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I segreti di Chicory Lane
I segreti di Chicory Lane
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I segreti di Chicory Lane

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About this ebook

Shelby Truman, scrittrice di grande successo, riceve una telefonata da parte dell’avvocato Crane: il suo amico d’infanzia ed ex fidanzato Eddie Newcott ha chiesto di vederla un’ultima volta prima di essere giustiziato per l’omicidio della moglie e del figlio che portava in grembo. Shelby accetta di incontrarlo, e nel corso del viaggio da Chicago al Texas ricorda il proprio passato, segnato dal rapporto difficile ma appassionato con l’affascinante e tormentato ragazzo della casa di fronte. Come ha fatto Eddie Newcott a diventare un assassino?
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateAug 8, 2018
ISBN9788863938142
I segreti di Chicory Lane

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    Book preview

    I segreti di Chicory Lane - Raymond Benson

    Una delle cose più spaventose e impegnative che un essere umano può fare appena sveglio la mattina – e con questo intendo dopo che si alza, fa pipì, indossa qualcosa di caldo, fa colazione e prende un caffè (l’ultima cosa è essenziale) – è sedersi al computer per iniziare a scrivere un nuovo romanzo.

    È una cosa che odio. In realtà no, permettetemi di riformulare la frase. Ciò che odio è cominciare un nuovo libro. Amo ogni altro aspetto riguardante il processo di scrittura ma ho sempre trovato difficile tuffarmi in quel pantano a base di abuso di caffeina, nevrosi da strapparsi i capelli e notti insonni, ben sapendo che per un paio di mesi quella sarà la mia vita, finché non prendo il ritmo e comincio ad avere dimestichezza con i personaggi e la trama. 

    È quello che sto tentando di fare quando sento il campanello al piano di sotto, seguito dal rumore di Billy che apre la porta. Voci… il postino. Do un’occhiata all’orologio digitale sulla scrivania. Sono già le undici? È un bene che il portalettere mi consegni la posta presto; conosco altre persone di Chicago che si lamentano perché i corrieri da loro non si presentano prima dell’ora di cena. Do per scontato che sarà Billy a portarla su. Al momento la cosa più importante per me è fissare doverosamente la pagina bianca sullo schermo e capire come cavolo iniziare il nuovo romanzo su Patricia, senza ricadere in «un’imitazione delle mie opere precedenti». Ecco cos’ha detto sulla Patricia degli ultimi tempi un genio che scrive per una di quelle riviste che recensiscono libri. Dopo quarantadue libri su Patricia Harlow e una manciata di romanzi indipendenti, un commento del genere mi infastidisce ancora. Avrò successo, ma diamine, sono pur sempre un essere umano.

    Prendo la critica alla lettera: voglio davvero iniziare il nuovo lavoro con qualcosa di completamente diverso da ciò che ho fatto in passato. In casa editrice c’è già un altro libro terminato in fase di pubblicazione. Quello che dovrei iniziare oggi sarà il successivo ma con ogni probabilità non uscirà prima di due anni. Le scadenze sono la cosa che mi motiva di più in questo lavoro assurdo. So che ce la farò. È da quando ho trent’anni che scrivo in media un libro ogni dieci, undici mesi e non ho nessuna intenzione di andare in pensione per il momento. Gli scrittori non ci vanno mai. Fintanto che riusciamo a pensare, a sognare e a buttare giù le riflessioni su un foglio, continuiamo a lavorare.

    Ma superati i sessant’anni, diventa più complicato.

    Do un’occhiata alla tazza di caffè ormai vuota e decido di aumentare la dose di caffeina. Procrastinare è proprio da me. Mmh, forse prima dovrei bermi un altro caffè, farmi una doccia, i capelli e le unghie e magari allenarmi un po’. Stravolgiamo la routine.

    «Shelby?»

    È Billy, al piano di sotto.

    «Sono di sopra!» grido.

    «Devo salire?»

    «È arrivata la posta? Me la porti, per cortesia? Ma prima metti su il caffè, okay?»

    Billy, il mio assistente personale, ha trentotto anni, è gay, single ed è un ottimo segretario. Una volta raggiunta la fama internazionale, mi sono accorta che non riuscivo a gestire tutto da sola. Le mail dei fan, gli aggiornamenti sui social media, la revisione e tutte quelle cose, oltre alla scrittura, che un autore deve sbrigare ma che possono richiedere mezze giornate o anche più. Pago Billy perché mi dia una mano part time con questi lavori, soprattutto con le sciocchezze da mettere sui social, che purtroppo sono davvero importanti al giorno d’oggi. Lui si occupa spesso di aggiornare il mio sito, è bravo con questa roba. Si assicura inoltre che tutto ciò che appare in altri siti su di me sia accurato e aggiornato, e gli ho affidato infine il compito di occuparsi del mio brand. Billy ha un piccolo spazio di lavoro al primo piano della mia casa a tre livelli. Il mio ufficio si trova in una delle tre stanze del piano superiore; per questo, a volte, c’è un gran vociare lungo le scale. Quando sono qui, preferisco chiudermi nel mio bozzolo e starmene in solitudine e in silenzio. A volte metto un po’ di musica, che non mi infastidisce.

    Qualche minuto dopo Billy arriva e bussa alla porta. 

    «È l’ufficio di Shelby Truman?» chiede.

    «Purtroppo… sì.»

    «Ecco la posta.» Me la consegna e la lascia sulla scrivania. «Sono quasi tutte bollette, pubblicità e questo… Ho firmato la ricevuta di una raccomandata spedita ieri da, be’, guarda tu.»

    L’indirizzo in cima alla busta indica che il mittente è il signor Robert Crane di Limite, Texas. Conosco questo nome. 

    L’avvocato di Eddie.

    Mi viene una fitta al petto per l’agitazione. È da un po’ che mi sforzo di non pensare a Eddie, ma questa settimana è impossibile. Il fatto è che non ho mai smesso di pensare a lui. Mi fa tornare indietro con la memoria a moltissimi anni fa, quando eravamo bambini e abitavamo a Limite.

    Billy rimane lì in piedi, in attesa che apra la lettera. Io lo guardo e lui si allontana trascinando i piedi. 

    «Oh, scusa, immagino voglia stare sola. Vado a prendere il caffè. Dovrebbe essere pronto tra un minuto.»

    «No, rimani. Aprila e fammi vedere cos’ha da dirmi il signor Crane.»

    Si aiuta con l’unghia per aprire con cura la busta e mi consegna il contenuto: un messaggio scritto sulla carta intestata dello studio legale, ufficiale e stringato. Mentre leggo mi trema la mano.

    «Maledizione» mormoro sospirando forte.

    «Cosa?» mi chiede Billy.

    «Tutti gli appelli sono stati respinti.»

    «Sarà giustiziato?»

    Annuisco. «Già, a meno che per miracolo la commissione per la grazia e la libertà condizionale o il governatore del Texas cambino idea.» Guardo il calendario sulla scrivania. «Entro quattro giorni.»

    «Oddio, sarai in Texas in quella data.»

    «E non è tutto.» Passo la lettera a Billy che la legge con gli occhi spalancati.

    Poi mi guarda. «Ci vai?»

    «Non lo so.» Riprendo la lettera e rileggo ciò che ha scritto il signor Crane.

    Eddie desidera che lei questa settimana lo passi a trovare. Sostiene che ha qualcosa di importante da riferirle. Ho inserito il suo nome nella lista dei visitatori e il direttore del carcere ha già autorizzato la visita. Le faccio notare che non si tratta di una procedura regolare, ma è stata fatta un’eccezione alla regola. Per cortesia, mi faccia sapere il prima possibile se riesce a venire. So che a Eddie farebbe piacere vederla. Contatti pure il mio ufficio. Nel frattempo, la chiamerò io.

    «Crane dice che ti chiamerà.»

    «Non lo ha ancora fatto.»

    Billy con un cenno del capo indica la segreteria telefonica posizionata su un tavolino vicino alla stampante, che solitamente è fuori dalla mia visuale, a meno che non la guardi di proposito. Ovviamente c’è il numero due che lampeggia sullo schermo. Mi trascino con la sedia verso il tavolino e schiaccio il tasto play. Il signor Crane ripete lo stesso messaggio che ha scritto nella lettera e lascia il suo numero di telefono. Due volte.

    «Mi sa che mi sono sfuggiti.» Mentre ritorno alla mia postazione sulla scrivania sospiro di nuovo. Ultimamente lo faccio di continuo. «Devo andare a Limite per la cerimonia di inaugurazione del parco che mi vogliono dedicare proprio il giorno della sua esecuzione.»

    «Lo so.»

    «Credo di poter fare una deviazione a Huntsville durante il tragitto.»

    «Ma è quello che vuoi?»

    «Non lo so, Billy. Perché non vai a prendere il caffè e mi ci fai riflettere un po’ su?»

    Lui accenna al documento bianco di Word sul monitor del computer. «Vedo che questa volta Patricia si trova in un bel guaio.»

    «Non girare il coltello nella piaga. Sono troppo preoccupata per decidere chi sarà il prossimo ad andare a letto con Patricia.» 

    Mentre pronuncio queste parole mi rendo conto che è la verità. Forse è questo il motivo per cui non riesco proprio a ingranare stamattina. Con la mente sono già tornata a Eddie. È da un po’ che penso a lui. 

    «Meglio che vada a prendere questo caffè…» Billy esce dalla stanza e mi lascia sola con i miei pensieri.

    Perché mai Eddie mi vorrà parlare? È da vent’anni che non ci sentiamo, molto tempo prima che lui commettesse il crimine. Quando ha ricevuto la condanna a morte, non mi ha permesso di andare a trovarlo e abbiamo perso i contatti. Mi ero rassegnata al fatto che non lo avrei più rivisto. La difesa mi aveva chiesto di assistere all’esecuzione e di andare a protestare fuori dalla prigione, considerata la mia notorietà. Ma tempo prima avevo deciso che non sarei andata, anche se mi avessero invitato a fare da testimone durante l’esecuzione. Dar loro dei soldi e permettergli di usare il mio nome e una mia dichiarazione è una cosa, un’altra è andare in Texas a mostrare il mio volto alle telecamere. Non è nei miei programmi avvicinarmi alla parte sudorientale dello Stato, ma presto sarò in viaggio verso la zona ovest, in quell’angolino in basso a destra del Panhandle. 

    Controllo di nuovo il calendario. Oggi è lunedì. L’inaugurazione del parco a Limite è in programma per venerdì, come l’esecuzione di Eddie. Mercoledì sera devo tenere un discorso in una biblioteca di Schaumburg, quindi la mia intenzione iniziale era di prendere l’aereo per il Texas giovedì. Non ci sono voli diretti da Chicago O’Hare per l’aeroporto di Limite; devo fare scalo a Dallas. Potrei annullare l’evento in biblioteca, ma non mi va.

    Sapete, stanno per dare il mio nome a un parco della mia città natale, il Shelby Truman Community Park. Giocavamo lì da piccoli io e gli altri bambini dell’isolato, perché si trovava proprio nella via parallela. Non ricordo se il parco avesse un nome a quei tempi. Era unico perché oltre alle classiche altalene, agli scivoli, alle strutture su cui arrampicarsi e al carosello, c’erano, assurdo a dirsi, un aeroplano della Seconda guerra mondiale e uno yacht. Ogni mezzo era sostenuto da supporti e aveva una scala e uno scivolo, di modo che i bambini potessero salirci e giocare. Non c’erano i sedili nel vano passeggeri ma si poteva comunque entrare e guardare fuori dai finestrini. Mi sedevo sempre nella cabina di pilotaggio e facevo finta di volare. La cabina della nave era più intima e i ragazzi più grandi ci andavano a pomiciare. Anche lì non c’erano sedili né ingranaggi. Dubito che correre in quei relitti fosse sicuro, ma erano pur sempre gli anni Sessanta. Ricordo di essermi sbucciata e graffiata diverse volte per qualche infido bordo tagliente.

    A un certo punto, quando ero ragazza, l’aereo e lo yacht furono rimossi. A quel tempo il parco era noto come l’East Limite Family Park. Ora le autorità vogliono rendere omaggio a una bambina nata lì che ha avuto successo, dando un nuovo nome al parco. Certo, ne sono lusingata, ma non muoio dalla voglia di tornare a Limite. Troppi ricordi spiacevoli. Dopotutto, la morte di un parente – di un fratello, in questo caso – sconvolge le dinamiche familiari. 

    Dopo l’estate del 1966, le cose cambiarono a casa mia. Mia mamma di certo non fu più la stessa. I miei genitori vivevano ancora a Limite quando nel ‘72 mi trasferii per andare al college, e tornavo a trovarli ogni volta che me la sentivo. Dopo la loro morte, pensai che non avrei più rivisto quelle distese pianeggianti e deserte né i pozzi petroliferi. Le rimpatriate delle superiori non mi sono mai interessate. Non ho altri parenti che vivono lì. Insomma, non avevo nessuna buona ragione per rimettere piede nel Texas occidentale, ma ora sono costretta a farlo. È il prezzo della fama e della fortuna. 

    Forse il vero motivo per cui non mi piace tornare a casa è la sensazione di malinconia – e paura – che mi assale ogni volta che accade. Nuvole nere di dolore e tristezza. Continuano a perseguitarmi anche adesso. Accaddero cose bruttissime in Chicory Lane, la via in cui abitavo da piccola. Credo sul serio che nell’estate del 1966 il Male – quello con la M maiuscola – abbia visitato il mio quartiere. A quanto ne so si intrufolò in almeno tre case e cominciò a distruggere vite e seminare miseria. Alla fine colpì moltissimi di noi. Triste a dirsi, ma credo che abbia provocato la maggior parte dei danni a Eddie Newcott, il ragazzo che abitava dall’altra parte della strada.

    2

    Ci sono molte cose da tenere in considerazione. Voglio davvero rivedere Eddie? Perché mi vuole parlare? Cos’avrà mai da dirmi? Crede forse che sia in debito con lui? Senz’altro tra me e Eddie esiste un legame unico. Un’amicizia che dura da una vita. Un tempo eravamo sempre insieme, come il sale e il pepe, una metafora calzante per descrivere il nostro rapporto, soprattutto quando eravamo ragazzini in Chicory Lane. Negli anni successivi, quando io e lui diventammo… be’, non saprei come spiegare… fu diverso. Fu un colpo di testa, credo.

    Dopo il nostro ultimo incontro a metà degli anni Novanta, ciascuno prese la propria strada e non ci parlammo più. Successe una decina di anni prima che lui commettesse il crimine. Se mi avesse contattata durante le traversie legali gli avrei risposto, tant’è vero che interpellai io stessa il suo avvocato – il famoso Robert Crane – per capire se Eddie volesse parlarmi. Ma la mia richiesta fu gentilmente respinta. Poi, durante la fase penale del processo, ancora una volta mi offrii di aiutarlo testimoniando in suo favore, nella speranza che non fosse condannato a morte. E ancora una volta Crane mi comunicò che la mia offerta era stata espressamente rifiutata da Eddie in persona.

    Eddie fu condannato alla pena di morte per omicidio premeditato. È l’accusa a cui il procuratore distrettuale aveva puntato e che riuscì a ottenere, perché è l’unica con la quale si può condannare a morte in Texas. La difesa aveva sollevato un polverone legale sostenendo che il crimine non si poteva definire premeditato perché era scaturito da una lite domestica, ma il pubblico ministero e il giudice non se l’erano bevuta. Eddie ebbe un’ultima speranza di salvarsi con l’ottenimento dell’infermità mentale, ma si arrese e si rifiutò di lottare per la causa. Naturalmente, il suo avvocato lo fece al posto suo. Eppure sembrava che Eddie volesse proprio morire. 

    Tutti sapevamo che era colpevole di aver ucciso la donna con cui viveva all’epoca e il figlio, che non era ancora nato. Purtroppo la giuria non credette alla dichiarazione della difesa, ossia che Eddie aveva commesso il delitto perché fuori di sé; quindi il verdetto non verté a suo favore. Le rivelazioni scioccanti sulla sua infanzia apparvero in diretta televisiva, e i dodici giurati le usarono contro l’accusato. Eddie evidentemente si rassegnò al suo destino e quando fu annunciato il verdetto, provocò la giuria di proposito. Si alzò in piedi, indicò i dodici giurati, uomini e donne, e, secondo ciò che riferirono i media, «li maledisse con una formula satanica».

    Era questo il vero motivo per cui Eddie aveva ricevuto la pena di morte. Era ateo e non lo nascondeva. La donna che aveva ucciso, Dora Walton, era atea come lui ed entrambi vivevano nella casa d’infanzia di Eddie, dove da anni redigevano e distribuivano una newsletter sul satanismo. Naturalmente i loro vicini non apprezzavano. Negli anni Ottanta, Eddie aveva già acquisito fama nazionale perché i vicini volevano a tutti i costi allontanarlo dal quartiere, mentre lui e sua madre rivendicavano il diritto di rimanere nella propria casa. L’omicidio di Dora Walton fu definito dai media un rito satanico. 

    La verità è che Eddie diede di matto.

    Quando fu arrestato, la stampa pompò a tal punto la notizia da convertirla in un affare internazionale e diede all’accusato un nomignolo che fece presa: Eddie il Cattivo. Il rito macabro del satanista. Sospetto afferma di essere il diavolo. Eddie il Cattivo oggi va a processo. Eddie il Cattivo dichiarato colpevole! I tabloid più salaci riportarono la notizia a chiare lettere con disgusto: Donna uccisa durante orgia mortale. Sacrificio umano! Omicidio alla messa nera. Sortilegio! Il culto del sesso satanico a Limite è scioccante.

    Al giorno d’oggi praticare sortilegi non può essere considerato un crimine a patto che lo si faccia in privato. Ovviamente Eddie passò il segno commettendo qualcosa di più grave. Uccise la sua fidanzata in modo talmente atroce che la giuria pensò che il colpevole fosse il diavolo in persona. E per questo non poteva trovare simpatie nella zona nota come Bible Belt. Nella testa di quei giovani conservatori del Texas occidentale che costituivano la giuria, lui non era altro che Eddie il Cattivo. Era meglio giustiziarlo.

    Una tragedia.

    Ho gli occhi fissi sulla lettera di Crane indecisa se chiamarlo in ufficio o meno. Crane, un brav’uomo che ha sempre fatto il possibile per Eddie, prese in carico il caso pro bono. 

    Perché Eddie vorrebbe rompere il silenzio a pochi giorni dalla data dell’esecuzione? Per scusarsi di non aver accettato il mio aiuto? Non ho bisogno di scuse, ma ammetto che una parte di me le vorrebbe. Credo che Eddie abbia rifiutato di comunicare con me durante il processo perché non voleva coinvolgermi in quella storia assurda; dopotutto, in quel periodo – i primi anni Duemila – la mia carriera di scrittrice di romanzi d’amore era stabile e ben consolidata. I media non avevano mai associato Eddie a me, non sapevano che da piccoli eravamo amici e che abitavamo nella stessa strada e comunque, se lo avessero saputo, non mi avrebbe infastidito e le vendite dei miei libri non sarebbero calate, penso.

    L’unica motivazione sensata è che Eddie voglia semplicemente vedermi prima di morire. È di sicuro questa la ragione. Dio mio, credo di avere un obbligo nei suoi confronti. Devo farlo. Devo andare a trovarlo. Altrimenti rimarrò con il rimorso. Ho già una certa età: non voglio passare gli anni preziosi che mi rimangono con il senso di colpa per avergli fatto un torto.

    Decido di andare da lui, quindi prendo il telefono e digito il numero dell’ufficio di Crane. Quando comunico alla receptionist chi sono, lei mi passa subito l’avvocato.

    «Pronto, signorina Truman?»

    «Pronto, sono io. Come sta, signor Crane?»

    «Bene, e lei? È passato qualche anno.»

    «Già. Io sto bene.»

    «Ho visto. Congratulazioni per il successo.»

    L’accento del Texas occidentale è molto pronunciato. Anch’io lo avevo, ma dopo aver vissuto per anni nel Midwest l’ho perso. Tuttavia, dopo qualche drink, tende a farsi risentire.

    «Grazie. Ho ricevuto la lettera. E i messaggi in segreteria. Mi scusi, avrei dovuto risponderle prima.»

    «Non c’è problema.»

    «Ho deciso che verrò, credo. Lei sa cos’ha da dirmi Eddie?»

    «Non ne ho idea. Eddie è sempre molto riservato. E dopo essere stato sbattuto in cella nel braccio della morte di Polunsky, è diventato ancora più introverso. Questo genere di reclusione fa sentire terribilmente… soli.»

    La notizia mi mette in agitazione. «In che stato mentale si trova?»

    «Non buono, temo. Sarò onesto con lei. Quel posto farebbe impazzire chiunque e lui ormai si trova lì da anni. Io e lei sappiamo bene che soffre di depressione e di ansia, e non mi è chiaro cosa faccia con le medicine. Non credo che le prenda tutte. Rifiuta qualsiasi aiuto medico o psichiatrico, lo ha sempre fatto. Vive spesso nel suo mondo – di proposito, aggiungerei – ma è in grado di comprendere e di interagire con il mondo reale quando vuole. La richiesta di vederla è sincera; questo glielo posso assicurare, signorina Truman.»

    «Dammi pure del tu e chiamami Shelby. Se vado a fargli visita cosa mi devo aspettare? Mi può toccare?»

    «No. Ai carcerati del braccio della morte non sono concesse visite di quel tipo. Potete parlarvi attraverso un pannello di plexiglass. Per telefono. E certamente potrete vedervi.»

    «E per quanto tempo?»

    «Di solito per due ore, ma dato che percorrerai più di quattrocento chilometri per vederlo, te ne accorderanno quattro. È il tempo massimo concesso, ma dubito che lui voglia parlare così a lungo. Come ho detto, di solito è riservato e introverso, e quando vado a visitarlo io rimane lucido per un po’, poi si perde in invettive surreali, come fanno a volte i senzatetto. Farfuglia. Hai presente?»

    «Credo di sì.»

    «Quando fa così dice cose senza senso. Comunque la visita può durare quanto desideri tu. Potrebbe anche durare appena cinque minuti, per scelta di Eddie. Con lui non si sa mai. Tutte le volte che sono andato a trovarlo, mi ascolta e mi riferisce cosa vuole che faccia in modo coerente

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