Rami ri sciroccu
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Rami ri sciroccu - Filippo Giordano
Introduzione
Oltre che ad essere pervaso dalle influenti dominazioni subite dalla Sicilia nel corso della sua plurimillenaria storia, essendo le tre maggiori città dell’isola (Palermo, Catania, Messina) poste tutte a oltre cento chilometri di distanza, il dialetto mistrettese ha subito una osmosi proporzionata alle rispettive distanze da tali grossi centri. D’altronde, l’alternanza delle dominazioni succedutesi in Sicilia e le varie attività intraprese nel corso dei secoli dagli stanziali hanno generato molteplici espressioni e vocaboli dei quali taluni non uniformemente distribuiti, essendo legati ad ambiti settoriali di maestranze più o meno presenti nei variegati territori dell’isola che ne hanno consentito la nascita e la trasmissione agli addetti ai lavori.
Ascoltare a Mistretta vocaboli sinonimi di espressioni di compiacimento verso fattezze fisiche di persone, quale Allabinirica, quantu è chiattu Nuofriu!
verso la fine del ventesimo secolo, probabile retaggio della dominazione araba (Allah, benedica!), è forse occasione unica che non trova ulteriori testimonianze in alcuno dei numerosi vocabolari siciliani editi nell’ultimo secolo, così come non trova rispondenza lapparuni
(vanitoso).
Appollaiata su un estremo cocuzzolo (980 metri dal l.m.) della catena montuosa dei Nebrodi occidentali, a circa 150 chilometri da Messina, suo capoluogo di provincia, Mistretta, nel corso della sua plurimillenaria esistenza ha sviluppato un suo composito dialetto più comune alla vicina area madonita, da cui dista una quarantina di chilometri, le cui vette sono visibili dalla periferica contrada Serracodda, notevolmente diverso da quello parlato nei centri dell’hinterland messinese. D’altronde, il consistente numero di abitanti raggiunto nel corso del XIX secolo, protrattosi fino ai primi decenni del XX (il censimento del 1921 registrò poco meno di 15.000 abitanti) a causa di un ampio fenomeno di immigrazione di artigiani (falegnami, fabbri ferrai, scalpellini, barbieri, ecc.) nonché la massiccia presenza di lavoratori stanziali della terra, sia autonomi che dipendenti, e di numerosi pastori, anche a causa della notevole distanza dal capoluogo, determinò a Mistretta la istituzione di una sede della Sottoprefettura.
La presenza di numerose scuole, istituite a seguito della unificazione d’Italia, fu causa dell’arrivo di numerosi insegnanti provenienti dal centro nord, fra i quali i giovani lombardi Fortunato Inzoli e Giuseppa Croce, entrambi maestri, dai quali in data 2 febbraio 1868 nacque a Mistretta il figlio Pietro, da grande divenuto famoso pittore incisore, morto a 35 anni, la cui tomba si trova nel Famedio del Cimitero Municipale di Messina, mentre da Francesco Cantarella ed Eva Rebeck in data 28 aprile 1898 nacque Raffaele Cantarella, grecista, filologo, bizantinista e traduttore, deceduto nel 1977.
Il notevole afflusso di popolazione proveniente dall’esterno certamente causò l’acquisizione di nuovi vocaboli dialettali importati da altri centri della Sicilia mentre la estesa scolarizzazione avvicinò la lingua italiana alle famiglie, tuttavia il radicato linguaggio dialettale arcaico appartenente a contadini e pastori venne trasmesso intatto alle generazioni che si succedettero nei vari decenni del Novecento, in gran parte recuperato e custodito dalle pubblicazioni di racconti di Enzo Romano e più, di recente, da alcuni racconti di Gaetano Spinnato, che in un suo recente libro ha riportato una ampia terminologia di vocaboli arcaici appartenente ai pastori, mentre la poetessa Graziella Di Salvo Barbera col libro Scarpisannu sti strati
ha rinverdito la memoria paesana penetrando nel logos che si utilizzava negli ambienti domestici.
Anch’io, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, mosso da una volontà di recupero del costante depauperamento del dialetto, saltuariamente scrissi, alternandole a quelle in italiano, alcune poesie in dialetto siculo-mistrettese, recuperando dalla memoria personale vocaboli appresi dall’ambito familiare (genitori, zii, nonni che si esprimevano in dialetto) e dall’ambito lavorativo che quotidianamente mi metteva in contatto con persone di età diverse, fra le quali parecchi nati nei primi del Novecento, la cui unica lingua di espressione era il mistrettese. Da tali persone, fra i quali mio padre, un giorno casualmente appresi che l’espressione Rami ri sciroccu
era un gergo pastorale che corrisponde a delle particolari forme assunte dalle nuvole in cielo le quali generalmente preludono a un innalzamento della temperatura. Una espressione poetica con tinta pittoresca, chissà quando originariamente battezzata, accolta dai coevi e trasmessa da una generazione all’altra.
Pubblicai la prima raccolta di 13 poesie nel 2003, la seconda, composta di soli nove componimenti, nel 2006 e la terza nel corso del 2015, ogni volta affidando ad esse sentimenti primordiali originariamente pensati in dialetto la cui resa in italiano sarebbe stata avvertita come un vino nato da vitigni di rinomate contrade locali, la cui genuina tempra sarebbe risultata parzialmente annacquata dalla traduzione. Tanto perché, volendo personalmente contribuire al parziale recupero di umane espressioni, sia pure nate in un ambito geografico siciliano circoscritto da un territorio montano tra i cui orizzonti però si contempla anche il mare aperto e i suoi annessi fondali, nel decidere di scegliere tra le opzioni di vestire le parole di sentimenti oppure di vestire i sentimenti di parole, ho scelto la prima opzione in quanto più fedele, essendo stata l’età infantile univocamente corroborata da sentimenti trasmessi, vissuti e interpretati dalla prevalente madre lingua del dialetto siculo-mistrettese, nonostante l’educazione scolare tendesse ad allargare gli orizzonti linguistici e culturali, tuttavia proibendo l’uso di espressioni dialettali.
Ovviamente non mi soffermo qui sull’ipotetico valore della resa formale dei testi poetici che ho, a suo tempo, fatto discretamente circolare, tuttavia garantisco la genuinità del lessico e dei sentimenti. Relativamente alla decisione di ripubblicare queste poesie in tempi in cui ormai diventano sempre più rari i lettori interessati, le valutazioni che mi hanno indotto ad effettuare tale passo sono le seguenti:
1) la stampa delle prime due raccolte pubblicate Scorcia ri limuni scamusciata
e Ntra lustriu e scuru
, essendo entrambe composte da un numero esiguo di poesie, è stata affidata a minuscoli fascicoli spillati, da tempo esauriti;
2) la corretta sistemazione dei segni diacritici (segni grafici che rendono più chiara la pronuncia) sulle mie tre raccolte cortesemente chiesta e prontamente eseguita, un paio di anni fa, dall’amico Sebastiano Lo Iacono, a suo tempo studente modello
della scuola ad hoc creata da Enzo Romano, maestro del dialetto mistrettese;
3) la considerazione che ritengo la mia produzione di poesie in dialetto un corpo a se stante
rispetto alla intera produzione poetica;
4) il fatto che la ormai consolidata modalità self publishing consente la stampa dei libri in quantità ridotte ogni volta che le copie effettivamente servono.
La consapevolezza che qualsiasi modesto contributo atto, nel futuro, a facilitare lo studio dei tempi pregressi possa avere una sua pur minima validità positiva, sia pure nei confronti di una singola persona, ha, quindi, spostato la bilancia verso la convinzione della positività del fare.
fg
SCÒRCIA RI LIMUNI SCAMUSCIATA
Scorza appassita di limone
Prefazione
Di Filippo Giordano conoscevamo Se dura l’inverno (Cultura Duemila Editrice, Ragusa 1994): un libro di una cinquantina di pagine, comprendente poco più di quaranta poesie in lingua raccolte intorno ad un punto nodale identificabile nella tendenza ben marcata a calare persuasivamente nella scansione agganci ai temi forniti dal reale nella quotidiana incidenza dell’esperienza nel mondo. Il fraseggio che ne deriva genera una scrittura che, contraddistinta com’è da virile dolenza, ha tutto il sapore di una germinazione interna, segnata da un’elegia contenutissima, a volte antilirica. Proprio nell’elegia e nello sforzo di drammatizzare una realtà che si offre dolorosa e martoriata, l’ansia del poeta trova la giusta misura non tanto nel denudare una realtà che continuamente si decompone anche nel momento in cui viene catturata, quanto nel raggelare, quasi epigraficamente, il flusso dei sentimenti che spesso nascono e si definiscono nel giro di un solo endecasillabo. Il risultato è una resa linguistica fortemente concentrata. Citiamo qualche esempio: Se piovendo l’acqua trova l’alba
(Entroterra); fra nubi e nubi arriva la rabbia
(Passate le palme); …abbandonato alle gelate / e alle danze malefiche dei venti
(Era giugno con giri di mulo); Il conto delle capre che non torna
(La lotta, la paura); Non conosco il volo di farfalla
(Volo di farfalla); E cadono le mosche ad una ad una
(Pina). Versi (ma altri simili se ne potrebbero citare) che si pongono già come spie di un procedimento volto al negativo, tutto proiettato alla ricerca di probabili raccordi smarriti nello iato che si è venuto a determinare tra l’ieri e l’oggi, tra il tempo perduto delle favole