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Villa Cecilia
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Villa Cecilia

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About this ebook

La descrizione di un mondo scomparso e, insieme, il racconto di sentimenti ed emozioni che non cambiano mai. La Prefazione cristallizza in poche parole il contenuto di Villa Cecilia, un romanzo che guarda al passato, a una generazione irrequieta che si fa strada in una società che cambia velocemente, emblema di una gioventù spavalda e spaventata, turbata da desideri indotti, inespressi, incapace di affrontare le disillusioni in cui s’imbatte. Siamo a Padova, sono gli anni Settanta, e da lì si arriva alle porte del nuovo millennio. Il ricco affresco iniziale va dipanandosi tra le mani del lettore, come un arazzo di cui si tiri un filo; le situazioni narrate, la rete di personaggi che si muovono accanto al protagonista, le loro famiglie e le ragazze oggetto di costanti attenzioni, si riducono infine a un gomitolo di ricordi essenziali, con cui qualsiasi lettore, giovane o meno che sia, potrà ritrovarsi.

Giorgio Grasselli è nato a Padova dove ha esercitato per oltre cinquant’anni la professione di avvocato. Ha collaborato con le migliori riviste giuridiche di Diritto Civile con articoli commenti e massimazioni di sentenze. Con i tipi della CEDAM di Padova e UTET di Torino, ha pubblicato testi istituzionali in tema di locazioni e di diritto processuale civile. Appassionato di fotografia, ha di recente pubblicato un manuale sulla fotografia e il diritto d’autore edito da Key Editore di Milano. Ultimamente si è dato alla narrativa recuperando bozze, appunti e scritti vergati negli anni, pubblicando con la casa editrice CLEUP di Padova due racconti autobiografici: Gli anni di Torreglia,  1943- 1945 e Quando eravamo a scuola.
 
LanguageItaliano
Release dateMar 31, 2023
ISBN9788830679900
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    Villa Cecilia - Giorgio Grasselli

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    Giorgio Grasselli

    Villa Cecilia

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7503-2

    I edizione febbraio 2023

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Villa Cecilia

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREFAZIONE DI CORRADO POLI

    Parafrasando Yates possiamo dire che questo scritto di Giorgio Grasselli non è un romanzo per vecchi. È vero che si riferisce all’ambiente padovano degli anni Settanta (lo si intuisce dalle descrizioni), ma ci consente di comprendere almeno due aspetti cruciali ed estemporanei come si addice a una narrazione che rimane nel tempo, che supera i limiti generazionali. È un testo che avranno piacere di leggere sia i coetanei dell’autore, sia i giovani alle prese con gli stessi dubbi e sentimenti.

    Il primo contenuto sostanziale del racconto consiste nella descrizione di un mondo, di comportamenti, sensibilità, persino di oggetti e, simbolicamente, anche la Villa Cecilia del titolo, ormai da molto tempo scomparsi. Il secondo risiede nella descrizione di emozioni e sentimenti che non cambiano mai. Ci troviamo, di fatto, di fronte a un romanzo di formazione che attraversa le varie fasi della maturazione di alcuni uomini che ruotano attorno al protagonista di cui diremo il meno possibile per non togliere il gusto di scoprirlo nel finale del libro.

    La contraddizione tra il mondo dileguatosi in quel trentennio del dopoguerra, descritto nel racconto, e il presente che non cambia mai è dunque solo apparente. Il racconto si concentra essenzialmente sulle relazioni amorose di vari giovani e del protagonista in particolare, delle loro famiglie e delle numerose ragazze che corteggiavano con il fine recondito talora e a volte esplicito di arrivare prima o poi al matrimonio. Senza farsi mancare, com’è ovvio e viene sottolineato, esperienze soltanto sessuali sia pure tenute segrete o paludate a causa della mentalità corrente. All’amore romantico, che è senza tempo e quindi il vero protagonista del libro, si associa tutto un sistema di relazioni con i genitori, con le famiglie e con la condizione sociale che oggi appaiono completamente diversi. Ma questi aspetti sociali hanno il pregio di non essere trattati in primo piano e costituiscono come una silente colonna sonora della prosa di Grasselli. Diventano così importanti proprio per non volersi porre all’attenzione in modo indiscreto.

    Le ragazze sono al centro dell’attenzione dell’autore. Sono loro le protagoniste senza darlo a vedere come usava una volta. Infatti, di proposito l’autore le descrive solo dal punto di vista dei maschi che le corteggiano o che desiderano qualcosa da loro, si tratti di occasionale sesso o di stabile matrimonio. Le situazioni emotive sono identiche a quelle di oggi, ma, tra le altre cose, la prospettiva o meglio l’obiettivo del matrimonio che emerge risulta come una scelta da una parte inevitabile e dall’altra drammaticamente irreversibile. Oggi, non è diverso: anche oggi chi si sposa lo fa con l’idea che sia per sempre, ma ha a disposizione anche molte alternative: prima di tutto convivere senza sposarsi e farlo in vario modo; nel caso pur decidesse di pronunciare un fatidico definitivo, in cuor suo sa di avere una via d’uscita diventata sempre più facile e soprattutto praticata.

    Per questo il racconto descrive con molta efficacia un mondo scomparso e induce a un’attenta riflessione su come la società sia cambiata profondamente nel corso degli anni e dei decenni senza che un potenziale giovane lettore non si possa comunque ritrovare nel protagonista, nelle situazioni, nei sentimenti.

    È un piacere scorrere le pagine che descrivono timidezze e pregiudizi da una parte e sfrontatezza dall’altra e persino in alcuni casi vero cinismo.

    Il protagonista è ben delineato e l’autore ha il buon gusto di non emergere tra i numerosi personaggi che popolano la narrazione. Uno dei pregi maggiori del libro va infatti rilevato nell’abilità di evitare ogni riferimento direttamente autobiografico che appesantirebbe la lettura e renderebbe il romanzo non pubblicabile, uno di quei numerosi diari che ciascuno vorrebbe fare conoscere agli altri. Ciononostante, la narrazione riesce a essere personale senza lasciare alcuno spazio al pesante narcisismo di autori più sprovveduti.

    Vi è descritta una Padova popolata da persone che ancora esistono o si sono riprodotte in una generazione successiva, e forse non saranno in pochi a ritrovarsi in essi e nelle situazioni descritte nel romanzo fino a trascendere nel pettegolezzo che è l’anima più verace dell’umanità e, se condotta senza malizia, persino la più nobile.

    Buona lettura.

    Corrado Poli

    I

    Chi oggi a Padova, dopo aver imboccato l’ultima via a sinistra prima del Ponte Scaricatore - un tempo quasi un viottolo di campagna - si accingesse a cercare la casa appartenuta alla famiglia Guerrini, che, per la verità, era qualcosa di più di una casa, senza tuttavia essere nemmeno un palazzo, resterebbe deluso perché, da molti anni ormai, se ne è persa ogni traccia.

    Quel viottolo, che in epoca relativamente recente ha assunto il nome di via Tre Garofani, quando ebbe inizio questa storia, si chiamava via della Colombara Vecchia, a motivo di una antica colombaia a ridosso di una casa colonica, che risaliva all’incirca a metà del ‘700, distrutta durante l’ultima guerra mondiale da una bomba poco intelligente caduta per caso in quella zona del tutto priva di obbiettivi militari o di qualche interesse strategico.

    Perduta la memoria di quella antica colombaia, della quale erano rimaste poche mura diroccate prestamente asportate da una ruspa diligente, l’amministrazione comunale aveva voluto dare un segno di novità a quella zona in vista dell’insediamento urbanistico programmato, ed aveva rinominato via della Colombara Vecchia, anzi, de la Colombara Vecia, come era volgarmente chiamata, con il più gentile nome di via dei Garofani, intento che avrebbe dovuto estendersi anche alle strade vicinali con denominazioni floreali, arrestatosi però a via delle Rose, poiché ricorrenze più importanti avevano poi suggerito altri nomi echeggianti eroi dimenticati o personaggi di un certo lustro, sebbene pressoché ignoti alla cittadinanza.

    Adesso la strada è ininterrottamente costeggiata da villette con giardino, alcune pretenziose, altre gradevoli a vedersi, e, ad intervalli, da qualche condominio, e di casa Guerrini s’è persa anche la memoria.

    Dopo la morte di Guido, cui seguì, a poca distanza, il trasferimento della madre in altra parte della città, la villa resistette per qualche tempo, anche se rimase abbandonata a sé stessa. Ancora solida nelle fondamenta, era completamente vuota: le poche persiane che erano rimaste al loro posto, tra le molte divelte dall’opera del tempo o da qualche vandalo, erano semiaperte, lasciando scorgere gli interni illuminati dal sole. L’ampio ingresso che dava sul salotto - il famoso salotto della signora Guerrini - aveva ancora i pavimenti a parquet di legno di rovere, molti dei quali sollevati dall’umido e dalla pioggia entrata dalle finestre aperte.

    Poi arrivarono le ruspe.

    Ma la casa resistette. Sul fianco del grande giardino del quale era stata abbattuta la recinzione (nemmeno i vecchi alberi c’erano più), si aprì una enorme buca nella quale già si vedevano infissi i piloni di cemento: fondamenta di una nuova e più imponente costruzione che sarebbe sorta lì accanto.

    La vecchia casa, dalle finestre spalancate come grandi occhi atterriti e stupefatti di quanto accadeva all’intorno, scomparve per ultima, nel giro di poche ore, forse sostituita da una villa moderna che si vede attualmente nelle vicinanze, oppure, è più probabile, ingoiata da quel vicino complesso edilizio proprio a metà di via dei Garofani.

    Era grande, di forma quadrata, massiccia, impreziosita da un timpano che le dava un certo che di villa veneta, e da un ampio porticato: sebbene semplice nella struttura, aveva l’aspetto di una casa padronale che l’assenza di costruzioni negli immediati paraggi - del resto, quelle che c’erano, erano piccole case coloniche, basse, ad un solo piano - rendeva più imponente ed austera.

    La casa l’aveva acquistata il dottor Guerrini, con la li­quidazione che gli era stata corrisposta quando aveva lasciato la banca, nella quale era stato prima semplice impiegato, ma poi, da uomo abile e intelligente quale era, conquistata la qualifica di funzionario, aveva deciso di darsi alla libera professione di commercialista. La moglie, signora Cecilia, che si era innamorata di lui, bruno, piacente, buon parlatore, in un primo momento non aveva gradito quell’acquisto: era nata e vissuta da ragazza in un bell’appartamento in via dell’Arco, nella parte vecchia della città, ed avrebbe preferito, adesso che era una signora della buona borghesia, abitare, se non proprio nelle zone più centrali, almeno all’interno delle mura veneziane.

    Già c’erano state delle contrarietà da parte dei suoi genitori, gente all’antica e con qualche pretesa di nobiltà, i quali non erano stati proprio entusiasti di imparentarsi con quell’uomo che, per quanto di bell’aspetto, era pur sempre un modesto impiegato di banca e per giunta di famiglia non proprio all’altezza.

    Quando poi Guerrini era divenuto funzionario di banca, si erano rassegnati e, alla fine, avevano espresso tutta la loro soddisfazione per quella scelta di darsi alla libera professione, tra l’altro con molto successo.

    La signora Cecilia, alta, bionda come suo figlio Guido, gli occhi di un bell’azzurro chiaro, apparteneva a quel ceto che si definisce di gente bene, e andare ad abitare proprio in periferia, non le garbava. E poi, quella casa, così massiccia, poco elegante, secondo i suoi programmi non si sarebbe prestata agli inviti e ai ricevimenti che aveva in animo di fare. Cosa avrebbero detto le sue amiche sapendo che era andata ad abitare in via della Colombara Vecchia? Ne avrebbero sorriso, sicuramente.

    Ma il dottor Guerrini rimase fermo nella sua decisione.

    Per accontentare la moglie, fece costruire un bel porticato sul fianco della casa, la abbellì con qualche fregio, curò che il terreno che la circondava, vastissimo, prendesse le sembianze di un giardino all’inglese, e là, dove il prato erboso finiva, collocò un piccolo berceau e fece tutt’intorno piantare alberi, tanto che si poteva ben dire che, oltre il giardino, c’era anche un bel parco. Infine, e questa fu un’idea davvero geniale, su uno dei due pilastri che reggevano il bel cancello in ferro battuto, in onore della moglie fece incidere la scritta Villa Cecilia.

    La signora si rabbonì. E alla fine dovette convenire che nell’insieme la costruzione era imponente e faceva una bellissima figura. L’ampio porticato avrebbe consentito cene all’aperto nelle sere d’estate, quando fa caldo, e poi avrebbe potuto condurre i suoi ospiti a passeggio per il parco: insomma, la casa aveva acquistato un certo tono gentilizio e comunque era dotata di un giardino, anzi, di un vero e proprio parco, cosa altrimenti impensabile nel centro storico.

    Con il passare degli anni il parco di Villa Cecilia prese un certo che di abbandono, ma ciò non dava alcuna sensazione di disordine o di incuria, anzi, vorrei dire che quell’atmosfera un po’ sciatta, quasi la impreziosiva, conferendole un fascino molto particolare. Gli alberi da frutto si erano quasi tutti inselvatichiti, ma in primavera erano coperti di fiori, e sul retro, dove un tempo forse vi era un orto, il terreno era spesso invaso da erbacce che un solerte giardiniere, chiamato periodicamente, falciava, così ripristinando l’iniziale sembianza di prato all’inglese. Verso l’ingresso, invece, alcune aiuole dimostravano molta cura, e quand’era la buona stagione fiorivano le dalie, fiori in disuso e assai tristi, le petunie, ed i grossi cespugli di biancospino. Su di un lato, quasi celato alla vista dall’alta siepe, il berceau si era coperto di glicine e le due panchine di pietra disposte a semicerchio, l’una di fronte all’altra, servivano spesso a Guido per rifugiarsi con gli amici a parlare delle loro avventure con le ragazze.

    Ad ogni ricorrenza, la mamma di Guido organizzava delle vere e proprie feste da ballo, alle quali partecipavano anche i ragazzi, i quali contavano sulla presenza di qualche amica di Anna, la sorella di Guido, più grande di lui di un paio d’anni, con cui spesso si intrecciavano dei flirt. Dopo aver fatto man bassa dei pasticcini offerti dalla padrona di casa, i più giovani preferivano appartarsi in fondo al giardino dove si formavano le coppie.

    In quelle occasioni Guido, allora assai timido, osservava con ostentata indifferenza gli amici più intraprendenti di lui, ma si capiva che in fondo li invidiava. Se ne stava seduto su una panchina, con il suo bel ciuffo biondo ben pettinato, vestito di blu, accanto ad una sua compagna di scuola, una ragazzina magra e scipita, e discuteva animatamente e con molta serietà, mentre gli

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