Su segai petza de Maracalagonis: Il carnevale di Maracalagonis
By Joyce Mattu
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Su segai petza de Maracalagonis - Joyce Mattu
Joyce Mattu
Su segai petza
de Maracalagonis
Il carnevale di Maracalagonis
norIn ogni antica abitudine, credenza e antico rito si conservano le nostre radici, la nostra cultura e identità.
È grazie alla ricerca, all’attento studio e attraverso le rappresentazioni del passato che ci facciamo custodi di queste antiche tradizioni e così consegnare alle nuove generazioni nobili basi sulle quali mantenere il senso di appartenenza e identità.
Un augurio dall’Amministrazione Comunale e dai cittadini di Maracalagonis per tenere in vita le tradizioni.
Il vice Sindaco e Assessore alla Cultura
Giovanna Maria Serra
Indice
Introduzione
1. La ricerca
2. Elementi storico-antropologici
3. Carnevale, maschera e sincretismo
4. Il carnevale di Maracalagonis / Su segai petza de Maracalagonis
5. La rappresentazione del Carnevale di Maracalagonis
Testimonianze
Bibliografia
Riferimenti fotografici
Appendice
Ringraziamenti
L'Autrice
Sa colletzione Contados
Colophon
Introduzione
Circa due anni fa (2017), mi contattò un ragazzo di Maracalagonis, dicendomi che aveva letto il mio libro, che avevano un’associazione di maschere e che avevano l’esigenza di capire e di mettere nero su bianco le ricerche fatte fino ad allora. Dopo una serie di contatti telefonici, ci vedemmo a Cagliari, così Cristian Mascia e Mariano Muccelli mi consegnarono il materiale fino ad allora raccolto. Conobbi due ragazzi giovani, ma estremamente documentati e determinati, non interessava loro fare le sfilate per turisti e, non erano attirati da finanziamenti o dall’essere famosi in Sardegna e nel mondo, ma a restituire un pezzo di storia (delle tradizioni popolari) al loro paese.
Oltre a una grande determinazione e precisione delle informazioni raccolte, dimostrarono di avere un entusiasmo, naif, quasi ingenuo nei confronti della cosiddetta maschera dell’orso
. A loro non attribuii nessuna responsabilità: la letteratura e certa spettacolarizzazione, avevano ormai consolidato la presenza della maschera dell’orso
in Sardegna. I due giovani volevano solo capire se si trattasse o meno di fonte certa, verificata e verificabile e riportare alla luce l’effettivo carnevale di Maracalagonis. Accettai di buon grado il lavoro, avendo già lavorato sul carnevale di Sinnai, della nostra isola e su altri riti della Sardegna e del mondo. Spiegai loro che tipo di ricerca è quella antropologica e che tipo di impostazione avrei dato io al lavoro. Ricevuto il materiale, chiesi loro di fare delle interviste, che vista la mancanza di rappresentazioni odierne, avrebbero dovuto sostituire la ricerca sul campo: verranno quindi considerate quelle che sono, ossia fonti orali.
Una volta smitizzata e smontata la maschera dell’orso, i ragazzi mi chiesero: ma allora noi non abbiamo una maschera tipica? Rispondo a voi lettori cosa risposi allora: nessuno e tutti hanno una, ma più maschere tipiche. Il carnevale conosciuto oggi, con le sfilate per i turisti, non è sucarra segai, carra segare, o segai petza, non è cioè il rito di fertilità e fecondità, praticato tra solstizi ed equinozi, non sono le epifanie primaverili, invernali ed estive che vedremo nel corso di questo lavoro. Oggi ognuno si è specializzato in una maschera
e fa la sfilata, ieri la cerimonia era comune a tutte le maschere, in certi luoghi e tempi sacri, come vedremo di seguito.
Finisco questa premessa, spezzando una lancia a favore di Maracalagonis e di altri paesi vicini, come Sinnai, Selargius, Settimo San Pietro, etc. Contro tutti i luoghi comuni sull’arcaicità del carnevale in Barbagia, il carnevale di Maracalagonis ha conservato fino agli anni ’60, il suo originale contesto sacro, come risulta dalla memoria orale e dalle fonti edite e inedite, pur essendo stato trasformato da sincretismi e modernità e modificato dal sincretismo religioso e dalle varie forme di spettacolarizzazione.
Joyce Mattu
I
La ricerca
1.1 Fare antropologia
Chi si rivolge all’antropologo non deve aspettarsi la sola demologia, ossia la tradizione popolare, non la sola etnografia, cioè la raccolta e la descrizione dei materiali che sono oggetto dell’etnologia, non deve aspettarsi il racconto di un viaggiatore, o di un turista vacante non affatto immerso nella cultura che visita.
L’antropologia culturale è lo studio dell’uomo all’interno della sua cultura, che ha diverse scuole di pensiero, tra cui quella struttural-funzionalista che io seguo.
La pratica è la miglior grammatica, perciò cerchiamo di spiegare la sostanza di quanto scritto sopra.
Fare antropologia, per me, significa rivolgersi a diverse fonti, edite e inedite: il mito (da noi rimasto leggenda), la cultura materiale, l’archeologia, le fonti orali, la ricerca sul campo, comparazione con altre culture e società arcaiche
o primitive
. Significa immergersi nella cultura studiata, anche facendo riferimento a valori del passato, non difficili da recuperare, quando si fa un lavoro di comparazione e sistematizzazione delle fonti suddette.
Per fare un esempio: vado a Sarule (paese del Nuorese) e vedo che si mangia il fegato crudo di un animale ucciso. Dovessi riferirmi ai miei parametri culturali, penserei che si tratta di qualcosa di aberrante, che hanno retaggi da cannibali, rimarrei comunque scandalizzata se non sapessi che mangiare il fegato o altri organi crudi, così come impregnarsi del sangue dell’animale cacciato, nelle società di cacciatori e raccoglitori era un rito sacro che conferiva nuova forza allo stesso cacciatore e che questo rito ha eredità dal paleolitico superiore legato a rituali ben più complessi, come vedremo in seguito.
Il lavoro che segue è pertanto frutto delle interviste fatte dall’associazione Martis de agoa, con l’inarrestabile, costante e metodico impegno del suo presidente Cristian Mascia, della disamina dello stato degli studi, fatto rispetto al materiale consegnato: Pietrina Moretti e Uccia Agus, di altre testimonianze precedenti quali quelli di Della Maria, ancora della rivisitazione dell’articolato lavoro di Luisa Orrù, di fonti edite e inedite, quali fonti orali, archivi ecclesiastici, stato delle anime, Visite ad Limina, Pregoni, Sinodi etc., della ripresa del mio lavoro sul carnevale e altri riti della Sardegna e del mondo con approfondimento del carnevale di Maracalagonis.
1.2 Stato degli studi sul carnevale di Maracalagonis
Il carnevale di Maracalagonis, è stato descritto in una pubblicazione del 1994 di Uccia Agus¹. Se pur con bizzarre interpretazioni è comunque una descrizione importante e forse la più ricca documentazione di come il carnevale
a Maracalagonis, fosse celebrato fino alla seconda guerra mondiale.
Scrive Uccia Agus:
«Il carnevale di Maracalagonis è particolarmente lungo, poiché ha inizio con l’Epifania al segnale ufficiale
del corno di caccia. Tuttavia, al solito, i festeggiamenti di qualche rilievo si svolgevano (ora sono ridotti a una larva) secondo il calendario comune. Anche per Maracalagonis – come per Sinnai, Settimo San Pietro, Quartu, Quartucciu e Selargius – le feste descritte sono quelle che hanno perdurato fino all’ultima guerra. Poco dopo si è svolto un processo di massificazione che ha lasciato sopravvivere alcune danze tradizionali e l’uso di friggere tzipulas e preparare dolciumi.
Sa giòbia cadraiollu (il giovedì del calderone, da caddaxiu, cadraxiu o cardaxiu, calderone per friggere o bollire cibi) era giorno di feste, di danze e di frittura. I balli proseguivano domìnigu, in forma più fastosa, sulla piazza. L’usanza delle Quarant’ore
, ossia l’esposizione in chiesa del Santissimo per quarant’ore, fino al martedì grasso non impediva né attenuava i festeggiamenti, perché, anzi, si danzava fino a notte tarda.
Su lunis de agoa era il giorno in cui le danze e le feste continuavano e, accanto ai comuni ballerini, troviamo le maschere; alcune di animali, altre parodie i tipi del paese.
Il martis de agoa, allo scadere delle quarant’ore
, si svolgeva nel pomeriggio una corsa di cavalli, coi cavalieri in costume e poi, a sera, la processione di Carnevale. Il fantoccio era abitualmente di fieno e stracci variopinti, il suo ventre era costituito da ventrame di bue e il viso era una zucca cava, una crocoriga de istrexu, fornita di occhi, naso e bocca e spesso illuminata all’interno con un lume. Carnevale era portato in processione per le strade del paese sopra un carretto trainato da un asino. La folla, tra gli schiamazzi, chiedeva vino e dolciumi.
Del corteo facevano parte diversi tipi di maschere. Quelle raffiguranti i personaggi singolari del paese e quelle degli uomini travestiti da donna sono scomparse assai di recente. Quelle che, invece, raffiguravano animali e che risalivano probabilmente a data assai antica, sono scomparse da una trentina d’anni (quindi negli anni ’30 circa, n.d.r.). Il signor Silvio Falqui descrive le maschere animalesche che lui vedeva trenta o quaranta anni fa
: i mascherati usavano coprirsi di pelli, che potevano essere di cervo, di cinghiale o di caprone. Talora, con una pelle nera sul dorso, si legavano insieme a una catena o ad un bastone ed imitavano² gli orsi, di cui si sforzavano di riprodurre anche i grugniti. è difficile scoprire l’origine di questa imitazione degli orsi, visto che questi plantigradi non hanno il loro habitat in Sardegna. Alla fine della processione, in una piazza, Carnevale subiva la solita operazione, dopo la quale moriva. Al sostare del corteo gli si facevano intorno i medici, il macellaio e gli infermieri. Il medico più esperto gli apriva il ventre, asportando metri e metri di visceri di bue. Appena ricucito, il paziente moriva. Dopo di che veniva compianto con atitidus e, cosparso di petrolio, era fatto bruciare. Codesta usanza del funerale dopo l’operazione e dell’ardere il fantoccio, benché ridotta ai minimi termini e senza particolari maschere, era ancora in uso sino a tre anni or sono (quindi comunque negli anni ’60, n.d.r.). I soliti versi "Cranovali mortu, spaciau s’olle procu..." accompagnavano il defunto.
I festeggiamenti carnevaleschi, chiusi con la morte di Carnevale, avevano tuttavia un’appendice la prima domenica di quaresima, detta a Maracalagonis su carnevaloni (il carnevalone). Tipica di questo giorno era l’usanza d’infrangere per le strade delle pignatte sospese tra due balconi (come a sa pariglia di Sinnai) colpendole in groppa a cavalli con bastone e cercando d’indovinare in quale pignatta si trovasse sa roba bona (la roba