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Il cavaliere della vergine
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Il cavaliere della vergine

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"Tutte quelle isole di montagne vulcaniche, ricoperte di splendida vegetazione, che sorgevano dal mare azzurro come altissime piramidi di verzura, erano popolate da genti bellicose che ricevevano i componenti della spedizione a colpi di freccia, oppure fuggivano verso l'interno per preparare imboscate e sorprese" ...Sulla scia dei già fortunati "Il papa del mare" e "Ai piedi di Venere", l'anziano scrittore valenciano si concentra, negli ultimi anni di vita, sulla storia medievale e moderna dell'amata Spagna, di cui, con questa opera, racconta l'epica espansione coloniale nel Siglo de Oro. Protagonista del romanzo è Alonso de Ojeda (1468-1515), esploratore e avventuriero castigliano a cui si devono la scoperta di vasti territori caraibici e del lago di Maracaibo. Dalla prosa scorrevole e brillante – anche a distanza di quasi un secolo dalla sua stesura – "Il cavaliere della vergine" offre un punto di vista fin troppo benevolo sulle vicende coloniali, nel perfetto spirito dei tempi: anche per questo, però, si rivela una lettura interessante per i lettori contemporanei.-
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateMar 6, 2023
ISBN9788728515006
Il cavaliere della vergine
Author

Vicente Blasco Ibañez

Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) was a Spanish novelist, journalist, and political activist. Born in Valencia, he studied law at university, graduating in 1888. As a young man, he founded the newspaper El Pueblo and gained a reputation as a militant Republican. After a series of court cases over his controversial publication, he was arrested in 1896 and spent several months in prison. A staunch opponent of the Spanish monarchy, he worked as a proofreader for Filipino nationalist José Rizal’s groundbreaking novel Noli Me Tangere (1887). Blasco Ibáñez’s first novel, The Black Spider (1892), was a pointed critique of the Jesuit order and its influence on Spanish life, but his first major work, Airs and Graces (1894), came two years later. For the next decade, his novels showed the influence of Émile Zola and other leading naturalist writers, whose attention to environment and social conditions produced work that explored the struggles of working-class individuals. His late career, characterized by romance and adventure, proved more successful by far. Blood and Sand (1908), The Four Horsemen of the Apocalypse (1916), and Mare Nostrum (1918) were all adapted into successful feature length films by such directors as Fred Niblo and Rex Ingram.

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    Il cavaliere della vergine - Vicente Blasco Ibañez

    Il cavaliere della vergine

    Translated by Carlo Boselli

    Original title: El caballero de la Virgen

    Original language: Castilian Spanish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1931, 2023 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728515006

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREFAZIONE

    DI

    EDUARDO GÓMEZ DE BAQUERO

    Il Cavaliere della Vergine (Alonso de Ojeda) è il secondo dei libri postumi lasciati da Blasco Ibanez, e il secondo anche della serie che l’illustre scrittore pensava di dedicare alle imprese degli spagnoli in America. Dopo i suoi volumi di argomento bellico e quelli di ambiente cosmopolita, dei transatlantici e dei luoghi di piacere della Costa Azzurra, il romanziere aveva ripreso i temi spagnoli. Ma non lo attirava più la Spagna contemporanea dei suoi primi romanzi, sibbene la Spagna storica e remota.

    Il Papa del Mare e Ai piedi di Venere ¹rappresentarono notevoli passi in questa direzione. Ma il piano prediletto, quello dall’autore più accarezzato, era la serie dei romanzi relativi alla scoperta e alla conquista d’America, con cui intendeva rivestire delle moderne forme del romanzo quella che fu senza dubbio la più grande epica gesta delle genti ispane.

    È facile capire l’attrazione che una simile serie doveva esercitare su Blasco Ibañez. L’argomento si adattava meravigliosamente al suo robusto temperamento epico, di rievocatore di folle e di fenomeni collettivi, di pittore di vasti quadri murali. Il tema lusingava pure l’ardente patriottismo e lo spirito spagnolo, così marcati in Blasco, e doveva riuscir parimenti gradito ai pubblici di Spagna e a quelli d’America. Si potrebbe anche aggiungere che tale collana di romanzi della conquista d’America giungeva a tempo opportuno: quando cioè, dopo una vasta produzione, l’inventiva si andava illanguidendo, come suole accadere agli autori molto fecondi; e lo stile del romanziere prendeva una nuova direzione, adottando le forme narrative della Storia, resa amena da una favola romanzesca. Questi libri, che forse come romanzi non arriveranno a gareggiare coi capolavori dell’autore, potevano offrire un altro genere d’interesse assai importante: quello di porgere ai pubblici di lingua spagnola, e anche al pubblico universale, una divulgazione poetica della storia della colonizzazione d’America che popolarizzasse il più memorabile caso di fondazione di nuovi popoli per via coloniale, e fosse per l’elevatezza e per l’interesse generale dell’argomento il coronamento dell’opera dello scrittore.

    I due romanzi finora pubblicati — In cerca del Gran Kan e Il cavaliere della Vergine — hanno raggiunto compiutamente tale scopo e hanno anzi offerto maggior animazione e movimento romanzesco di quel che si sarebbe potuto supporre, giudicando da II Papa del Mare e da Ai piedi di Venere. Il romanziere abbandona il procedimento seguito nei due romanzi precedenti, del romanzo a due piani: un piano di azione storica remota e uno di favola romanzesca contemporanea, che veniva ad essere come una vignetta destinata a dare animazione ed attualità alla narrazione storica. È tornato al metodo, più semplice e in genere più efficace, di romanzare direttamente l’argomento storico.

    Blasco Ibañez aveva certamente lasciato già finiti o almeno in stato di assai avanzata redazione questi due romanzi, poichè è in essi evidente la sua impronta personale perfino nei particolari; e probabilmente gli esecutori testamentari dell’illustre scrittore avranno avuto poco da ritoccare sui manoscritti.

    Il Cavaliere della Vergine non è un romanzo strettamente biografico. La figura centrale è senza dubbio quell’intrepido capitano Alonso de Ojeda, il « piccolo capo bianco » che si cattiva l’ammirazione degli indî con le sue prodezze e vince e imprigiona Caonabo, il feroce cacicco, con uno di quegli audaci strattagemmi che si ripetono nei fasti della conquista. Ma tanto o più che le gesta del protagonista, attrae il quadro della vita di San Domingo, luogo di convegno degli esploratori spagnoli e punto da cui partono le nuove esplorazioni e i nuovi tentativi di conquista. Colombo conserva tuttora l’illusione dell’Asia, delle terre del Gran Kan; ma ormai tali speranze hanno perduto credito in Ispagna. L’ammiraglio è in decadenza, l’oro è scarso, grandi i patimenti, miseri i risultati. Gli indi selvaggi, con le loro frecce avvelenate, offrono una tenace resistenza all’invasore. Non si sono ancòra scoperti gli opimi imperi, ma già tra la folla di personaggi presentati dal romanziere, i quali dànno con la loro varietà grande animazione al racconto, appaiono le figure dei futuri conquistatori, di Hernán Cortés e di Francisco Pizarro. I tempi sono difficili. Si attendono con ansia le spedizioni dalla Spagna, che portano approvvigionamenti. I coloni non si sono ancóra avvezzati ai cibi degli indi e tardano a sviluppare le coltivazioni e l’allevamento degli animali domestici importati. In quella moltitudine di avventurieri di varia qualità si alternano ai gesti eroici e generosi, le passioni malvagie e violente, i tradimenti e gli intrighi. Spuntano già in questo quadro degli albori della colonizzazione l’indisciplina, le ribellioni e le insidie che dovevano poi largamente manifestarsi nel corso della conquista, perturbando spesso i nuovi domini spagnoli.

    Figura nel romanzo la cattura dell’Ammiraglio ad opera del commendatore Bobadilla, inviato quale commissario inquirente in conseguenza delle denunzie e dei reclami degli spagnoli. La severità del governo dei Colombo, la mancanza di tatto dei fratelli dell’Ammiraglio e la loro condizione di stranieri, avevano indispettito la nascente colonia. ²

    L’episodio della regina indiana Fior d’Oro, la bella Anacaona, introduce nel romanzo una pennellata di poesia esotica che finisce tragicamente; e nel pittoresco quadro dei laboriosi primordi della colonizzazione appare come una visione dell’avvenire, del destino economico d’America.

    Tale nuovo romanzo di Blasco Ibañez non demerita certo del precedente, e induce a pensare che cosa avrebbe potuto essere questa galleria di romanzi d’America, se non fosse stata fatalmente interrotta dalla morte del famoso scrittore.

    PARTE PRIMA

    LA REGINA FIOR D’ORO

    I.

    ASCOLTANDO LA VOCE DEL CIELO.

    L’aria pareva trasmettere con fremiti di inquietudine e di meraviglia le onde sonore propagate dal volteggiamento della campana. Era la prima volta che tali suoni echeggiavano nell’atmosfera di quella terra, i cui abitanti non avevano mai conosciuto l’uso dei metalli.

    Fernando Cuevas s’immaginava perfino di vedere come gli alberi della vicina selva acquistassero nuova vita, movendo le loro fronde al ritmo di quella voce dal timbro argentino. E gli abitatori della secolare foresta, scimmie e pappagalli, saltavano sgomenti di ramo in ramo, dopo di aver ascoltato a lungo, con curiosità silenziosa, quella nuova voce atmosferica, più potente di tutte le voci animali e vegetali dei boschi del tropico.

    L’antico paggio Andújar aveva ora la sua casa e se ne stava ritto dinanzi alla porta, ascoltando lo scampanìo che salutava per la prima volta la levata del sole. Quella casa era una semplice capanna, simile a quelle degli indigeni, con pareti di pioli e fango, e tetto conico di foglie di palma. A breve distanza da tale rustico edificio, altri se ne inalzavano, ed altri ancòra, in doppia fila, formando un’ampia strada, analoga a quelle degli accampamenti. Il terreno non costava nulla, e tutte le vie della città nascente erano esageratamente ampie e dall’orizzonte sgombro.

    In fondo alla sua strada, Cuevas vedeva erigersi un muro di pietra. Era la muraglia recentemente costruita di Isabella, la prima città fondata dagli spagnoli nelle isole vicine all’Impero del Gran Kan.

    L’ammiraglio Cristoforo Colombo, proclive all’iperbole, chiamava gravemente « città » quel gruppo di catapecchie, con un recinto di pietra atto a difenderla dagli « indios » selvaggi dell’interno dell’isola di Haiti, o isola Spagnola, e le aveva dato il nome di Isabella, in onore della regina di Spagna.

    Cuevas ammirava la meravigliosa rapidità con la quale quell’aggregato di case era sorto dal suolo. Era il gennaio del 1494. Solo da quattro mesi erano partiti dalla Spagna, e già esisteva quella città, sui cui conici tetti di paglia o di foglie si elevava la chiesa, di recente costruzione, con un rozzo campanile di pietra, nel quale volteggiava l’unica campana portata dall’altro lato dell’Oceano.

    Padre Boil, frate catalano, nominato vicario apostolico delle nuove terre da Alessandro VI (il secondò Papa Borgia), e i dodici sacerdoti che avevano fatto il viaggio con lui, dovevano consacrare in quella stessa mattina il nuovo tempio con una messa solenne.

    Fernando pensava ad un’altra cerimonia meno pomposa, ma per lui più importante, che si sarebbe svolta subito dopo: il battesimo di suo figlio Alonsico, il primo bianco nato in quelle isole asiatiche, vicine alle Indie e alla foce del Gange. In quella capanna, che aveva alle sue spalle, e che apprezzava come un palazzo perchè era sua, dormiva Lucero, che da qualche settimana era madre, e aggrappato al suo seno piagnucolava il neonato, il cui pianto costituiva per Cuevas una musica gradita, paragonabile a quella della campana.

    Sfilavano rapidamente nella sua memoria tutti gli avvenimenti occorsi negli ultimi mesi al di là dell’Oceano.

    Il dottor Acosta aveva fatto a Córdova tutto il possibile per agevolare il suo matrimonio con Lucero dopo il battesimo di quest’ultima. Si accomiatava da sua moglie, che già era incinta, per dirigersi a Siviglia, in cerca del suo amico e protettore Alonso de Ojeda. Lucero, che aveva di nuovo indossato i suoi indumenti femminili, si asteneva da piagnistei e da gesti disperati nel separarsi dal suo giovane sposo.

    « È una vera moglie di soldato », si era detto Cuevas con orgoglio, ammirando la sua serenità.

    A Siviglia, Fonseca e l’Ammiraglio apprestavano la seconda spedizione per andare in cerca del Gran Kan, ma questa doveva salpare dal porto di Cadice. Dei diciotto bastimenti che formavano la flotta, quattordici erano caravelle e gli altri caracche — le navi di maggior tonnellaggio di quel tempo — e ciò le impediva di ancorare nel fiume Guadalquivir, rimanendo in attesa dell’ordine di partenza nel porto di Cadice.

    Cuevas si insediò in una delle caracche, comandata da Alonso de Ojeda. Il giovane capitano non era marinaio, e si imbarcava anzi per la prima volta, ma aveva il comando supremo della nave, con due piloti a’ suoi ordini, incaricati di dirigere la navigazione. Su quel bastimento trovavansi i venti cavalli della spedizione, animali da combattimento che avevano preso parte all’assedio di Granata, e i loro cavalieri erano antichi soldati distintisi nella guerra contro i Mori.

    Cuevas deplorò di non possedere una di quelle bestie e di dover seguire il suo ammirato Don Alonso come scudiere di fiducia, ma a piedi.

    — Non preoccupartene — disse il giovane capitano. — La guerra è fatta perchè gli uomini muoiano, e non appena abbia a cadere uno dei nobili che ho ai miei ordini, giuro che ne darò a te il cavallo.

    Due giorni prima che la flotta salpasse, Cuevas tornando alla sua caracca, dopo di avere eseguito a Cadice alcune commissioni del nuovo padrone, ebbe la più insperata delle sorprese. Vide sulla coperta della nave una giovane donna, avviluppata in un manto per nascondere il volume anormale del proprio ventre. Era Lucero, che stava parlando con Don Alonso. Questi, propenso ad accettare tutto ciò che fosse audace e straordinario, accoglieva con sorrisi e gesti di approvazione le parole della giovane.

    Lucero si meravigliò della credulità di suo marito al momento del commiato a Córdova.

    — Ma mi credevi davvero capace di consentire che il mio uomo se ne andasse, senza seguirlo io stessa?

    Aveva simulato acquiescenza per evitare l’opposizione di sua madre e del dottor Acosta, ma aveva poi predisposto in segreto la sua fuga a Cadice. Un « nuovo cristiano », mulattiere di professione, l’aveva accompagnata sin là. Inoltre, la sua prossima maternità imponeva rispetto, eliminando le tentazioni che la gioventù di lei avrebbe potuto ispirare. E adesso era lì a Cadice per attraversare di nuovo l’Oceano, ma vestita da donna, questa volta.

    Inutili furono le proteste di Cuevas. Don Alonso approvava la risoluzione di Lucero, e poichè dipendeva dalla sua volontà che questa venisse presa o meno a bordo, il giovane finì per tacere. La flotta non si componeva legalmente che di uomini. I sovrani avevano solo autorizzato l’imbarco di milleduecento individui; ma tenendo conto di quelli che avevano ricevuto analoga autorizzazione all’ultimo momento, e di quelli che si eran nascosti nelle stive per mostrarsi poi in alto mare, oltrepassavano complessivamente i milleseicento. Si insediarono pure sulle navi, più o meno segretamente, alcune femmine di bassa estrazione, che seguivano travestite i loro amanti marinai o soldati. L’unica donna di condizione legittima che accompagnava la flotta era Lucero, con il beneplacito del capo della nave, ma senza che l’Ammiraglio ne avesse notizia prima della partenza.

    Il 25 settembre 1493 la spedizione salpava da Cadice prima dello spuntar del sole. Alle Canarie comperarono vitelli, capre e pecore, per acclimatare tali animali nell’isola Spagnola, come pure galline ed altri volatili domestici.

    La carraca di Cadice, la cui coperta era trasformata in stalla pei cavalli, imbarcò otto maiali, che poi dovevano riprodursi portentosamente nelle nuove terre, fuggendo nelle montagne per formare branchi selvatici. I naturalisti e gli erborizzatori della spedizione presero pure nelle Canarie semi di arance, di limoni e d’altri frutti, per riprodurre nelle nuove isole gli stessi giardini che avevano dato alle Canarie, anticamente, il nome di Esperidi.

    Cuevas era inquieto per lo stato di sua moglie. Non le mancavano che pochi mesi per il parto, ed egli temeva le terribili conseguenze di quella navigazione e delle relative privazioni. Ma il viaggio si andava mostrando facile e dolce come il primo. Navigavano sempre con vento favorevole; il mare era tranquillo. Inoltre, Ojeda li aveva installati sul cassero, a poppa, presso di sè.

    Videro, come l’altra volta, banchi di erbe galleggianti sul tranquillo Oceano e grandi stormi di pappagalli e d’altri uccelli tropicali. La terra era ormai vicina.

    Poichè Fernando e Lucero erano su quel bastimento i soli che avessero già figurato nel viaggio precedente, si esprimevano con sicurezza da esperti naviganti; e Don Alonso, come pure i due piloti della caracca, li ascoltavano attentamente.

    L’Ammiraglio aveva modificato la rotta del primo viaggio, mettendo la prora più al sud. Voleva vedere quelle isole popolate di caraibi, delle quali parlavano con meraviglia i timidi abitanti delle coste della Spagnola. Così andò incontrando le piccole Antille, che formano quasi un semicerchio dall’estremità orientale di Porto Rico alla costa di Paria, nell’America del Sud, barriera di isole fra il mare detto dei Caraibi e il resto dell’Oceano.

    La prima isola che apparve a’ suoi occhi venne chiamata da Colombo la Dominica, per averla scoperta in domenica; alla seconda diede il nome di Marigalante, poichè così chiamavasi la nave su cui egli si trovava, e la terza, assai più grande, la battezzò Guadalupa, per aver promesso ai monaci della Vergine di Guadalupa in Estremadura (il più famoso convento della Spagna in quel tempo) di dare quel nome a qualcuna delle prime terre che avrebbe scoperto.

    Tutte quelle isole di montagne vulcaniche, ricoperte di splendida vegetazione, che sorgevano dal mare azzurro come altissime piramidi di verzura, erano popolate da genti bellicose che ricevevano i componenti della spedizione a colpi di freccia, oppure fuggivano verso l’interno per preparare imboscate e sorprese.

    Ojeda sbarcò diverse volte per incarico dell’Ammiraglio, allo scopo di combattere quegli indigeni selvaggi, ma non volle mai permettere che Cuevas lo seguisse nelle sue brevi spedizioni, dovendo questi pensare alla sua sposa.

    Al ritorno, egli e i suoi uomini parlavano dei resti umani trovati nelle capanne di quei cannibali. Cadaveri squartati pendevano dai tetti delle abitazioni per convertirsi all’aria in carne salata e disseccata. Avevano trovato in una pentola alcuni pezzi del corpo d’un uomo giovane, mescolati con carne di oche e di pappagalli, che arrostivano a fuoco lento. E nello stesso tempo Ojeda descriveva con entusiasmo traboccante, proprio del suo temperamento appassionato, le bellezze del tropico, che conosceva per la prima volta, la fraganza dei fiori e delle resine, i colori degli uccelli dalle seriche piume, i voli delle tortore e delle colombe silvestri.

    In altre isole del mar Caraibico dovettero sostenere battaglie con gl’indigeni, meravigliandosi che le donne combattessero come gli uomini. Erano queste indubbiamente le amazzoni di cui avevano parlato agli spagnoli nel loro primo viaggio. Le loro frecce venivano così vigorosamente scagliate, da ferire vari cristiani, attraversando le rotelle con le quali si riparavano il viso.

    Alcune di quelle femmine, ben formate di corpo e dai lineamenti meno irregolari di altre indigene, vennero fatte prigioniere; e Colombo, che si era mostrato così severo in Ispagna, quanto al divieto d’imbarco di donne bianche, distribuì le indiane captive fra i capitani di nave che gli erano più cari. Uno di essi, di nome Cuneo, di nazionalità italiana, legava la sua indiana con funi perchè resisteva a’ suoi desideri, dichiarando, dopo consumata la violazione, che la cuprea beltà si era data a lui con tale entusiasmo, da poter impartire lezioni alle cortigiane più esperte d’Europa.

    Le costumanze di quel tempo non vedevano nulla di straordinario in simili violenze. La guerra giustificava ogni cosa. Inoltre, Colombo, e con lui la maggior parte de’ suoi contemporanei, consideravano quegli indigeni come appartenenti ad un’umanità indegna dei riguardi in uso presso i bianchi.

    I componenti della spedizione desideravano di por fine al più presto al loro viaggio, giacchè i più si erano imbarcati per la prima volta. L’ammiraglio, dal canto suo, era inquieto pensando al pugno d’uomini che aveva lasciato come guarnigione alla Navidad (« città di Natale »), come egli chiamava il piccolo forte di tavole inalzato nelle terre del suo amico, il cacicco Guanacarí.

    Coloro che avevano partecipato al primo viaggio ricordavano come un’epoca felice i giorni trascorsi sulle coste d’Haiti; e gli altri, credendo alle loro parole, erano impazienti di arrivare a una terra di boschi paradisiaci, abbondante d’oro.

    Cuevas ricordava tutte le dolorose sorprese subite dai partecipanti al primo viaggio, mentre seguiva ora le coste della Spagnola in quella seconda spedizione. Nel golfo detto delle Frecce, dove si era svolta la pugna con un gruppo di indiani selvaggi, nella quale egli aveva dato una coltellata al più audace di quegli indigeni, l’Ammiraglio fece sbarcare uno dei giovani « indios » che aveva portati in Ispagna e che restituiva al suo paese, fatto cristiano e vestito alla spagnola, affinchè servisse da interprete. Quell’indigeno, carico di regali, scese a terra e non fu visto mai più. Presso la flotta, rimaneva soltanto, quale traduttore, un giovane di Guanacarí, che aveva preso il nome di Diego Colombo, il fratello minore dell’Ammiraglio, e che si mantenne sempre fedele agli spagnoli.

    Il 25 Novembre ancoravano dinanzi a Monte Cristi, presso la corrente d’acqua che Colombo aveva chiamata Rio de Oro. Un gruppo di marinai, esplorando la costa, trovava due cadaveri, uno dei quali con una corda di sparto spagnolo legata al collo; ma erano così sfigurati, che riusciva impossibile indovinare se fossero indigeni oppure bianchi.

    I dubbi che molti cominciavano a nutrire intorno al destino degli uomini rimasti nella Navidad si facevano sempre più sinistri. Cuevas, disceso alla spiaggia, scoperse due altri cadaveri già in decomposizione, ma uno di essi aveva la barba, segno indubbio che si trattava del corpo di un bianco.

    Nello stesso tempo, l’Ammiraglio ed altri personaggi sospettavano che gl’indigeni avessero potuto attaccare la guarnigione della Navidad, in vista della franchezza e della disinvoltura con la quale arrivavano con le loro canoe sino alla flotta e salivano sulle navi per far cambi con gli equipaggi. Il 27 raggiunsero, sul far della notte, il porto di Navidad, mantenendosi a una lega da terra per timore delle rocce su cui era naufragata la Santa Maria nel primo viaggio.

    Poichè cominciava a scender la notte con la rapidità dei crepuscoli tropicali, nessuno potè vedere l’aspetto della costa. Colombo, impaziente di dissipare i propri dubbi, fece sparare due cannonate. Aveva lasciato nel forte di Navidad vari pezzi d’artiglieria, e certamente dovevano rispondere a quel segnale. L’eco ripetè lungo la costa le due detonazioni; poi si ristabilì il silenzio. Invano tesero l’orecchio capitani e piloti su tutte le navi, sperando di udire qualche grido di risposta. Nè luci nè voci!

    Cuevas e Lucero si mostrarono inquieti trovandosi di fronte al luogo dove avevano creduto di veder morire il loro nemico Piero Gutiérrez. Se fosse vissuto ancòra, per un capriccio della sorte, e li avesse denunciati all’Ammiraglio!…

    Lamentavano in pari tempo quel silenzio mortale della notte tenebrosa, segno che non rimaneva più nessun vestigio della piccola città che avevano vista nascere.

    Trascorsero ore interminabili per la gente della flotta, oscillante fra la credulità e lo scoramento. A mezzanotte una canoa si avvicinò alla nave ammiraglia, e gli indios domandarono da lontano se vi fosse a bordo Colombo. E rifiutarono di salire, finchè un paggetto collocò una torcia presso il volto dell’Ammiraglio, affinchè lo riconoscessero.

    Un parente del cacicco Guanacari salì a bordo, consegnando a Colombo due maschere con ornamenti d’oro, simili a quelle del primo viaggio. Le sue dichiarazioni circa la sorte degli spagnoli rimasti nel forte riuscirono confuse, poichè l’indio Diego Colombo, unico interprete, era delle Lucaie e la sua lingua era diversa da quella di Haiti. L’Ammiraglio comprese che molti spagnoli erano morti, ma che altri si trovavano nell’interno dell’isola con le loro donne indigene, e inoltre, che Caonabo, terribile cacicco di Cibao,

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