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Nily Raouf

Il PRElUDIO DEllA GOCCIA

I libri della mongolfiera

Le briciole di Kate

iao Kate, quanto tempo! Allora come stai? Bene dottor Miller. Molto bene, la ringrazio. Pronunciando quelle parole la mia mente torn immediatamente ai mesi precedenti, in particolare al giorno del mio compleanno, lanno prima. Il trillo insistente della sveglia sul mio comodino aveva segnato, come sempre, linizio di un nuovo apparentemente monotono giorno della mia vita. Ancora non potevo immaginare cosa sarebbe successo e quali cambiamenti si sarebbero verificati nella mia esistenza. Ricordo perfettamente ogni singolo momento, ogni istante di quella mattina; ogni secondo ancora perfettamente nitido, vivo e immobile nella mia mente: era il 3 Marzo e compivo sedici anni. Mi alzai dal letto lentamente e mi misi a osservare con malinconia il cielo: era di un celeste intenso con qualche sfumatura rosa pastello. Era una bellissima giornata di primavera con gli alberi nel pieno della loro fioritura. Chiunque sarebbe rimasto colpito nellosservare la bellezza di un pesco in fiore, chiunque tranne me. Distolsi lo sguardo dalla finestra, sfilai il pigiama facendolo scivolare dolcemente sul pavimento di marmo e cominciai a prepararmi per andare a scuola. Indossai dei semplici blue jeans scoloriti, troppo larghi perch potessero sembrare realmente quelli che avevo comprato alcuni mesi prima, e un anonimo maglione di lana nera, anchesso di un taglia troppo grande per essere mio. Misi le scarpe, presi lo zaino appoggiato sulla sedia e per qualche secondo interminabile mi soffermai, senza nemmeno pensarci, vicino alla porta. Ogni movimento era ormai diventato meccanico, automatico. Osservai il mio viso nello specchio, ma vidi
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un volto che non era il mio, dei lineamenti che non riuscivo a riconoscere. Ero davvero io? Negli ultimi mesi ero dimagrita davvero tanto, troppo, ma io rimanevo comunque indifferente davanti alla realt. Ero pallidissima e il viso era scavato, le ossa ricoperte solo da un sottile strato di pelle, persino gli occhi celesti, un tempo brillanti, erano spenti e opachi. Che fine aveva fatto la vera Kate? Sarebbe mai potuta tornare? Ma perch se nera andata? Perch non ero pi me stessa? Mi ponevo queste domande quotidianamente, senza per riuscire a trovare una valida risposta. In cuor mio conoscevo perfettamente il motivo che mi portava a soffrire in quel modo, ma avevo paura. Paura di tutto, paura di me, paura di ammettere che ero malata, che avevo bisogno di aiuto e che ero terribilmente sola. Chiusi la porta lasciandola dietro a me. La mia camera era molto spaziosa, per, allinterno di quelle quattro mura bianche, mi sentivo soffocare, ero persa. Provavo una sensazione di smarrimento persino in casa mia. Mi incamminai con fatica, a causa della debolezza, verso la fermata del tram. I miei genitori non cerano: la mattina non erano mai presenti, nemmeno il giorno che compivo gli anni. Loro non sapevano molto di me e io, strano a dirsi, conoscevo solo lo stretto necessario; non riuscivamo mai a comunicare. Mio padre viaggiava, aveva girato tutto il mondo a causa del suo lavoro, era un pilota di aerei di linea e ne andava molto fiero. Lo vedevo raramente e non riuscivamo mai a parlare: le nostre brevi e saltuarie conversazioni si limitavano a brevi frasi di circostanza. Mia madre, invece, dirigeva da anni una piccola casa di moda con la convinzione che presto sarebbe diventata un atelier di fama mondiale; era sempre stata una donna molto ambiziosa. Con lei ogni tipo di contatto era praticamente
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inesistente: era talmente presa dai suoi impegni da non trovare mai il tempo per me. Entrambi mi avevano lasciato sola, completamente sola. Avevo perso moltissimi chili ma ai loro occhi ero diventata invisibile, come se non esistessi: era come se nessuno si fosse accorto del mio malessere o se ne preoccupasse minimamente. Ma perch, cosavevo che non andava? Solo ora mi rendo conto che inconsciamente cercavo di attirare la loro attenzione facendomi del male. Spesso, quando attendevo larrivo del tram, mi permettevo di scrutare le persone che erano alla fermata insieme a me. Quella mattina, tre ragazzi della mia et si rincorrevano, ridevano spintonandosi a vicenda, scambiandosi commenti e opinioni sulla partita di calcio della sera prima. Sembravano, o meglio, erano veramente felici; li osservavo con un velo di invidia. Perch io non conoscevo il sapore della felicit? Sarei mai potuta essere soddisfatta anchio? Non feci in tempo nemmeno a cercare una risposta che gi mi trovavo di fronte alla scuola. Quelledificio che in passato mi aveva messo una certa soggezione, circondato da altri enormi palazzi e grattacieli grigi, tipici dellimmensa citt in cui vivevo, ora mi suscitava solo tristezza. La campanella dellentrata risuon confusa tra i rumori dei motori e dei clacson delle auto che scorrevano nevrotiche sulla strada principale. La scuola era diventata faticosa da quando mi ero ammalata: anche seguire le lezioni mi risultava quasi impossibile. Capivo di avere un problema, ne ero consapevole, ma non riuscivo ad affrontarlo; non mangiavo da mesi e mesi, ma non avevo fame, forse perch la solitudine e il dolore che avevo dentro di me bastavano a saziarmi.
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Ero immersa nellanoressia ma avevo troppa paura anche solo di provare a uscire dal baratro in cui ero sprofondata. N i miei insegnanti n tantomeno i miei compagni si erano accorti della mia sofferenza, ma io per questo non li condannavo. Per me erano tutte sagome grigie; si era alzato un muro tra me e loro, costruito con solidi mattoni di indifferenza. Nonostante tutto mi ostinavo a condurre una vita normale come tutti i miei coetanei. La mattinata trascorse molto lentamente, e dopo la fine delle lezioni tornai subito a casa, andai in camera mia, accesi il computer e soffiai sul monitor per togliere i granelli di polvere che ci si erano depositati sopra. Locchio mi cadde su un piatto di plastica rossa vicino alla tastiera. Cerano due fette di pane, ormai secche, con attorno tantissime piccole briciole. Qualche giorno prima, mi ero sentita svenire e avevo temuto di morire, cos avevo dato un minuscolo morso a una delle fette. Non so perch avevo avuto paura visto che la morte era la cosa che in quel momento desideravo di pi al mondo. Presi le briciole sulla punta dellindice: erano una pi piccola dellaltra. In quel momento mi accorsi di come la mia vita assomigliasse a una briciola: fragile, piccola, sola e dimenticata da tutti. Feci una smorfia allidea. Avevo bisogno di uscire, dovevo prendere una boccata daria il prima possibile. Mi allontanai da casa senza una motivazione e una meta precisa, cominciai a camminare lentamente e raggiunsi il centro, affollatissimo come sempre. La mia attenzione venne catturata da un bambino che mangiava un gelato, sullaltro lato della strada. Teneva il cono in una mano mentre con laltra impugnava un palloncino verde. Qualcosa di inspiegabile mi spinse a raggiungerlo.
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Tutto accadde cos rapidamente che non mi resi nemmeno conto di quello che stava succedendo. Ricordo ancora il rumore degli pneumatici che stridevano sullasfalto. Una macchina blu metallizzata mi travolse. Picchiai la testa nel parabrezza e caddi a terra con violenza. Il conducente dellauto mi soccorse immediatamente ma la sua voce mi risultava confusa e tremante: non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Intorno a me si era creata una folla vociferante, i volti delle persone che mi circondavano diventavano sempre pi sfocati. Mi accorsi di avere i jeans sporchi di sangue, chiusi gli occhi e persi conoscenza. Li riaprii con fatica dopo non so quanto tempo, non riuscivo nemmeno a capire dove mi trovassi. Ero immobilizzata a un letto: attaccata ad una flebo, avevo una gamba fasciata e un gran mal di testa. Capii, in quel momento, che mi trovavo in ospedale e mi ricordai il motivo per cui ero l. Sentii improvvisamente i miei genitori parlare con un medico, un certo dottor Miller. Ascoltai con attenzione la loro conversazione. Il medico stava spiegando a mia madre di come fossi stata fortunata a sopravvivere sia allincidente sia alla malattia che ormai mi perseguitava da tempo. Mi defin una miracolata e, nel sentire quel termine, una lacrima mi scivol sulla guancia. Mia madre, invece, scoppi in un pianto disperato. Soltanto in quel momento, in quellesatto istante in cui il dottore disse di considerarmi miracolata, compresi realmente che stavo facendo lerrore pi grande che potessi mai commettere. Essere stata investita e aver rischiato di morire, non a causa dellanoressia, mi fece aprire gli occhi. Mi sembr quasi di aver pensato unenorme stupidaggine mentre era la cosa pi saggia che mi fosse mai venuta in mente: come era possibile che non mi fossi mai resa conto di quanto fossi attaccata alla vita?
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Un calendario vicino alla finestra mi ramment che era il 3 Marzo. Accennai un sorriso, pensando al giorno del mio compleanno: essere investita era il regalo pi bello che potessi ricevere dal destino per festeggiare i miei sedici anni. Ripensai a quel bambino che avevo visto nel pomeriggio, un attimo prima di essere investita, al modo in cui teneva saldamente nella mano un palloncino. Anchio volevo fare come lui: anchio volevo aver qualcosa nella mano da poter tenere stretto e non far volare via. Quel qualcosa, capii che era la mia vita. La mia felicit scoppi in una timida risata e pensai a quando, qualche ora prima, paragonavo la mia vita a delle insignificanti briciole di pane. Da quel momento in poi non avrei mai perso nemmeno una briciola della mia esistenza.

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C chi aspetta la pioggia per non piangere da solo

ioveva ininterrottamente da giorni ormai, la pioggia batteva forte e incalzante sul vetro appannato della finestra, immune allo scorrere del tempo. Francesca stava sdraiata sul letto con le braccia incrociate dietro la testa, con lo sguardo rivolto verso il soffitto della sua camera. Soltanto il ticchettio delle gocce rumorosamente silenziose le teneva compagnia, cullando dolcemente i suoi pensieri in quel sabato sera. Era quasi limbrunire, il giorno stava lentamente cedendo il posto alla notte e le ombre, che si rincorrevano l fuori, intrecciavano figure solitarie. Le giornate erano divenute sempre pi corte, linverno era giunto alle porte anche quellanno e, con il suo imminente arrivo, aveva portato via anche gli ultimi raggi caldi di sole. Un lampo improvviso illumin lintera citt incrinando il cielo e disegnando enormi rami luminosi allinterno di quel velo grigio scuro, cos immenso e irraggiungibile. Francesca ruot il capo verso la finestra e osserv la pioggia scivolare piano, piano; si alz dal letto e appoggi delicatamente il palmo sul vetro freddo, come a voler toccare quei milioni di gocce tanto simili alle lacrime, che scendevano morbide sul suo viso pallido e liscio, da sembrar di porcellana. Sbuffando pens: proprio vero, c chi aspetta la pioggia per non piangere da solo1 Il temporale era finito, il cielo si era trasformato in un tappeto di velluto blu scuro e aveva lasciato spazio a poche stelle che brillavano come punti di luce fredda. Era calato il silenzio e tutto attorno era immobile; come immobile era la sua tristezza La malinconia era una nebbia entrata attraverso i pori della sua pelle, fino a raggiungere le ossa e il cuore: stava consumando,
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poco alla volta, la sua anima. Aveva visto infrangersi il suo sogno troppo in fretta: un battito di ciglia e tutto era finito, finito per sempre. Prese le scarpette e accarezz il raso di cui erano rivestite, le strinse con forza tra le mani sudate e tremanti, le port vicino al petto e una nuova lacrima crudele e muta le solc la guancia morendo sulle labbra. Lanci con violenza le scarpette rosa in un angolo della stanza, si sedette per terra e nascose il viso tra le ginocchia ossute, mentre i capelli dorati le ricadevano lunghi e ondulati, quasi fossero spighe di grano mosse dal vento, davanti a s. Ancora non riusciva a crederci: non poteva davvero smettere di ballare, non certo adesso! La danza era tutta la sua vita e, al riaffiorare di quel pensiero, sent il freddo gelarle il cuore ma rimase in silenzio; le labbra sottili, prosciugate dal pianto, non avevano pi parole da pronunciare e i suoi occhi verdi e liquidi non vedevano un barlume di speranza al quale aggrapparsi saldamente: solo buio, buio intenso. Tutti i frammenti della vita vissuta riapparvero sfocati, indistinti e confusi nella sua mente, uno di seguito allaltro, scorrevano veloci, velocissimi; pens al giorno di Natale, aveva quattro anni, quando sotto lalbero trov un piccolissimo tut: fu linizio del suo amore per la danza. Rivide i passi insicuri delle prime lezioni, i saggi, le soddisfazioni, i sacrifici, le ultime coreografie eseguite sulle note sorde della musica classica, fino a quellincidente che le aveva cambiato la vita, costringendola a rinunciare definitivamente al suo sogno. Riprese a piovere: Francesca raccolse un cuscino posizionato ai suoi piedi, lo abbracci tenendolo stretto a s, chiuse gli occhi e si addorment ascoltando il rumore della pioggia. La mattina seguente il sole era nascosto da una coltre di nuvole bianche; aveva piovuto tutta la notte e nelle strade vi era ancora qualche pozzanghera, dove si rifletteva il pallore dei suoi raggi, mentre le foglie cadute
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dagli alberi, gialle e arancioni, vi galleggiavano sopra. Francesca allarg le braccia esili per stirare i muscoli, pass una mano fra i capelli per riordinarli leggermente e successivamente se la port a coprire uno sbadiglio. Si alz da terra, facendo scricchiolare il parquet, si mise seduta sul letto e abbass, con un gesto rapido e deciso, le foto incorniciate delle sue varie rappresentazioni teatrali. Racchiudevano i sorrisi e la spensieratezza di quando ancora era una bambina: rimanere a fissarle le avrebbe provocato soltanto altro dolore. Inaspettatamente sent suonare il campanello alla porta, vi si diresse con passo lento e ciondolante: non aspettava visite e non voleva neanche riceverne, non voleva vedere nessuno, tanto nessuno avrebbe compreso il suo stato danimo, tutti erano pronti a sminuire laccaduto. Apr la porta e, con suo grande stupore, si trov di fronte il suo amico Matteo: il suo tipico sorriso radioso gli illuminava il volto, contornato dai capelli neri un po arruffati. Il suo sguardo dolce e rassicurante le infondeva serenit e sicurezza; involontariamente i suoi occhi mielosi si incrociarono con quelli di Francesca; lei arross appena e abbass lo sguardo: fu un gesto istintivo dettato dalla paura di farsi guardare negli occhi perch era sempre stata convinta che lanima traspare dallo sguardo. In un fugace istante si sent avvolgere da unondata di affetto talmente forte e calda da riuscire persino a sciogliere lo strato di gelo che le avvolgeva lanima. Lo prese per mano facendolo accomodare in camera sua; si sedettero sul letto uno di fronte allaltro. Matteo si tolse la lunga sciarpa di lana blu, appoggi il cappotto sulla sedia accanto alla scrivania e dalla tasca estrasse un piccolo foglio di pergamena arrotolato su se stesso, legato da un nastro di seta rosa a mo di fiocco e lo porse, con un timido sorriso, a Francesca. La ragazza lo osserv perplessa e per qualche secondo se lo rigir tra le dita, poi sfil il nastro facendolo cadere per terra sul tappeto e lentamente apr il foglio color avorio.
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Vi era scritta una poesia: Di una cascata immensa fatto il mio cuore, sgorga, senza fermarsi mai, bagna il cammino dei sogni, illumina il mondo delloscurit Era composta solo da pochi versi, ma Francesca scolp ogni singola parola nel suo cuore. Mentre la leggeva i suoi occhi si persero nellinchiostro blu della stilografica che aveva accompagnato la mano di Matteo. La rilesse pi volte e una lacrima scivol su una parola scolorandola lentamente, poi lasci andare il foglio che si arrotol nuovamente su se stesso. Allung la mano in direzione di quella di Matteo che le regal un dolce sorriso e le sfior con due dita la guancia bagnata; i due si avvicinarono e si abbracciarono. Il ragazzo appoggi la testa sulla sua spalla e le sussurr allorecchio: Non arrenderti mai, perch quando pensi che tutto sia finito il momento in cui tutto ha inizio.2 Cos dicendo le accarezz i capelli. La ragazza sciolse labbraccio e lo guard con gli occhi lucidi, velati da quellemozione che temeva di non poter provare mai pi. In quellistante la luce della speranza si riaccese dentro di s e comprese che il suo cammino nel mondo della danza sarebbe proseguito comunque: poco importava se le avevano reciso le ali, nessuno le avrebbe mai impedito di volare in alto, elegante e leggera. Una miriade di considerazioni affollarono la sua mente: la vita le apparve come un quaderno pieno di fogli consumati dal tempo e scritti dalla penna del destino; nonostante ci, la protagonista della sua storia, sarebbe rimasta lei. Non avrebbe dovuto strappare le pagine, ma solamente voltarle e iniziare un nuovo capitolo della sua esistenza. Sarebbe diventata una maestra di danza classica, avrebbe dedicato tutta la sua vita a coltivare i sogni delle sue piccole allieve insegnando loro, con amore e
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dedizione, il mondo di poesia racchiuso allinterno della danza, dove ogni movimento una parola. Francesca sorrise allamico; la tensione e la tristezza sul suo volto erano scomparse. Entrambi si alzarono dal letto e insieme si avvicinarono alla finestra: Matteo le cingeva le spalle, mentre lei teneva la pergamena avvolta nella sua mano sinistra. Osservarono la loro immagine ridente riflessa sul vetro riscaldato dal sole tiepido che faceva capolino. Seguendo una nuvola pigra allontanarsi oltre lorizzonte Francesca disse, sospirando tra s e s: In fin dei conti la vita come uno specchio, ti sorride se la guardi sorridendo.3

1 Citazione 2 Ibidem 3 Ibidem

tratta dagli aforismi di Jim Morrison

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