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La Sontag parte dall'analisi di un libro di Woolf, le tre ghinee, nel quale l'autrice sostiene che davanti alle immagini

di dolore (di guerra), il fatto di non soffrire per esse, di non indietreggiare inorriditi e di non sforzarsi per cercare di abolire ci che provoca una simile devastazione, significa quasi essere dei mostri. Ma una visione di questo tipo troppo semplicistica; non tiene in considerazione il fattore politico, considerando la guerra in questione come solo generica, e la sofferenza che ne deriva come sempre evitabile: l'arbitrariet del massacro considerata una prova sufficiente per farci indietreggiare dinanzi a quello che vediamo. Ma per tutti quelli che ritengono che il diritto sia da una parte e l'oppressione dall'altra, ci che conta chi viene ucciso da chi. Per i militanti, l'identit tutto.Le immagini di civili morti possono servire a fomentare l'odio contro il nemico; al contrario, le immagini che forniscono una prova in grado di contraddire le nostre pi sacre certezze vengono liquidate come una messinscena a beneficio della macchina foto. Si sostiene che le immagini siano una montatura; il capo della propaganda franchista sosteneva che fossero stati i baschi a distruggere Guernica allo scopo di suscitare indignazione all'estero. Anche i Serbi con le bombe su Sarajevo accusavano gli stessi bosniaci. In molti hanno sostenuto che se fossero riusciti a rendere l'orrore sufficientemente vivido i pi avrebbero compreso l'insensatezza della guerra: Ernst Friedrich con "Guerra alla guerra", album di foto strazianti, difficili da guardare, con appassionate didascalie. Diversi altri tentativi, ma nessuno di essi ha mai evitato una guerra. Gi dalla prima guerra mondiale siamo inondati di immagini di guerra, anche se fu la Prima guerra civile spagnola (36-39) la prima ad essere documentata in senso moderno, con un corpo di fotografi professionisti inviati in prima linea; poi la guerra del Vietnam, la prima seguita giorno dopo giorno dalle telecamere. Da allora l'incessante susseguirsi di immagini domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia pi incisiva, perch la memoria ricorre al fermo-immagine. Le immagini di guerra sono scioccanti, dovevano fermare l'attenzione sorprendere e sbigottire. Fin dall'inizio la fotografia ha corteggiato la morte, rivelandosi superiore a qualsiasi dipinto nel fornire un ricordo di un caro estinto, ma catturare la morte in fieri tutt'altra cosa. Nel 1945 le foto dei campi di concentramento e poi quelle di Hiroshima fecero storia. Ma l'et dello shock era cominciata prima, nel 1915, quando ci si accorse che le parole non riuscivano a spiegare quello che accadeva, con i massacri dei soldati in trincea. Ecco che allora le fotografie si potevano sostituire alla parola, sembrando del tutto reali. Esse erano oggettive, ma nello stesso tempo rappresentavano un punto di vista, e fornivano una testimonianza della realt. Anche per questo le immagini di avvenimenti infernali sembrano pi autentiche se sono prive di quelle qualit di corretta illuminazione e composizione. In alcuni casi foto non rifinite possono competere con le migliori, per la loro carica di autenticit ed eloquenza

(mostra 2001 su distruzione del World Trade Center). Alcune delle opere di dilettanti erano altrettanto valide di quelle dei professionisti. Conta il caso, insieme alla predilezione per ci che spontaneo e imperfetto. Ma in tutti e due i casi una foto assume significati e determina reazioni che dipendono dal modo, corretto o meno, in cui viene identificata, vale a dire, dalle parole. In molti casi infatti ci che una foto dice pu essere letto in vari modi, e alla fine si legge quello che essa dovrebbe dire, cosa cio indicato dalla didascalia. Inoltre, sebbene nel 1947 a Parigi, con la fondazione della Magnum, la foto divenne impresa a carattere globale, la memoria della guerra, tuttavia, come ogni memoria un fatto per lo pi locale; perch possa uscire dalla cerchia di chi vi coinvolto per diventare oggetto dell'attenzione internazionale, una guerra deve essere considerata una sorta di eccezione, tenendo conto di come funzionano le guerre, e rappresentare qualcosa che va al di l degli opposti interessi dei belligeranti. Per esempio la guerra civile spagnola ebbe risalto perch rappresentava una presa di posizione contro la minaccia fascista; ma nel frattempo guerre molto pi crudeli, come in Sudan, sono state trascurate dai fotografi. Occorrono condizioni particolari perch una guerra diventi veramente impopolare, la maggior parte della gente infatti non metter in dubbio le giustificazioni addotte dal proprio governo per intraprenderne una. Se la protesta assente, allora la stessa fotografia contro la guerra pu essere letta come un'immagine che mostra il pathos o l'eroismo di una lotta inevitabile che pu concludersi solo con la vittoria o sconfitta. Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della foto, che avr vita propria, sostenuta dalle convinzioni delle varie comunit che se ne serviranno. Le sofferenze generalmente considerate degne di rappresentazione sono quelle dovute all'ira, divina o umana; Laoconte, la passione di Cristo,ecc ma il caso di fotografie molto diverso da una rappresentazione artistica: un orrore inventato pu essere insostenibile, ma quando guardiamo da vicino un orrore reale, allo shock si aggiunge la vergogna. La pratica di rappresentare un'atroce sofferenza come qualcosa di deplorevole a cui bisognerebbe mettere fine fa il suo ingresso nella storia delle immagini con le sofferenze inflitte a una popolazione civile da un esercito vittorioso, soggetto che si impone nel XVII secolo Si pu ricordare Callot e le acqueforti su Le grandi miserie della guerra con le atrocit sui civili commesse dai soldati francesi durante l'invasione della Lorena.. Si tratta di scene storiche con molti personaggi e didascalie a commento. Poi Goya con I disastri della guerra fra il 1810 e 1820 che raffigurano le atrocit dei soldati di Napoleone in Sapgna. Immagini che intendono scuotere, scioccare, ferire. Le didascalie spesso insistono sulla difficolt di guardare. La didascalia di una foto tradizionalmente neutra, ma l'immagine non mai il trasparente resoconto di un evento, sempre qualcosa che qualcuno ha scelto, e in qualche caso manipolando la scena: un dipinto giudicato falso se si scopre che non

opera dell'artista cui era attribuito, una foto lo quando si scopre che inganna lo spettatore riguardo alla scena che pretende di raffigurare. Le immagini di Goya dicono: cose simili a queste sono accadute; una singola foto invece pretende di rappresentare ci che si trovava davanti all'obiettivo: la foto deve mostrare e non evocare. La foto di guerra nasce in realt con Roger Fenton in Crimea, mandato per alzare il morale della popolazione, mostrando solo un lato della guerra, rappresentandola come una scampagnata, facendo vedere la vita militare nelle retrovie. Il primo vero tentativo di documentare una guerra fu solo qualche anno dopo con la guerra civile americana e Brady che mostr anche i cadaveri dei soldati dei due schieramenti. La prima giustificazione a difesa di immagini cos brutali fu il semplice dovere di documentare; anche Gardner nel 1866 mostra immagini raccapriccianti, ma gi da allora fotografare significava comporre, e nn deve stupire che molte immagini fossero frutto di una messinscena. Non strano che molte delle fotografie delle due guerre siano una montatura, la cosa strana che siamo delusi nello scoprirlo. Noi vogliamo che un fotografo sia una spia e i suoi soggetti inconsapevoli, presi alla sprovvista. Solo a partire dalla guerra del Vietnam possiamo essere sicuri che nessuna delle foto pi note sia una montatura, per esempio i bambini del villaggio appena irrorato dal napalm che corrono e urlano di dolore. I fotografi si attengono a un criterio pi alto di correttezza giornalistica. Forse si deve ci alla concorrenza televisiva. Le immagini che registrano il momento della morte sono fra le foto di guerra pi celebri. La foto del capo della polizia sudvietnamita che uccide un Vietcong per strada, fu per una messinscena, del generale che port il prigioniero davanti ai fotografi e giornalisti, e che non avrebbe ucciso se non ci fossero stati loro come testimoni. Sono immagini che s ci toccano, ma dalle quali prendiamo una certa forma di distanza, perch si tratta di persone cui non diamo un nome, vittime anonime; nel caso invece di soggetti che conosciamo o che ci toccano pi da vicino, ci aspettiamo una maggiore discrezione da parte del fotografo; immagini vengono censurate in nome della decenza o del patriottismo perch mostrano i nostri morti. Del resto la censura sempre esistita, anche se a lungo rimasta a discrezione dei capi di stato. Il primo veto alla presenza di fotografi al fronte si ebbe nella prima GM, con pochi e selezionati fotografi che avevano il consenso per avvicinarsi alle zone. Ma fu con il Vietnam che ci si rese conto della portata che le immagini potevano avere sulla gente; e da allora la censura si fatta sempre pi stretta mentre gli strumenti ottici sono diventati sempre pi potenti . Spesso ci si appella al buon gusto, nel tentativo di mettere in ombra una serie di ansie che non possono essere nominate, relative all'ordine pubblico e al morale della societ. Altra argomentazione fa appello ai diritti dei parenti delle vittime. Quando si tratta dei nostri morti siamo contrari a mostrarne il volto, ma pi un luogo lontano o esotico, maggiori sono le possibilit di avere

immagini frontali e a figura intera dei morti. Eppure, anche il talebano ferito che implora aveva moglie, figli, genitori, parenti che un giorno potrebbero imbattersi nella sua foto. Occorre un senso del distacco per riuscire a rappresentare la guerra attraverso le parole o le immagini. Le immagini devono essere abbastanza sconvolgenti, e come diceva Leonardo lo sguardo dell'artista dev'essere spietato. L'immagine deve atterrire e in quella terribilit deve nascondersi una provocatoria bellezza. Ma questa idea non si addice alle immagini prodotte dalle macchine foto: sembra crudele scoprire la bellezza nelle foto di guerra, o nelle rovine del World Trade Center, e cos si parla di foto surreali. Le foto possono trasformare il loro soggetto, e sotto forma di immagine qualcosa pu apparire bella come non nella vita reale. In un mondo in cui la foto viene posta al servizio delle manipolazioni consumistiche, impossibile dare per scontato l'effetto provocato dall'immagine di una scena penosa. Sicuramente lo shock pu esaurirsi, pu diventare familiare, e anche se ci non avviene, resta sempre la possibilit di non guardare. Ma vi sono casi in cui la ripetuta esposizione a ci che sciocca non logora una reazione profonda, l'assuefazione non automatica: le rappresentazioni della Crocifissione non diventano mai banali per il credente, spesso il pubblico di una rappresentazione teatrale piange anche se ha gi visto la scena molte volte; la gente vuole piangere. Ma vero che la gente vuole inorridire? Probabilmente no, ma esistono cmq immagini che non perdono mai la propria forza, come i volti informi dei sopravvissuti ad Hiroshima; giusto dire che queste sono immagini a cui ci si abitua? La foto spesso lascia intatti pregiudizi, opinioni, fantasie e disinformazione, ma anche vero che le atrocit che non vengono fissate nella memoria da una foto sembrano pi remote. Un sentimento si cristallizza pi facilmente attorno a un'immagine che a uno slogan verbale; le foto che tutti sono in grado di riconoscere sono ormai parte costitutiva di ci su cui una societ decide di riflettere; tali idee vengono chiamate "memorie", ma a lungo andare questa una finzione; la memoria collettiva non esiste, ognni ricordo individuale, e quella che definita memoria collettiva non affatto il risultato di un ricordo ma di un patto, per cui ci si accorda su come sono andate le cose, usando le foto per fissare gli eventi nella ns mente. Queste spesso finiscono nei musei detti "della memoria", anche se si tratta di qualcosa di pi complesso: le foto non solo documentano la sofferenza di un popolo, ma evocano anche il miracolo della sua sopravvivenza, e perpetuare la memoria significa quindi anche assumersi il compito di rinnovarne una; molti popoli perseguitati lo vogliono. Perch per esempio a Washington non c' un museo di storia della schiavit? Attivare questa memoria considerato pericoloso: il museo dell'olocausto riguarda qualcosa che avvenuto fuori dal paese, mentre l'altro sarebbe riconoscere che il male era qui. Il problema non nel fatto che ricordiamo attraverso le foto, ma che

ricordiamo solo le foto: sempre pi spesso, ricordare non significa richiamare alla mente una storia, ma essere in grado di evocare un'immagine. Ed essa pu aiutarci a ricordare ma non a capire, per quello serve una narrazione. E una foto ci mostra sempre un punto di vista, ed accolta sempre e comunque da un punto di vista: chi per qualcuno un "barbaro", per un altro "fa solo quello che fanno tutti"; se siamo americani pensiamo sia morboso guardare le foto delle vittime della atomica; non esiste un progetto nazionale volto a riconoscere la sproporzionata potenza di fuoco usata dagli Americani in guerra, ed esso sarebbe considerato antipatriottico. Possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documentano grandi crimini e crudelt, ma dovremmo altrettanto sentirci obbligati a riflettere su quello che significa guardarle. Anche un'immagine ripugnante pu affascinare (ci fermiamo a guardare un incidente): il primo riconoscimento dell'attrazione esercitata da corpi mutilati viene addirittura da Platone. La presenza di un istinto cos disprezzato va presa in considerazione quando si parla dell'effetto prodotto dalle immagini di atrocit. Burke si diceva "convinto che proviamo diletto nelle disgrazie degli altri"; in quanto oggetti di contemplazione, le immagini di atrocit possono rispondere a bisogni diversi: corazzano contro la debolezza, rendono insensibili, fanno accettare l'irrimediabile. Che fare della conoscenza di sofferenze lontane? Spesso non comprendiamo neanche quelle di chi ci vicino: una donna di Sarajevo, all'inizio della guerra, vide per tele le immagini di una cittadina a poche centinaia di Km di distanza, e disse " terribile" e cambi canale. Per questo dice non si sarebbe potuta indignare se qualcuno in Italia o Francia abbia fatto la stessa cosa. Chi si sente al sicuro rimane indifferente, ma la sua reazione forse era diversa: la gente perde interesse non solo perch la dieta di immagini cui sottoposta l'ha resa indifferente, ma anche perch ha paura. Se si diviene meno sensibili agli orrori di una guerra, perch si ha l'impressione che essa non possa essere fermata: la compassione ha bisogno di essere tramutata in azione, se no svanisce. la passivit a ottundere i sentimenti; l' "apatia" in realt carica di sentimenti, proviamo rabbia e frustrazione. La compassione ci libera dal senso di colpa, ci pare di non essere complici di chi ha causato il dolore, e quindi pu anche essere una reazione inopportuna. Sarebbe meglio metterla da parte per riflettere su come i nostri privilegi rispetto alle persone sofferenti siano connessi alle loro sofferenze; ma per un compito de genere, le immagini possono solo fornire la scintilla iniziale. Un'idea diffusa sostiene che l'attenzione del pubblico sia manipolata dai media; se ci sono fotografie una guerra diventa reale; un'altra idea diffusa sostiene che in un mondo saturo di immagini diminuisce l'impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Nel suo saggio

sulla fotografia sosteneva che un evento conosciuto attraverso le foto diventa pi reale che se non le avessimo mai viste, ma finisce per diventare meno reale quando siamo ripetutamente esposti a quelle immagini: nella stessa misura in cui creano la compassione, le foto contribuiscono a inaridirla. Ma cos? Cosa prova che le foto abbiano un impatto decrescente? Un'immagine privata della sua forza dal modo in cui viene usata, dal luogo in cui viene vista e dalla freq con cui appare. Quelle televisive sono immagini di cui ci si stanca, e in cui il flusso impedisce di privilegiarne una. Impegnarsi in una riflessione sul contenuto richiederebbe una maggiore attenzione. Dai tempi del suo saggio sulla foto molti hanno suggerito che i tormenti della guerra si sono trasformati in banalit replicate sera dopo sera. Secondo una tesi diffusa viviamo in una societ dello spettacolo, in cui qualunque situazione deve essere trasformata in spettacolo per diventare reale, interessante ai nostri occhi. Ma parlare di una realt diventata spettacolo di un provincialismo esasperante, equivale a universalizzare il modo di pensare di una piccola popolazione istruita che vive nei paesi ricchi del mondo, dove l'info stata trasformata in intrattenimento; idea che presume che tutti siano spettatori e che non esista reale sofferenza. Ma assurdo identificare il mondo con quei paesi ricchi in cui si gode del privilegio di essere spettatori del dolore altrui, come assurdo dare interpretazioni generalizzate della capacit di reagire davanti alle altrui sofferenze: ci sono centinaia di milioni di spettatori tv per nulla assuefatti a ci che vedono. In alcuni persiste l'idea che il desiderio di tali immagini sia volgare, una forma di sciacallaggio commerciale. Designare un inferno non significa dirci come liberare la gente da esso, ma sembra utile ampliare le ns conoscenze e prendere atto della sofferenza umana altrui. Chi ancora continua a sorprendersi per essa non ha raggiunto la maturit morale o psicologica; dopo una certa et nessuno ha diritto a quest'ignoranza. Lasciamoci ossessionare dalle immagini pi atroci che ci dicono ecco ci che gli uomini sono in grado di fare. Non come chiedere alla gente di ricordare un preciso momento storico in cui il male stato particolarmente mostruoso: forse attribuiamo troppo valore alla memoria e poco al pensiero. Il fatto che le notizie di guerra siano diffuse ormai dappertutto non significa che la capacit di riflettere sulle sofferenze lontane sia cresciuta in modo significativo, anzi ci pare normale voltare le spalle per non star male. In tanti cambiamo canale, ma non per questo la gente reagisce di meno; non un difetto non essere devastati o nn soffrire abbastanza; le immagini sono un invito a prestare attenzione a riflettere, apprendere, porsi domande, ma nella consapevolezza che lo sdegno morale non sufficiente a dettare una linea di condotta. La frustrazione di non essere in grado di fare nulla pu tradursi in accusa che denuncia l'indecenza insita nel guardare tali immagini o l'indecenza del modo in cui vengono diffuse (accostate a prodotti pubblicitari).

Ma se potessimo fare qualcosa per risolvere le cose non daremmo tanto peso a queste questioni. In ogni caso non ci fa male fare un passo indietro e pensare: nessuno pu pensare e al tempo stesso colpire un altro. Alcune immagini possono essere considerate come oggetti di contemplazione che permettono di rendere pi profondo il senso della realt, come icone laiche. Ma difficile imbattersi in uno spazio sacro, dedicato alla meditazione, oggi. Guardare tali immagini in una galleria d'arte sembra una forma di sfruttamento; anche quelle immagini dei campi di concentramento del 45 assumono un peso diverso se viste in un museo, per tv, sulle pagine di un giornale o in un libro: ogni foto vista in un determinato contesto e i contesti si sono moltiplicati. Lo scetticismo con cui oggi si guarda al lavoro di certi fotografi impegnati sembra dipendere proprio dal fatto che le foto vengono divulgate in tanti modi diversi, e non ci sia modi di garantire le condizioni appropriate in cui guardare tali immagini e reagire pienamente a ci che ci mostrano.non pi possibile garantire un luogo di contemplazione. Quando esse diventano opere d'arte, appese a una parete, diventano stazioni nel corso di una passeggiata, in compagnia. Il peso e la seriet di tali foto sopravvivono forse meglio in un libro, che un momento individuale, ma a un certo punto anche il libro verr chiuso, e la forte emozione diventer fugace, la denuncia di un particolare conflitto diventer denuncia generica all'umana crudelt e le intenzioni del fotografo diventeranno irrilevanti. E' possibile allora che un'immagine spinga a opporsi attivamente alla guerra, come la lettura di un libro? Una narrazione sembrerebbe pi efficace; in parte per via del tempo che ci si impiega a leggere o guardare un'immagine. Sceglie un'immagine esemplare, la foto di Wall del 92 intitolata "soldati morti parlano. Visione dopo un'imboscata a una pattuglia dell'Armata Rossa in Afghanistan, 1986". Wall non mai stato in Afg e l'imboscata un evento immaginario sullo sfondo di una guerra cui i mezzi di info hanno dato forte risalto; si prefisso il compito di immaginare l'orrore della guerra come per la pittura ottocentesca; i personaggi sono realistici, ma l'immagine no, i morti non parlano. 13 soldati russi sono sparpagliati su un pendio disastrato, sangue, mutilazioni, budella. L'atmosfera conviviale, e chiacchierano con le loro mutilazioni, scherzano facendo mostra dei loro pezzi di carne. Assorbiti da un'immagine cos accusatoria, ci aspetteremmo che i soldati si voltino e comincino a parlarci; invece no, non c' alcuna minaccia di protesta. Neanche nei confronti degli afgani presenti sulla scena che li saccheggiano; si disinteressano dei vivi, di chi ha tolto loro la vita, di chi ne testimone e di noi. Cosa avrebbero da dire a noi, che mai abbiamo vissuto nulla di simile,

che non capiamo, non possiamo immaginare. questo ci che pensano tutti i soldati giornalisti, operatori umanitari che ripetutamente si sono esposti al fuoco e hanno scampato la morte. E hanno ragione

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