento tecnico sul
segno del denominatore.
Attiriamo l’attenzione dello studente su un fatto: il teorema tratta la for-
ma [qualunque cosa/∞]. Potrebbe non trattarsi di una forma indeterminata,
ciò che importa è che siano soddisfatte le ipotesi del teorema.
6.9. IL TEOREMA DI DE L’HOSPITAL 111
f 0 (x)
lim+ = λ+ .
x→x0 1
Quindi
f (x) − f (x0 ) f 0 (x)
lim− = lim− = λ− ,
x→x0 x − x0 x→x0 1
mentre
f (x) − f (x0 ) f 0 (x)
lim+ = lim+ = λ+ .
x→x0 x − x0 x→x0 1
Il rapporto incrementale non possiede limite per x → x0 , e dunque f non è
derivabile in x0 .
In poche parole, l’unico caso in cui la Proposizione 6.21 non si inverte, è
esattamente quello dei nostri controesempi, in cui f 0 non possiede limite per
x → x0 .
Lo studente confronti anche la Proposizione VII.24 di [6].
f (x)
lim = 0.
x→a g(x)
Però abbiamo già imparato che la retta tangente è l’unica retta che approssi-
ma linearmente una funzione derivabile in un dato punto. Poniamo dunque
il seguente problema: determinare, se esiste, un polinomio di grado n che
approssima una funzione all’ordine n nell’intorno di un punto x0 .
Procediamo per passi successivi, chiamando f la funzione da approssimare
e supponendo x0 = 0. Il caso di x0 qualunque verr à discusso fra poco. Per
n = 1 sappiamo già che l’unico polinomio cercato è
P2 (x) = a0 + a1 x + a2 x2
f (x) − P2 (x)
lim = 0.
x→0 x2
Il denominatore tende a zero, il numeratore a f (0) − a0 . Quindi è necessario
che a0 = f (0). Il limite si riscrive
f (x) − f (0) − a1 x − a2 x2
lim = 0.
x→0 x2
Possiamo applicare la regola di De l’Hospital, e ci riconduciamo al limite del
quoziente delle derivate
Df (x) − a1 − 2a2 x
lim .
x→0 2x
La speranza è che tale limite valga zero, e come prima è necessario che
Df (0) = a1 . Applicando una seconda volta la regola di De l’Hospital, trovia-
mo la condizione necessaria D2 f (0) = 2a2 . Se un polinomio approssimante
c’è, l’unica possibilità è che
1
P2 (x) = f (0) + Df (0)x + D2 f (0)x2 .
2
Lasciamo allo studente la verifica banale che questo P2 è effettivamente
un’approssimazione di ordine 2 di f in x0 = 0. Con la notazione di Landau,
1
f (x) = f (0) + Df (0)x + D2 f (0)x2 + o(x2 ).
2
6.10. IL POLINOMIO DI TAYLOR 115
P2 (x) = a0 + a1 (x − x0 ) + a2 (x − x0 )2 .
P
Notazione. Il simbolo è quello della sommatoria. Dato un insieme finito
di numeri reali {p1 , p2 , . . . , pn }, scriviamo
n
X
pk = p1 + p2 + · · · + pk .
k=1
Forse qualche lettore avrà sentito parlare della possibilità di sommare infiniti
numeri reali, l’operazione alla base della teoria delle serie numeriche. Questo
argomento esula
P dal programma del nostro corso. In ogni caso, il simbolo di
sommatoria è solo un’abbreviazione comoda sommare una quantità finita
di numeri.
Uno degli usi più frequenti delle formule di Taylor è il calcolo dei limiti.
Supponiamo di voler calcolare il limite
ex − 1 − x
lim .
x→0 x2
118 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
ex − 1 − x 1 + x + x2 + o(x2 ) − 1 − x o(x2 )
= = 1 + →1
x2 x2 x2
C’è qualcosa che non va: stiamo calcolando un limite notevole, ma abbia-
mo bisogno di conoscerlo prima di calcolarlo. Questo apparente paradosso
dovrebbe farci riflettere sull’importanza di costruire una casa partendo dalle
fondamenta, e non dal primo piano. Dando per scontata la definizione “in-
genua” delle funzioni goniometriche seno e coseno, prima dobbiamo calcolare
i limiti notevoli, e solo poi possiamo calcolare le derivate. Quelle noiose di-
suguaglianze geometriche che costituiscono la dimostrazion e elementare del
limite notevole (6.7) non sembrano facilmente evitabili.18
Infine, proponiamo un’applicazione della formula di Taylor al’analisi dei
punti critici.
17
Alternativa per modo di dire. Il polinomio di Taylor è sostanzialmente equivalente
all’uso di De l’Hospital, come visto. Se dovessimo calcolare ogni volta i coefficienti del
polinomio, tanto varrebbe usare De l’Hospital. Fortunatamente esistono le tabelle degli
sviluppi di Taylor per le principali funzioni, e il loro uso riduce sensibilmente la mole
di calcoli necessaria per calcolare molti limiti in forma indeterminata. Ovviamente, molti
software sono capaci di scrivere i polinomi di Taylor di funzioni arbitrarie in pochi secondi.
18
I matematici puri danno spesso definizioni più raffinate per la funzione seno, e questo
permette di calcolarne la derivata seguendo strade diverse. Purtroppo, nell’economia di
un primo corso di matematica questi escamotages sono troppo complicati.
6.10. IL POLINOMIO DI TAYLOR 119
Allora
Dn f (x0 )
f (x) = f (x0 ) + (x − x0 )n + o((x − x0 )n )
n!
per x → x0 . Se n è pari, allora, in un intorno di x0 , f (x) − f (x0 ) ha lo stesso
segno di Dn f (x0 ), e si conclude. Se n è dispari, in ogni intorno di x0 ci sono
punti x in cui f (x) − f (x0 ) è positivo, e altri punti in cui la stessa quantità
è negativa. Pertanto, x0 non è né u massimo né un minimo relativo.
La proposizione precedente gode di una certa popolarità soprattutto nei
testi di matematica per le scuole superiori. In effetti, quasi tutte le tecniche
meccaniche, che richiedono tanti calcoli e poco ragionamento, sembrano avere
grande fortuna nell’insegnamento secondario.
Tuttavia, il calcolo delle derivate successive può essere fonte di banali er-
rori di calcolo; conviene allora cercare di studiare il segno della derivata prima
attorno a x0 , per applicare il criterio di monotonia descritto in precedenza.
Fra l’altro, esistono funzioni “maleducate” alle quali la Proposizione di-
mostrata adesso non si applica. Per esempio, la funzione P : R → R definita
da19 (
exp(−1/x2 ), x 6= 0
P (x) =
0 x=0
ha un evidente minimo in x = 0. Tuttavia si potrebbe dimostrare che per
ogni j ∈ N
Dj P (0) = 0.
A parole, tutte le derivate di P calcolate in x = 0 sono nulle! Non c’e’ speran-
za di descrivere la natura dell’origine mediante la Proposizione. Senza voler
19
P è l’iniziale di “piatta”.
120 CAPITOLO 6. IL CALCOLO DIFFERENZIALE
0.35
0.3
0.25
0.2
0.15
0.1
0.05
Ogni studente universitario ha, o dovrebbe avere, una certa familiarità con
il calcolo di aree e volumi. A livello elementare, diciamo fino alle scuole
superiori, si impara a misurare perimetri, aree e volumi di speciali figure geo-
metriche. Fra queste compaiono i quadrilateri, i triangoli, i parallelepipedi,
e così via. Già la lunghezza della circonferenza pone diversi problemi tecni-
ci, generalmente superati d’autorità insegnando che la circonferenza unitaria
misura 2π.1 Sorvolando sulla definizione stessa di π, che spesso si dice valere
circa 3.14 senza altri particolari, la misurazione della lunghezza della cir-
conferenza è resa attraente mediante il classico trucco dello spago arrotolato
attorno alla circonferenza.
Con le aree, la faccenda si fa ancora più spinosa. Infatti, se ci può sem-
brare intelligente ed anche intuitivo dire che il rettangolo di lati a e b ha
un’area pari a ab (base × altezza), ben più inquietante è l’affermazione che
il cerchio di raggio r ha un’area pari a πr2 (raggio × raggio × 3.14). Qui
non c’è più lo spago da arrotolare. Nei casi più fortunati, impariamo che la
misura dell’area del cerchio si ottiene inscrivendo in esso poligoni regolari con
un numero sempre maggiore di lati, e facendo tendere all’infinito il numero
di lati. L’area del cerchio sarà allora il limite, per n → +∞, dell’area del
poligono regolare di n lati inscritto.
Ancora più in generale, consideriamo una funzione f : [a, b] → R, positiva
e continua. Nel piano cartesiano, il suo grafico y = f (x) rappresenta una
curva continua: che significato potremmo dare all’area di piano che giace
fra l’asse delle x e il grafico della funzione? Non è facile dare una risposta
1
Ovviamente, occorrerebbe specificare un’unità di misura: metri, centimetri,
chilometri.
121
122 CAPITOLO 7. INTEGRALE DI RIEMANN
punto sia possibile parlare di integrazione definita per funzioni non limitate.
Ovviamente, l’ipotesi di limitatezza potrebbe essere rimossa fin dall’inizio
facendo ricorso all’integrazione secondo Lebesgue.
∆xi = xi − xi−1 .
Definizione 7.10. Sia P = {x0 , . . . , xn } una partizione di [a, b]. Una somma
di Riemann per la funzione limitata f su [a, b] è una somma del tipo
n
X
Σ(P, f ) = f (ti )∆xi ,
i=1
Dim. Supponiamo dapprima che A = limσ(P )→0 Σ(P, f ) esista finito. Fissato
ε > 0, esiste δ > 0 tale che σ(P ) < δ implica, per ogni scelta di t1 , . . . , tn ,
ε ε
A− ≤ Σ(P, f ) ≤ A + .
2 2
Sia P una partizione qualsiasi, con σ(P ) < δ. Facendo assumere a t1 , . . . , tn
tutti i valori possibili e passando all’estremo inferiore e superiore delle corri-
spondenti somme di Riemann, si ha
e quindi
ε ε
A− ≤ L(P, f ) ≤ U (P, f ) ≤ A + .
2 4
Rb
Ma allora f è integrabile, ed anzi A = a f (x) dx per l’arbitrarietà di ε.
Viceversa, sia ε > 0 fissato. Esiste una partizione P 0 tale che U (P 0 , f ) ≤
Rb
a
f (x) dx + 2ε . Supponiamo che P 0 sia costituita da n + 1 punti e quindi
divida [a, b] in n intervalli. Siano
ε
M = sup |f (x)|, 0 < δ1 < .
x∈[a,b] 8M n
per ogni partizione P con σ(P ) < δ e per ogni scelta dei punti t1 , . . . , tn . Per
Rb
definizione, questo vuol dire che a f (x) dx = limσ(P )→0 Σ(P, f ).
0 1 2 n−1 n
0= < < < ... < < = 1.
n n n n n
Dando per scontato che la funzione x 7→ x2 sia integrabile in [0, 1], il Teorema
precedente garantisce che la somma di Riemann
n 2
X k−1 1
Sn =
k=1
n n
7.1. PARTIZIONI DEL DOMINIO 129
e dunque ci serve un’espressione chiusa per la somma dei quadrati dei primi
n − 1 numeri naturali. La formula per questa espressione è nota, ma non è
molto intuitiva. L’espressione chiusa è
1 1 3 1 2 1
Sn = 3 n − n + n .
n 3 2 6
Per quanto detto sopra,
Z 1
1
x2 dx = lim Sn = .
0 n→+∞ 3
È piuttosto sorprendente che questo risultato, ottenuto praticamente con lo
stesso ragionamento esposto, fosse noto già nell’antica Grecia!
La verifica dell’integrabilità della funzione x 7→ x2 è contenuta nel pros-
simo Teorema.
per δ → 0+ . Per questa ragione, la funzione continua exp non può essere
uniformemente continua in R. L’ostacolo che si è frapposto fra la continuità
e la continuità uniforme è stato la possibilità di far tendere x1 e x2 all’infinito
mentre δ → 0. Il prossimo risultato ci dice che tutte le funzioni continue su
un intervallo chiuso e limitato sono addirittura uniformemente continue.
n
X
U (P, f ) − L(P, f ) = (Mi − mi )∆xi
i=1
n
X ε ε
≤ (xi − xi−1 ) = (b − a) = ε.
i=0
b−a b−a
ε
poiché |xi − xi−1 | < δ e di conseguenza Mi − mi < b−a . Abbiamo costruito
una partizione P che soddisfa la (7.2), dunque f è integrabile.
Teorema 7.21. Sia f : [a, b] → R una funzione integrabile su [a, b], e suppo-
niamo che c ≤ f (x) ≤ d per ogni x ∈ [a, b]. Sia ϕ : [c, d] → R una funzione
continua. Allora la funzione composta ϕ ◦ f : [a, b] → R è integrabile su [a, b].
Deduciamo una conseguenza notevole: se f è positiva ed integrabile, an-
che ogni potenza ad esponente reale positivo di f è ancora integrabile. An-
che x 7→ ef (x) è integrabile. Lasciamo al lettore il piacere di costruirsi altri
corollari dei risultati precedenti sull’integrabilità.
d
(F (x) − G(x)) = f (x) − f (x) = 0.
dx
Quindi esiste un numero k reale tale che F (x) − G(x) = k per ogni x ∈ [a, b].
Scegliendo x = a, vediamo che F (a) − 0 = k, cioè k = F (a). Quindi
Z b
f (x) dx = G(b) = F (b) − k = F (b) − F (a).
a
La dimostrazione è conclusa.
Inoltre,
Deduciamo che
Z b X n Z b
F (b) − F (a) − f (x) dx =
F (xi ) − F (xi−1 ) − f (x) dx
a a
i=1
X n Z b
= f (ti )∆xi − f (x) dx < ε.
i=1 a
e in particolare
Z b
1
inf f (x) ≤ f (x) dx ≤ sup f (x).
x∈[a,b] b−a a x∈[a,b]
(f g)0 = f 0 g + f g 0
conduce alla regola di integrazione per parti (si veda anche il paragrafo
successivo) Z Z
f (x)g (x) dx = f (x)g(x) − f 0 (x)g(x) dx.
0
Occorre fare molta attenzione alle formule (7.4) e (7.5). Queste ci dicono
che integrando per sostituzione gli estremi di integrazione vanno cambiati.
Vediamo un esempio: vogliamo calcolare
2
log x
Z
dx.
1 x
2 log 2 log 2
log x t t
Z Z Z
1
dx = e dt = t dt = (log 2)2 .
1 x log 1 et 0 2
Invitiamo gil studenti a fare molto esercizio per memorizzare queste formule.
Uno degli errori più diffusi è quello di dimenticarsi di cambiare gli estremi di
integrazione.
Questo perìo non ci aiuta nel calcolo effettivo delle primitive. Inoltre, la
definizione non è operativa, a differenza di quella di derivata. Per affrontare
questo problema, cominciamo ad osservare che ogni tabella di derivate è
automaticamente una tabella di primitive. Ad esempio, dalla regola
d
sin x = cos x
dx
7.6. CENNI SULLA RICERCA DELLE PRIMITIVE 141
deduciamo che una primitiva della funzione coseno è la funzione seno. Inoltre,
le regole algebriche per il calcolo differenziale diventano (parzialmente) ergole
per il calcolo delle primitive. Infatti, se k è una costante reale,
Z Z Z
(f (x) + g(x)) dx = f (x) dx + g(x) dx,
Z Z
k · f (x) dx = k · f (x) dx.
d
f (x(t)) = f 0 (x(t))x0 (t),
dt
f 0 (x(t))x0 (t) dt.
R
sicché f (x(t)) + C =
R
Ecco un secondo esempio:
√ calcolare x sin(x2 ) dx. Poniamo x2 = t, in
0 1
modo che x = x(t) = ± t. Quindi x (t) = ± 2√ t
e l’integrale diventa
√
Z Z Z
1 1 1
± t sin t ± √ dt = sin t dt = − cos t + C.
2 t 2 2
7.7 Il differenziale
Definizione 7.36. Una funzione lineare L : R → R è una funzione tale che
per ogni x, y ∈ R ed ogni α, β reali risulti L(αx + βy) = αL(x) + βL(y).
144 CAPITOLO 7. INTEGRALE DI RIEMANN
Osservazione 7.37. Non è difficile rendersi conto che tutte e sole le funzioni
lineari hanno la rappresentazione
L(x) = kx
dx = x0 (t) dt,
pensando che dt sia un piccolo incremento (quello che prima abbiamo de-
notato con h). Dunque, al posto di dx dobbiamo scrivere x0 (t) dt, e questo
porta direttamente alla formula di integrazione per sostituzione.
7.8. INTEGRAZIONE DELLE FUNZIONI RAZIONALI FRATTE 145
p dV + V dp = n dT,
2 2ax + b
arctan p , b2 − 4ac < 0
p
2 2
4ac − b 4ac − b
dx
Z 2ax + b − pb2 − 4ac
= p 1
log , b2 − 4ac > 0
ax2 + bx + c
p
2
b − 4ac 2
2ax + b + b − 4ac
2
− , b2 = 4ac.
2ax + b
ax2 + bx + c = 0
dobbiamo risolvere 2 !
b ∆
a x+ − 2 = 0,
2a 4a
e cioè 2
b ∆
x+ − 2 = 0.
2a 4a
Ma questa equazione è facile:
r √
b ∆ ∆
x+ =± 2
=± .
2a 4a 2a
Lo studente non mancherà di notare che abbiamo ricavato la celeberrima
formula risolutiva per le equazioni (algebriche) di secondo grado:
√
−b ± ∆
x= .
2a
La presenza della radice quadrata di ∆ ci costringe a distinguere tre casi:
1. ∆ > 0
2. ∆ < 0
3. ∆ = 0.
dx dx
Z Z
1 1 1 2
2
= 2
=− =− .
ax + bx + c a (x − x1 ) a x − x1 2ax + b
Il caso ∆ > 0 si tratta come nel seguito. Il nostro polinomio di secondo grado
possiede le due radici reali distinte
√ √
−b − ∆ −b + ∆
x1 = , x2 = .
2a 2a
dx dx
Z Z
1
2
= .
ax + bx + c a (x − x1 )(x − x2 )
per ogni x ∈
/ {x1 , x2 }. Mettendo a denominatore comune e operando qualche
semplificazione, otteniamo
per ogni x ∈
/ {x1 , x2 }. Affiché questo sia vero, il coefficiente della x a secondo
membro deve essere uguale al coefficiente della x a primo membro (cioè 0), e
i termini noti devono coincidere. Pertanto occorre risolvere il sistema lineare
in due equazioni (
A+B =0
(7.10)
Ax2 + Bx1 = −1.
Dunque
1 1 1 1 1
= − .
(x − x1 )(x − x2 ) x1 − x2 x − x1 x1 − x2 x − x2
148 CAPITOLO 7. INTEGRALE DI RIEMANN
Infine,
dx dx
Z Z
1
2
=
ax + bx + c a (x − x1 )(x − x2 )
1 1 1
= log |x − x1 | − log |x − x2 |
a x1 − x2 x1 − x2
1 x − x1
= log
.
a(x1 − x2 ) x − x2
Sostituendo i valori di x1 e x2 e facendo qualche calcolo algebrico, si arriva
alla formula scritta all’inizio di questo paragrafo.
L’ultimo caso è quello in cui ∆ < 0, ed è noto che il nostro polinomio
di secondo grado non possiede radici reali. Probabilmente alcuni studenti
sanno che esso possiede invece due radici complesse coniugate. Non avendo
discusso i numeri complessi, e visto che non ne trarremmo alcun vantaggio
concreto, evitiamo di insistere su tale terminologia. Per integrare la funzione
razionale ci basta osservare che
2 2 b c
ax + bx + c = a x + x +
a a
e che 2
b2
2b c b c
x + x+ = x+ + − 2.
a a 2a a 4a
Poiché ∆ < 0, esiste k ∈ R tale che
c b2
k2 = − 2.
a 4a
b
La sostituzione t = x + 2a
ci conduce all’integrale
dt dt
Z Z
1 1
2 2
= 2 t 2 .
a t +k ak (k) + 1
2,4
1,6
0,8
-4,8 -4 -3,2 -2,4 -1,6 -0,8 0 0,8 1,6 2,4 3,2 4 4,8
-0,8
-1,6
-2,4
dy
Z
= arctanh y + C.
1 − y2
Nelle figure 7.1, 7.2 e 7.3 appaiono i grafici qualitativi delle funzioni seno
iperbolico, coseno iperbolico e tangente iperbolica.
2,4
1,6
0,8
-4,8 -4 -3,2 -2,4 -1,6 -0,8 0 0,8 1,6 2,4 3,2 4 4,8
-0,8
-1,6
-2,4
2,4
1,6
0,8
-4,8 -4 -3,2 -2,4 -1,6 -0,8 0 0,8 1,6 2,4 3,2 4 4,8
-0,8
-1,6
-2,4
Rn (x)
lim = 0,
x→x0 (x − x0 )n
1
Rn (x) = Dn+1 f (ξ)(x − x0 )n+1 .
(n + 1)!
e Z 1
1 √
lim √ dx = lim (2 − 2 σ) = 2.
σ→0+ σ x σ→0+
Esempio:
+∞ c
dx dx π
Z Z
= lim = lim arctan c = .
0 x2 + 1 c→+∞ 0 x2 + 1 c→+∞ 2
Come nel caso dell’intervallo limitato, sussiste il seguente criterio del con-
fronto per l’integrale improprio su intervalli illimitati.
Teorema 7.46. Sia ϕ una funzione continua in [a, +∞), a valori positivi
per cui esista l’integrale improprio in (a, +∞), e sia f una funzione continua
in [a, b) tale che |f (x)| ≤ ϕ(x) per ogni x ∈ [a, +∞). Allora esiste l’integrale
improprio fra a e +∞ di f .
Costruiamo anche nel nostro caso una scala di funzioni che ci permetta,
per mezzo del criterio del confronto, di decidere se un integrale improprio
esiste. Consideriamo
Z c (
1 1
dx 1−α
c1−α + α−1 , α 6= 1
α
=
1 x log c, α = 1.
157
158 CAPITOLO 8. EQUAZIONI DIFFERENZIALI ORDINARIE
e lineare omogenea se f = 0.
Ora che sappiamo che cosa sia un’equazione differenziale2 vogliamo anche
dire che cosa sia una sua soluzione.
y 0 = f (x),
y 0 + a(x)y = 0. (8.4)
Nel seguito, supporremo sempre che a sia una funzione continua. Dividendo
per y, si ottiene formalmente
y0 d
0= + a(x) = log y(x) + a(x),
y dx
cioè
log y(x) = −A(x)
dove A è una primitiva di a.4 Il suggerimento che ne ricaviamo è che la
funzione Z x
y0 (x) = exp − a(s) ds (8.5)
α
Infatti,
d y(x) y 0 y0 − y00 y −ayy0 + ay0 y
= 2
= = 0,
dx y0 (x) y0 y02
e dunque y/y0 è costante.
Per trattare il caso non omogeneo, proponiamo un metodo alquanto po-
tente e generale: quello della variazione delle costanti. Al di là della denomi-
nazione paradossale, è un metodo che funziona sempre, anche se può portare
a calcoli problematici. Lo schema è il seguente. Si risolve l’equazione omoge-
nea e si determina y0 come sopra. A questo punto, cerchiamo una soluzione
particolare della forma
yf (x) = λ(x)y0 (x)
Capiamo la ragione del nome: facciamo finta che la costante reale c che de-
scrive l’integrale generale di (8.4) sia una funzione (derivabile), e cerchiamo
di sceglierla così da avere una effettiva soluzione dell’equazione non omoge-
nea. Inserendo yf nell’equazione (8.3), ci accorgiamo che yf è una soluzione
se e solo se
λ0 (x)y0 (x) + λ(x) (y00 (x) + a(x)y0 (x)) = f (x);
basta quindi scegliere λ in modo che
f (x)
λ0 (x) = .
y0 (x)
Questa è un’equazione differenziale del tutto banale, dato che si risolve sem-
plicemente scegliendo una primitiva della funzione a secondo membro. In
conclusione, l’integrale generale dell’equazione (8.3) è
Z x
f (s)
y(x) = y0 (x) c + ds , (8.6)
α y0 (s)
dove Z x
y0 (x) = exp − a(s) ds .
α
Inoltre, ciascuna di queste soluzioni è univocamente determinata dal valore
assunto in α, c = y(α).
Osservazione 8.4. Esiste un approccio più diretto al caso nonR omogeneo.
Partiamo dall’equazione y 0 +a(x)y = f (x) e poniamo v(x) = exp( a(x) dx)y(x).
La derivata di v si calcola facilmente:
R R
v 0 (x) = e a(x) dx 0
y (x) + a(x)e a(x) dx
y(x)
R
a(x) dx 0
=e (y + a(x)y) .
8.2. EQUAZIONI DEL PRIMO ORDINE A VARIABILI SEPARABILI161
Quindi y risolve la nostra equazione differenziale non omogenea se, e solo se,
v risolve l’equazione differenziale
R
v0 = e a(x) dx
f (x).
R R
a(x) dx
Ma allora v(x) = e f (x) dx + C, e possiamo ricavare la soluzione
generale5 y:
R
Z R
− a(x) dx a(x) dx
y(x) = e e f (x) dx + C .
d
(λeµx ) = λµeµx .
dx
Si verifica agevolmente che λ = 1/2 e µ = 1 fornisce la soluzione yf (x) =
(1/2)ex . Considerazioni analoghe valgono per funzioni a secondo membro di
tipo polinomiale e goniometrico.
6
sono tutte funzioni derivabili con continuità in R. Inoltre ognuna di esse
risolve il problema di Cauchy
p
y 0 (x) = |y(x)|
y(0) = 0.
In contrasto con quel che capita con le equazioni lineari del primo ordine dove
la soluzione dell’equzione è univocamente determinata dal valore della stessa
in un dato punto, questa equazione non lineare presenta infinite soluzioni
diverse.
y 0 (x) = y(x)2
y(0) = 1.
6
Lo studente verifichi attentamente questa affermazione.
8.2. EQUAZIONI DEL PRIMO ORDINE A VARIABILI SEPARABILI163
In questo caso, pur essendo l’equazione definita per ogni possibile coppia
(x, y) del piano cartesiano, la soluzione y è definita solo su un intervallo limi-
tato superiormente. Di più, l’ampiezza dell’intervallo dipende dal valore ini-
ziale. Ad esempio per λ > 0 la funzione yλ (x) = λ/(1 − λx), x ∈ (−∞, 1/λ),
è la soluzione del problema di Cauchy
0
y (x) = y(x)2
y(0) = λ.
Osserviamo che. per x → 1/λ, yλ (x) → +∞. Per questa ragione, parliamo
di esplosione della soluzione al “tempo” x = 1/λ.
y 0 (x) = f (x)g(y(x)),
y = ky 1 − Ly
0
y(0) = λ.
dy
= k dx
y 1 − Ly
Ricavando y,
cL
y(x) = , c ∈ R.
c + e−kx
Imponendo che y(0) = L, ricaviamo la condizione
cL
=λ
c−1
che identifica esattamente l’unica soluzione nel caso λ 6= L. Notiamo che no
avremmo potuto ricavare la soluzione costante in questo modo.
y 0 (x)
= f (x).
g(y(x))
u0 (t) = pu(t).
u0 (t) = pu(t) − b.
C+b
La costante C si ricava imponendo che u(0) = u0 , da cui u0 = p
, e dunque
C = pu0 − b. In conclusione
1
(pu0 − b)ept + b .
u(t) =
p
(pu0 − b)epT + b = 0.
Ricavando T , troviamo
1 b
T = log .
p b − pu0
ay 00 + by 0 + cy = f, (8.9)
ar2 + br + c = 0 (8.10)
(1) Due radici reali. L’equazione (8.10) possiede due radici reali distinte
r1 e r2 , e dunque le due funzioni
x 7→ er1 x , x 7→ er1 x
b
r=− .
2a
Dunque abbiamo trovato una soluzione
b
x 7→ e− 2a x
(3) Nessuna radice reale. Questo caso è sempre il più difficile da ana-
lizzare. Non avendo a disposizione l’algebra dei numeri complessi, è piutto-
sto macchinoso costruire le soluzioni. Ci limitiamo pertanto a proporle “ex
cathedra”. Definiamo
√
b 4ac − b2
α= , ω= .
2a 2a
8.3. EQUAZIONI LINEARI DEL SECONDO ORDINE 169
y(x) = c1 ex + c2 e−x − x2 − 2.
Sembra evidente che, almeno per funzioni f di tipo molto particolare, con-
viene almeno tentare di indovinare una soluzione particolare yf con il primo
metodo.
e−x
y 00 + 2y 0 + y = .
x
Osserviamo che il polinomio associato all’equazione è λ2 +2λ+1 = 0, che pos-
siede la radice doppia λ = −1. Dunque la soluzione generale dell’equazione
omogena sarà y0 (x) = C1 e−x + C2 xe−x . Occorre determinare una soluzione
particolare dell’equazione completa. Poiché sembra improbabile indovinare
ad occhio una soluzione, ricorriamo alla formula di Duhamel. La soluzione
del problema
00 0
y + 2y + y = 0
y(0) = 0
0
y (0) = 1
11
Con questa espressione intenderemo sempre che vogliamo calcolare la soluzione
generale.
172 CAPITOLO 8. EQUAZIONI DIFFERENZIALI ORDINARIE
Quasi tutto quello che abbiamo esposto è tratto da [11]. Numerosi esempi,
modelli e tecniche risolutive per le equazioni differenziali ordinarie si trovano
nei primi capitoli del libro [17]. Pur non presentando alcuna giustificazione
teorica dei risultati, in questo agile libretto lo studente interessato può facil-
mente impratichirsi con la risoluzione delle equazioni differenziali più comuni.
Si veda anche [8].
Capitolo 9
La prima cosa che ci viene in mente di fare è di segnare tali punti nel piano
cartesiano, cenrcando di capire se esista una relazione fra i valori delle x e
quelli delle y.1
Innanzitutto, la presenza di punti con uguale ascissa e diverse ordinate
creerebbero problemi insormontabili, perché non ci sarebbe speranza di avere
1
Chi scrive è un matematico “puro”, e in queste situazioni è convinto che dieci o cento
punti nel piano non servano assolutamente a niente. Anche se fossero allineati lungo
una retta orizzontale, la logica matematica non ci permetterebbe di trarre la conclusione
che ogni scienziato “applicato” ne trarrebbe. Chi ci dice che, facendo anche solo una
misurazione in più, non troveremmo un punto completamente disallineato?
173
174 CAPITOLO 9. METODI DEL CALCOLO APPROSSIMATO
2
Il famoso assioma “per due punti passa una ed una sola retta”.
9.1. INTERPOLAZIONE POLINOMIALE 175
dove Y
Ak (x) = (x − xj ).
j6=k
5
Lo studente rifletta sul fatto che non è affatto banale che tali polinomi esistano.
178 CAPITOLO 9. METODI DEL CALCOLO APPROSSIMATO
Teorema 9.4. Sia f una funzione dotata di derivate prima e seconda con-
tinue in [a, b] e si abbia |f 00 (x)| ≤ M2 . Allora
Z b
M2 (b − a)3
0
Sn − f (x) dx≤ .
a
24 n2
f (xk ) − f (xk−1 )
p1 (x) = (x − xk−1 ) + f (xk−1 ).
xk − xk−1
Integrando, 9
Z xk
f (xk ) + f (xk−1 ) b − a f (xk ) + f (xk−1 )
p1 (x) dx = (xk − xk−1 ) = .
xk−1 2 n 2
print S
Lo studente noterà che abbiamo evitato l’uso degli array per memorizzare
i nodi della suddivisione e le corrispondenti immagini. Un informatico note-
rebbe che il listato in Python è preferibile a quelli in C proprio perché usa
strutture più elementari. Per un matematico, al contrario, è più spontaneo
usare un array di numeri reali.
Epilogo
Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio, durato circa dodici settimane e
accompagnato probabilmente da prove scritte intermedie. Lo studio di queste
dispense, affiancate dagli appunti del corso e delle esercitazioni, e soprattutto
completato dalla lettura di uno dei testi segnalati nella bibliografia, dovrebbe
trasmettere allo studente le conoscenze indspensabili a qualsiasi laureando in
una disciplina scientifica. Sono sicuro che solo un numero statisticamente
trascurabile di iscritti serberà un ricordo piacevole del corso di Matematica.
Resta tuttavia la speranza che, almeno una volta, le idee studiate con fatica
in questi mesi possano rivelarsi utili.
A tutti gli studenti che sono arrivati alla fine delle lezioni senza com-
mettere gesti insani, va un ringraziamento e l’invito a proseguire la carriera
universitaria con serietà e passione.
185
186 EPILOGO
Commento alla bibliografia
187
188 EPILOGO
introdotte soltanto alla fine, come capitolo facoltativo. Questo rende alcune
dimostrazioni meno trasparenti ed intuitive, e gli esercizi sono di un livello
senz’altro superiore a quelli che il nostro studente deve saper risolvere. Il
testo [22], scritto da o dei padri della moderna Analisi non lineare, è sta-
to considerato a lungo uno dei migliori manuali universitari per lo studio
dell’Analisi Matematica, prevalentemente rivolto a studenti del corso di Ma-
tematica o Fisica. Così come per [24], non ci sentiamo di consigliarli al nostro
lettore: appaiono qui solo perché, sporadicamente, ne abbiamo tratto spunti
e osservazioni interessanti.
Il libro [4] è probabilmente il miglior testo per lo studio astratto delle
proprietà infinitesimali delle funzioni. Il livello della presentazione è estre-
mamente elevato. Per quanto riguarda gli argomenti numerici, consigliamo
senz’altro [18, 23].
Qualche studente si chiederà se l’ordine dei nostri capitoli corrisponde
fedelmente allo sviluppo storico del calcolo infinitesimale. In realtà, la mate-
matica si è sviluppata gradualmente, e spesso i grandi matematici che hanno
sviluppato le idee esposte in queste dispense non scrivevano delle definizioni
rigorose e pulite come quelle a cui ci siamo abituati. Il libro di Hairer [15] è
un’affascinante confronto fra lo sviluppo storico del calcolo e quello pedago-
gico dei nostri giorni. Un fatto da tenere a mente è stata la “rivoluzione bour-
bakista” degli anni ’50 e ’60 del secolo appena trascorso. Partendo dalla Fran-
cia, si è diffusa la richiesta di un ripensamento nitido e logicamente rigoroso
delle discipline che compongono la matematica contemporanea. Il gruppo
Bourbaki cercò di esporre tutta la matematica moderna in modo puramente
logico–deduttivo. Questo approccio è stato molto criticato, e la principale
accusa era di nascondere la natura dell’atto creativo in matematica.
Infine, un testo apparso di recente è [21]. Gli argomenti trattati spaziano
dai numeri reali al calcolo integrale in più dimensioni. Sembra chiaramente
ispirato allo stile di [24], ma con qualche attenzione in più agil esempi e alle
necessità didattiche attuali. Gli esercizi non sono tutti originali, ed il loro
livello è decisamente avanzato.
Indice
1 Insiemi e Funzioni 1
1.1 Cenni di logica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1
1.2 Richiami di insiemistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
1.3 Insiemi numerici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
1.4 Topologia della retta reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
1.5 L’infinito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
1.6 Punti di accumulazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.7 Appendice: la dimostrazione per induzione . . . . . . . . . . . 16
4 Serie numeriche 49
4.1 Serie a termini positivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
4.2 Criteri di convergenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
4.3 Convergenza assoluta e convergenza delle serie di segno alterno 60
189
190 INDICE
6 Il calcolo differenziale 85
6.1 Variazioni infinitesime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85
6.2 Il calcolo delle derivate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
6.3 I teoremi fondamentali del calcolo differenziale . . . . . . . . . 93
6.4 Punti singolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98
6.5 Applicazioni allo studio delle funzioni . . . . . . . . . . . . . . 99
6.6 Derivate successive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
6.7 Classi di regolarità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
6.8 Grafici di funzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106
6.9 Il teorema di De l’Hospital . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
6.10 Il polinomio di Taylor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112
Epilogo 185
192 INDICE
Bibliografia
193
194 BIBLIOGRAFIA