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Dystopia: Il destino dei mondi
Dystopia: Il destino dei mondi
Dystopia: Il destino dei mondi
Ebook461 pages7 hours

Dystopia: Il destino dei mondi

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About this ebook

Matthew Deuce sarebbe un ragazzo come tanti altri se non fosse per quelle strane voci che continuano a infestargli la mente. Suo padre Frank è il proprietario di un’importante ditta farmaceutica, la Sunrise, e lo ha sempre trattato come un pazzo. Matthew, però, ha deciso di ribellarsi e così Frank sperimenta su di lui l’installazione di una protesi robotica militare. Poco prima di scontrarsi con suo padre, Matthew viene catapultato in un’altra dimensione, un universo alternativo ma molto simile al suo che lo metterà di fronte ad altre versioni di se stesso e che gli permetterà di imparare a controllare uno straordinario potere che non sapeva nemmeno di possedere. Il viaggio di Matthew non servirà soltanto per impedire a Frank di estendere il proprio dominio su tutto l’universo ma anche come tappa essenziale per scoprire l’amore e per raggiungere quindi l’età adulta.
LanguageItaliano
PublisherBookRoad
Release dateJan 23, 2020
ISBN9788833220727
Dystopia: Il destino dei mondi

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    Dystopia - Matteo Bagnus

    1

    Quanti possono dire di combattere il proprio padre, soprattutto quando lui è a capo di una delle ditte farmaceutiche più famose e in crescita del mondo? Già, la mia vita a soli ventitré anni è stata un susseguirsi di avventure. Anzi no, diciamoci la verità e chiamiamole con il giusto nome: sono state più che altro disavventure. Sì, perché è stato un continuo di perdite, nascondigli, corse notturne e chi più ne ha più ne metta. Ma bando alle ciance, direi di presentarmi.

    Il mio nome è Matthew Deuce. Sono piuttosto alto e muscoloso, poiché faccio molta palestra per distrarmi dalla noia quotidiana e per tenermi allenato. Un vero eroe dopotutto deve sempre essere in forma, no? Essendo così massiccio e nerboruto, a volte posso risultare un po’ impacciato. Porto lunghi capelli biondi, diciamo fin sotto le orecchie, dai.

    La peculiarità del mio aspetto sono gli occhi. Hanno un colore particolare: piuttosto che essere azzurri, paiono di ghiaccio, quasi bianchi. Come se indossassi delle lenti colorate, le stesse che si usano ad Halloween.

    Non fatevi ingannare dall’aspetto, però. Anche se sembro un carro armato, sono buono come il pane. Non farei del male a nessuno, a meno che non sia minacciato o qualcuno faccia del male alle persone a me care.

    Nel bel mezzo dei miei pensieri, qualcuno bussò alla porta della mia stanza.

    «Chi è?» chiesi, alzandomi con molta fatica dal letto.

    «Chi vuoi che sia?» rispose la voce oltre la porta.

    Effettivamente era una domanda stupida perché in quella casa di solito eravamo in tre; in realtà due, poiché il vero proprietario passava la maggior parte del tempo al lavoro.

    «Dimmi, Mary. Hai bisogno?» chiesi.

    Lei è una mia coetanea. È una bellissima ragazza alta, snella, dai lunghi capelli lisci nero corvino. Ha grandi occhi azzurri, come grossi specchi che riflettono il mare e tutta la pace che ci porta. Posso anche rinunciare al narcisismo e dire che sono migliori dei miei (sì, sono una persona che quando deve ammette la sconfitta) e, se non si fosse capito, ho una forte cotta per lei.

    Non ho ancora capito se ricambi o no e non ho alcuna intenzione di domandarglielo, poiché, in realtà, sono davvero molto timido. Forse un po’ troppo per dichiararmi. Come se non bastasse, patirei molto se la sua risposta fosse un no, soprattutto ora che vivo sotto il loro tetto. Sempre vivace e allegra, la considero la mia salvezza. In più, oggi mi sono accorto di come fosse vestita decisamente bene, con una maglietta corta nera, su cui è stampato il logo della mia band preferita, e dei Leggins neri. Forse sono un pochino di parte, ma per me starebbe bene anche con un impermeabile giallo a pallini rossi.

    «Sì, siamo a corto di acqua e caffè. E sai come diventa mio padre quando gli manca la sua dose di caffeina in corpo dopo una giornata in laboratorio.»

    Mi sono dimenticato di presentarvi anche il mio salvatore numero due: il professor Steve Allison.

    Steve è un ingegnere meccanico, padre di Mary e colui che mi ha sottratto dalle grinfie della famosissima Sunrise. Steve è un uomo sulla cinquantina, che passa la maggior parte del tempo in un laboratorio a una ventina di miglia da casa sua. È la stessa persona che ha migliorato il mio braccio robotico, togliendo il rilevatore di posizione. È un uomo robusto, con una barba disordinata e capelli ricci lunghi fino al collo. Inoltre, è anche molto divertente. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. La sua ironia nasconde anche un’intelligenza smisurata su qualsiasi argomento. Non riuscirò mai a ringraziarli abbastanza per tutto quello che hanno fatto e che, tutt’ora, stanno facendo per me.

    «Ehi, mi senti? Ti sei perso di nuovo nei tuoi viaggi mentali?» mi chiese, sventolandomi una mano davanti agli occhi. Sussultai quando mi accorsi di essere rimasto imbambolato a fissarla senza darle una risposta.

    «Scusami, Mary, ero sovrappensiero. Hai detto qualcosa?»

    Mi sentivo un completo idiota a non aver ascoltato mezza parola. Lei invece rise.

    «Ti stavo dicendo che siamo senza acqua e senza caffè e, dato che io devo studiare per un esame, riusciresti a passare a prenderli tu? Per favore.»

    «Certo, vado io. Almeno ho una scusa per farmi due passi e per svegliarmi meglio. Dammi solo il tempo di prepararmi» dissi.

    «Perfetto» rispose, e poco prima di uscire: «Matthew. Grazie per l’aiuto che ci dai» continuò. Mi sorrise dopo quella frase, e molto probabilmente le farfalle nello stomaco si erano trasformate in falene. Avrei voluto rispondere in tanti modi, uno di questi sarebbe stato: «No, baby, grazie a te e a tuo padre, che mi date vitto e alloggio sebbene sia ricercato dai sicari mandati da mio padre». Ma tutto quello che mi uscì dalla bocca fu un semplice e scarno: «Prego, cerco di aiutare come posso».

    Dopo che se n’era andata, mi alzai e mi preparai per uscire. Effettivamente senza caffè è brutto fare colazione, così mi sono dovuto accontentare di un paio di fette biscottate con marmellata. Come avrei voluto sentire l’effetto della caffeina in corpo. Magari sarei stato più scattante. Mi lavai la faccia e l’acqua gelida mi diede modo di rimuovere gli ultimi residui di sonno dagli occhi. Senza perdere altro tempo, mi sono subito diretto al supermercato più vicino. Era a due chilometri di distanza e a piedi ci avrei messo un bel po’ di tempo. Poco male, fortunatamente avevo messo sul telefono nuove canzoni. Misi le cuffie e mi incamminai. La giornata era abbastanza cupa e fredda: molto probabilmente, avrebbe iniziato a piovere a breve. Speravo soltanto che non cominciasse quando fossi stato a metà strada, dato che avevo lasciato l’ombrello a casa. Ma la cosa positiva è che questo clima, la musica e la passeggiata solitaria mi lasciavano molto tempo per pensare. I miei ragionamenti finirono su un argomento particolare. Sapete cosa dicono delle ferite o delle cicatrici? Che quando il meteo cambia, si è soggetti a meteoropatia e ciò può causare dolore. In poche parole la cicatrice dell’amputazione del mio braccio cominciò a pulsare e questo mi fece capire che da lì a breve mi sarei potuto fare una bella doccia. Controllai l’ora. Erano solamente le nove e mezza, abbastanza presto.

    Sapendo che Mary doveva studiare e che Steve non sarebbe stato a casa prima delle diciassette, decisi di prendermela comoda e procedere con calma. Mi sedetti su di una panchina in un parco lì vicino.

    I pensieri cominciarono ad affluirmi in testa e nel frattempo posai lo sguardo sulle piante. Il clima autunnale è il migliore in assoluto.

    L’autunno è il periodo dei colori caldi e di quella foschia che al mattino rende tutto più malinconico. So che sembra triste, ma adoro quando è così, dato che solitamente sono uno che si perde nei propri viaggi mentali e il brutto tempo mi aiuta a ricordare cosa è giusto e cosa è sbagliato nella mia vita.

    Mentre guardavo le foglie cadute a terra, cominciai a sentire un po’ di dolore al braccio e alla cicatrice. Certo, ero abituato a questa sensazione. Si chiama «sindrome dell’arto fantasma». È una sensazione che si prova dopo l’amputazione: è come se io sentissi ancora il mio arto, pur sapendo che ormai non fa parte del mio corpo da qualche tempo.

    Osservai la protesi, che a vista sembrava un semplice braccio robotico fatto ad hoc, ma al suo interno nascondeva parecchie sorprese di ingegneria e meccanica moderna. Tutto questo, però, non mi rallegrava.

    La mia mente tornò al giorno in cui avevo perso tutto. Non solo un braccio. Ma molto, molto di più.

    Divenni cupo e scavai ancora più a fondo nei miei ricordi.

    2

    Credo che avere una famiglia normale sia il sogno di tutti i ragazzi. A me non è andata così bene. Mio padre si chiama Frank Deuce.

    È diventato l’uomo del millennio da quando ha trovato un modo per collegare le protesi agli impulsi neurali del cervello, facendo così muovere un arto solamente con il pensiero. Suona come qualcosa di magico, ma per me è stato solamente un incubo. Molti, però, erano entusiasti di questa novità. Dava alle persone qualche piccola speranza di vivere normalmente, così il povero malcapitato di turno crede di riavere il proprio braccio o la propria gamba. Ma queste cose non funzionano così. Non si può più sentire il caldo o il freddo, il liscio o il ruvido, ed è una cosa che con il passare del tempo potrebbe darti alla testa. Ora è tempo di ripercorrere i momenti salienti della mia vita, tanto per rimanere in tema di lugubre giornata autunnale.

    Avere un padre famoso non vuole sempre dire rose e fiori in casa. Anzi, tutto il contrario. Prima di diventare quello che è ora, era un uomo violento, sempre un fascio di nervi, e a volte anche con problemi d’alcol. Mia madre, invece, era una gran donna. Sia esteticamente che caratterialmente, alta, snella e bionda. I suoi occhi verdi prendevano una sfumatura azzurrognola e il suo viso aveva tratti delicati che la rendevano più gentile di quanto il suo aspetto potesse far intendere. La sua pazienza e la sopportazione verso quell’uomo erano ammirevoli.

    Tutte le volte che lui tornava a casa imbestialito dallo stress o da chissà cosa, se la prendeva con me e mia madre faceva tutto il possibile per difendermi e farlo calmare. Lui voleva disperatamente diventare qualcuno di importante nella vita, fare carriera, avere tanti soldi e potere illimitato, ma quando non riusciva a ottenere questo, si sfogava su un bambino e una donna. A volte utilizzava parole terribili per definirmi.

    «Tieni lontano quello psicopatico da me» urlava a mia madre. «Le voci che senti devono farti capire che devi starmi alla larga» sbraitava con l’alito che sapeva di rum.

    Forse dovrei spiegare anche questo passaggio.

    Fin da quando ho memoria, sento delle voci nella mia testa. Non credevo si trattasse di pazzia o qualche problema del genere. Sentivo come un eco di parole indecifrabili. Mi dicevano talmente tante cose insieme che non riuscivo a capire e molte volte mi ritrovavo in un tornado di confusione. Di psicologi ne abbiamo girati così tanti che ormai potrei avere una tessera fedeltà con annessa seduta gratis per almeno un mese. Avevamo pensato che potesse essere un problema neurologico, ma dai vari esami al cervello non risultava nulla di anomalo. Non sapevo più cosa pensare, non capivo cosa non andasse in me.

    Mi risvegliai dal mio viaggio mentale attraverso i ricordi quando un signore mi passò molto vicino salutandomi. Aveva un aspetto familiare, come se l’avessi già visto da qualche parte. L’unica cosa che lo distingueva era il suo abbigliamento: indossava un lungo cappotto beige e in testa una coppola. Ricambiai il saluto, molto titubante dato che mi si era bloccato per metà in gola. L’atmosfera era molto strana e tirava un’aria che non mi piaceva per niente.

    Calma, Matthew, respira e inspira lentamente. L’agorafobia ha cominciato a colpire di nuovo, dopo tutto quello che è successo. Giacché abbiamo parlato di fobie, vi dirò anche cos’è l’agorafobia. È l’esatto contrario della claustrofobia. Avete presente la paura degli spazi angusti? Bene, io ho il panico dei grandi spazi aperti. Una città enorme per me è come una lenta tortura che porta all’esasperazione. Cominciai a sudare freddo, sentendomi a disagio. Mi pareva di essere osservato. Probabilmente era solo la mia fervida immaginazione. All’improvviso, udii nuovamente queste voci, in modo crescente e sempre più forti, come se aumentassero di tono a ogni ripetizione di frase. Cercavo da tempo di capire come fermarle o almeno come capirle, ma senza risultato. Più le sentivo, più in qualche modo cercavano di farmi tornare in mente un giorno specifico, la serata in cui finalmente avevo vendicato i soprusi su mia madre. Mi sentivo sempre più arrabbiato, perché l’affiorare dei ricordi mi logorava dentro. Ma una rabbia che non è come tutte le altre. Sentivo come un potere assopito dentro di me che stava cercando qualsiasi modo di venire fuori scavando nelle mie viscere. Erano passati quindici anni da quando mio padre aveva cominciato ad attaccare, in modo anche violento e aggressivo, me e mia madre. In quel periodo mi allenavo duramente seguendo corsi di autodifesa, iscrivendomi in palestra, facendo arti marziali. Insomma, un po’ di tutto, e ne era valsa la pena, dato che ora potevo finalmente difendere la donna che mi aveva sempre aiutato.

    Quel giorno ero uscito dalla palestra abbastanza tardi; era una serata di inverno e faceva piuttosto freddo. Avevo di nuovo quella sensazione per cui avvertivo che qualcosa non andava. L’aria si era fatta pesante e avevo un campanello d’allarme fisso che mi risuonava in testa. Per questo mi ero diretto a grandi passi alla fermata dell’autobus. Ci volevano circa venti minuti per arrivare a casa, così avevo avuto il tempo di calmarmi un attimo e cercare di riordinare i pensieri. Sul pullman mi ero immerso con la testa in un mondo che mi ero creato io. Adoravo farlo quando ero in viaggio, dato che era un modo per far passare il tempo e immaginarmi una vita che non sarebbe mai stata. Mi figuravo di essere in grandi foreste sconfinate, sempre verdi e piene di vita. Mi immaginavo parte di uno di quei popoli celtici che festeggiava di notte intorno a un fuoco, intonando canzoni destinate ai protettori e alle divinità della foresta stessa. A volte fingevo di vivere nel medioevo, all’interno di un castello di cui ero il re. Difendevo gli onesti e i giusti mentre i malvagi venivano puniti senza pietà. L’idea di un paesaggio rurale o antico mi metteva sempre di buon umore. Il mio mondo era svanito quando il pullman si era fermato proprio davanti a casa mia. Ero sceso dal mezzo e, non appena varcata la soglia del giardino, avevo cominciato a sentirmi nuovamente strano, quasi inquieto. Le voci si sentivano sempre più forti e assillanti, da far scoppiare la testa. La potenza di quelle litanie mi aveva fatto perdere l’equilibrio e mi ero ritrovato a gattonare sull’erba, incapace di raggiungere la porta di casa. Sembrava tanto distante, sebbene fosse a pochi passi da me. Un malessere fisico mi aveva investito in pieno, provocandomi nausea, sudori freddi e un tremito incontrollabile. Era passato qualche attimo, ma quando ero riuscito a rimettermi in piedi e a silenziare il concerto che avevo in testa, mi ero reso conto che la porta di casa era socchiusa e da dentro arrivava un flebile suono, che non riuscivo a capire. Una sola parola avevo esclamato prima di alzarmi e correre in casa: «Mamma!».

    Ero corso dentro aprendo la porta con una spallata, temevo il peggio. Quel che avrei ricordato successivamente sarebbe stato di essermi diretto subito in sala, dove avevo visto una scena terrificante. Mio padre con gli occhi fuori dalle orbite, completamente perso ormai nel suo mondo e con una mazza da baseball in mano. La stessa mazza che usava con me quando andavamo a giocare al parco.

    Mia madre era stracolma di lividi dalla testa ai piedi, le sanguinava il naso ed era in preda a una crisi di pianto.

    «Allontanati subito da lei!» avevo gridato con tutto il fiato che avevo in corpo. I suoi occhi si erano posati su di me. Ci avevano messo un attimo prima di mettermi a fuoco, ma alla fine l’avevano fatto.

    «Tu!» era l’unica cosa che gli era uscita dalla bocca, e l’aveva detto con un tono colmo di odio, disprezzo, ma soprattutto pazzia. «Questa situazione è tutta colpa tua» aveva concluso indicandomi con la mano tremante.

    «Ti ho detto di allontanarti subito da lei, o sarà peggio per te!»

    Aveva riso di gusto dopo questa mia risposta: «Pensi di intimorirmi? Voi non siete che una distrazione per me. Il mio mondo è stato sempre il lavoro e voi non fate altro che mettervi in mezzo. Tutte le volte che metto piede in questa casa mi sento come in una gabbia. Intrappolato in una normale famiglia. Ma le cose ora cambieranno».

    «Frank… ti prego» aveva piagnucolato mia madre, che era ancora stesa sul pavimento. «Possiamo parlarne, cercare di capire cosa non va e risolvere tutto.»

    «Risolvere tutto?» le aveva urlato contro mio padre. «Non hai ancora capito? Io sistemerò tutto alla mia maniera. In questo preciso istante, questa bellissima e robustissima mazza da baseball farà al caso mio. Sapete che è abbastanza forte da rompere qualche osso?»

    Le cose si erano fatte chiare. Avevo capito cosa volesse fare mio padre e non potevo permetterlo. Ma a ogni minimo movimento avrei potuto innescare una reazione che non avrebbe portato a nulla di buono. Le voci nella testa si erano rimesse a urlarmi contro e per qualche strano motivo riuscivo a capire cosa mi stessero dicendo. Continuavano a ripetere: «Deve pagarla».

    In quel momento era successo qualcosa che non riesco ancora a spiegarmi. Non so come dirlo correttamente, ma ero caduto in una visione. Avevo visto me stesso, in una stanza completamente scura e illuminata solo da un minuscolo cono di luce al centro, incatenato a qualche muro invisibile con legami di un materiale mai visto. Le manette con venature d’oro mi bloccavano i polsi e, a ogni minimo tentativo di movimento, si illuminavano e diventavano sempre più resistenti, quasi a restringersi per evitare una fuga; è strano da spiegare perché avevo la sensazione di essere lì in piedi a guardarmi. Mi ero avvicinato alla mia controparte; credevo di essere diventato completamente pazzo, ma sapevo che c’era qualcosa che non andava. Quando lui aveva tirato su la testa, avevo notato un particolare molto distinto. Gli occhi erano di diverso colore, uno rosso sangue e l’altro azzurro come il ghiaccio. Mi fissavano in modo intenso, come se fossero un misto di sgomento, dolore e curiosità. Provava a muovere la bocca e ad articolare delle parole ma non era uscito nessun suono.

    La vista mi si era appannata in modo costante fino a quando mi ero trovato in un vortice di oscurità che mi aveva avvolto sempre di più. Mi sentivo mancare il fiato, e in quel momento le parole che avevo sentito mi avevano colpito in pieno. Ora la parola era una sola, chiara e ben distinta: «Liberami».

    Da lì in poi le cose erano diventate sempre più strane. Ero piombato di nuovo nella mia stanza, ogni singolo muscolo del mio corpo si era teso, l’elettricità statica mi aveva fatto rizzare ogni pelo in corpo ed ero stato pervaso da un senso di potere e furia incontrollabile. I riflessi erano diventati felini e l’avevo capito quando mio padre aveva provato a colpirmi con la mazza da baseball. In quel colpo aveva sicuramente messo tutta la rabbia e il rancore possibili, ma per qualche strano motivo era sembrato andare al rallentatore. Avevo parato il suo attacco come se niente fosse e credo che entrambi fossimo rimasti sbigottiti dalla cosa. Provava a liberare la mazza, ma la mia presa salda lo aveva bloccato del tutto. Ero sempre più furioso, una rabbia primordiale mi stava completamente accecando. Non mi ero accorto nemmeno che stavo stringendo sempre più forte la mazza fino a quando non avevo sentito i primi cedimenti del legno. In men che non si dica, con la sola forza della mano, avevo spaccato a metà quella che una volta era stata la mia unica occasione di divertimento con quello che tempo prima possedeva l’appellativo di «papà». La rabbia sembrava non placarsi, anzi, continuava a crescere. Sentivo come una pressione che dallo stomaco risaliva per tutto il corpo, fino ad arrivare al cervello. Avevo osservato la punta cadere a terra e questo mi aveva portato un leggero svantaggio, sicché mio padre si era ripreso subito. Aveva provato a colpirmi con un montante ma l’avevo scansato facilmente. Non si sarebbe arreso così presto, dato che aveva provato anche con un diretto allo stomaco. Glielo avevo parato molto facilmente poiché vedevo il mondo come se stesse andando al rallentatore. Mentre lui era ancora bloccato nella mia presa, con la mano destra gli avevo tirato un diretto in faccia. Il colpo aveva rimbombato in tutta la casa e mio padre era stato scagliato a tutta velocità contro il muro della sala. Anzi, addirittura lo aveva distrutto ed era caduto in cucina, venendo sepolto tra le macerie. In quel momento mi sembrava di vedere un film. Potevo vedere la mia espressione incredula per quello che era appena accaduto, il volto spaventato e traumatizzato di mia madre e il corpo esanime di mio padre. Quando ero tornato in me, ero riuscito a mettere a fuoco la situazione. Non mi importava niente di mio padre, per me non era più nulla. Mi ero chinato su mia madre: aveva il volto contorto in una smorfia di dolore e confusione perché mai si sarebbe aspettata che l’uomo che aveva sposato potesse diventare un simile mostro, così come il figlio, che sembrava essere stato posseduto da un demone.

    «Mamma, stai bene?» le avevo chiesto preoccupato.

    «Lui… lui non…» Non riusciva a mettere in ordine i pensieri, la capivo, ma per qualche strana ragione io ero abbastanza lucido.

    «Dobbiamo andarcene. Non permetterò che ti faccia ancora del male. Abbiamo sopportato troppo a lungo.»

    Avevo temuto non riuscisse nemmeno a trovare la forza di alzarsi, ma per fortuna lo aveva fatto.

    «Sì, dobbiamo andare via, qui non è sicuro. Chiamerò qualche amica che…»

    «No» l’avevo interrotta «non dobbiamo far sapere a nessuno dove andiamo. Mamma, ti prego, va’ a prendere le tue cose e scappiamo finché possiamo.»

    «Sì, andiamo… ma, Matthew…» Si era girata, fissandomi pensierosa. «Come hai fatto a fare questo?» aveva chiesto, indicando il muro distrutto.

    «Io non lo so, ma non è questo il momento di pensarci. Andiamocene» avevo detto riluttante, ed ero corso in camera a recuperare le mie cose. Avevo preso lo zaino che era sulla sedia e messo dentro alcuni vestiti, il cellulare e un po’ di soldi che tenevo da parte. Non sapevamo bene quale sarebbe stata la nostra destinazione, ma sapevamo per certo che quella non era più casa nostra. Avevamo adagiato tutto quanto in macchina ed eravamo partiti, pronti a ricominciare la nostra vita. Avevo dato una rapida occhiata allo specchietto, dove per l’ultima volta avevo visto quella che era stata per me la mia dimora, nonché prigione.

    Erano passati diversi giorni e noi eravamo ancora in fuga. Avevamo percorso diverse miglia in macchina. Di giorno continuavo a guidare, fermandomi soltanto quando ero veramente distrutto o quando era necessario. Mia madre aveva voluto prendere il mio posto, ma tutte le volte avevo rifiutato: aveva bisogno di riposarsi, sia fisicamente che mentalmente. Di notte, ci fermavamo in alcuni Bed & Breakfast oppure in qualche stazione per fare benzina e per mettere qualcosa sotto i denti. Era una serata come tante di quel periodo. Ci eravamo seduti a un tavolo e avevamo ordinato da mangiare. Io avevo preso un’insalata mista e mia madre una bistecca con contorno di patatine.

    Quando i nostri piatti erano arrivati, mi aveva guardato con fare divertito e mi aveva detto: «Sai, dovresti smettere con questa storia di essere vegetariano. Guarda che cosa ti perdi» e aveva indicato il suo piatto.

    «A me non dispiace esserlo, ho i miei ideali, dopotutto» le avevo risposto, facendo finta di essere infastidito.

    «Lo so, lo so. Dico solo che dovresti mettere più energia in corpo dopo quello che stai passando, non credi?»

    Effettivamente mi sentivo piuttosto stanco, ma mi sarei riposato solo quando avrei avuto la certezza che mia madre fosse al sicuro. Non so come mai, ma più aumentavano le miglia, più sentivo crescere un forte senso di disagio.

    «Matthew!» Mi ero girato di scatto verso di lei dopo che mi aveva chiamato. «Vedo che hai sempre il vizio di fissare il vuoto quando hai qualcosa in testa.»

    «Hai ragione, scusami. Mi capita spesso di perdermi nei miei pensieri» avevo detto con tono mortificato.

    «Lo so, tesoro. Ti conosco bene. O almeno credo…»

    Mi aveva spiazzato quella sua frase, non riuscivo a capire cosa intendesse.

    «Che vuoi dire, mamma?»

    «Sai, sono passati otto giorni ma ancora non abbiamo aperto questo discorso, e so che potrebbe fare male a tutti e due.»

    «Non devi farlo per forza, se non vuoi.»

    «Ma dobbiamo farlo, Matthew. Dobbiamo, anzi, voglio farti sapere tutto quanto. Ma anche tu devi dirmi qualcosa» aveva detto guardandomi negli occhi. Sapevo benissimo a cosa si riferisse, solo che nemmeno io avevo spiegazioni per ciò che era accaduto.

    «Tuo padre Frank era ossessionato dal suo lavoro. Ricevette un ultimatum per quanto riguardava una relazione sulle protesi» aveva detto con un tono malinconico. «Ogni giorno era un inferno per me. Tornava a casa ubriaco, blaterando di controllo della mente utilizzando queste protesi. Nessuno l’avrebbe scoperto, avrebbe dominato il mondo e scemenze del genere. Temevo già da tempo che stesse andando fuori di testa. Non ti voglio nascondere nulla, Matthew. Mi voleva fare del male in preda ai suoi scatti di rabbia. Sapeva che avrebbe perso il lavoro e sfogava tutte le sue frustrazioni su di me. Ma non avevo il coraggio di lasciarlo. Temevo che potesse cercarci e farci del male, e…»

    «Mamma…»

    «Non potevo dirtelo, Matthew, scusami. Stavo facendo di tutto per proteggerti» aveva detto, guardandomi negli occhi. Le avevo preso una mano: «Tu hai sopportato fin troppo, non te lo meritavi». Aveva appoggiato l’altra mano sulla mia. «Lui era ossessionato da te.» Questa rivelazione mi aveva fatto vacillare e probabilmente fare una faccia abbastanza stranita, dato che mia madre l’aveva notata subito.

    «Cosa vuol dire?»

    «Lui pensava che fossi la causa dei suoi fallimenti. Pensava che i tuoi problemi potessero limitarlo in qualche modo, che per colpa tua stesse riducendo a un colabrodo la sua vita. Si immaginava uno scandalo mondiale. Ti dava la colpa per tutto. Ma, Matthew, io so che tu sei normale. Non crucciarti più se ti senti diverso, perché non lo sei. E per quanto riguarda quell’uomo, dimenticalo.»

    La notizia che mi aveva dato mi aveva lasciato l’amaro in bocca: sapevo di non essere mai stato apprezzato da mio padre, almeno negli ultimi anni. Credo che avere dei dubbi sui sentimenti che gli altri provano per te sia decisamente brutto, ma avere queste certezze, è un tuffo al cuore. Mi serviva una boccata d’aria.

    «Vado un attimo fuori, torno subito.» Senza attendere risposte, mi ero alzato ed ero uscito.

    Mi stavo arrabbiando di nuovo. Il mio cervello aveva assimilato troppe brutte notizie e avevo sentito la stessa furia che avevo provato giorni prima, contro mio padre. Avevo aperto la porta e respirato un po’ di aria fresca. Avevo notato cosa si poteva vedere intorno a me. Il paesaggio era abbastanza scarno, una stazione di servizio in una strada poco trafficata. Il cielo era poco visibile a causa dell’inquinamento luminoso e la cosa mi dava parecchio fastidio. Ho sempre adorato, anche da piccolo, guardare le stelle e immergermi in quei piccoli puntini distanti anni luce. Avevo trovato due passioni che mi donavano sempre gioia e tranquillità: le stelle e le foreste. Il blu del cielo e il verde degli alberi che si univano in un abbraccio di colori, sensazioni ed emozioni. I ricordi di quando io e i miei genitori ce ne andavamo in campeggio. Mio padre mi insegnava come orientarsi attraverso l’uso dell’astronomia. Alcuni dei rarissimi ricordi positivi che abbia mai avuto di quell’uomo.

    Cosa abbiamo fatto della nostra vita? avevo pensato amaramente. Eppure, un tempo io e Frank eravamo stati felici e innamorati. Ma da quando si era messo in testa quelle scemenze sul controllo mentale e sulla conquista del mondo, tutto era andato in declino. Il nostro rapporto, il matrimonio, tutto. L’unica felicità che mi rimaneva era mio figlio. Nascondeva qualcosa che ancora non si poteva sapere né capire. Già da piccolo aveva mostrato sintomi strani. Diceva di sentire qualcuno parlare nella sua testa. Frank aveva temuto che fosse pazzo e che questo potesse causare uno scandalo. Un capo di un’azienda farmaceutica con il figlio pazzoide. Che uomo ripugnante.

    Avevo capito troppo tardi chi fosse veramente l’uomo che avevo sposato.

    Matthew mi ha portato via da quell’inferno, ma il modo in cui lo ha fatto mi ha lasciata sbigottita. Tutto era successo così velocemente, quasi fosse stato un potere sovrannaturale, ma ora si era ritrovato in quella situazione a causa mia, perché non avevo trovato il coraggio di andarmene e lasciare quell’uomo nella sua disperazione. Speriamo solamente di riuscire a cavarcela senza problemi.

    Avevo sospirato e fissato il piatto ancora mezzo pieno di mio figlio.

    Mi ero ripreso da quella mia breve riflessione ed ero tornato dentro al ristorante. Mia madre stava finendo il suo piatto e io mi ero versato un bicchiere d’acqua. Quando avevo alzato gli occhi, avevo visto mia madre pietrificata che osservava un punto alle mie spalle. Mi ero girato e avevo capito il motivo. Al notiziario c’era mio padre, intervistato da una televisione locale.

    «Aiutatemi, per favore» diceva «aiutatemi a trovare mia moglie. L’ultima volta che l’ho vista, era qui con me. Qualcuno ci ha aggredito e dopo non l’ho più vista. Hanno preso poche cose e ho paura che possano averla portata via.»

    Quanto odiavo il suo recitare quella finta tristezza. Quanto avrei voluto tirargli un altro bel gancio sui suoi trentadue denti perfettamente bianchi.

    «Questa è la storia straziante di Frank Deuce. Un uomo come tanti altri, aggredito nella propria abitazione» aveva detto l’inviata. «Lei sa chi possa aver fatto questo?»

    Dopo quella domanda, avevo visto negli occhi di mio padre voglia di vendetta e rancore.

    Con la sua risposta, avevo capito che eravamo comunque in pericolo.

    «No, non posso avere la certezza. Ma quando è successo questo, anche mio figlio è sparito. Ha problemi, è pazzo e ha bisogno di cure e di aiuto. Temo che abbia avuto uno dei suoi violenti scatti d’ira e che possa aver…» aveva fatto una pausa drammatica «… fatto qualcosa di molto più grave.»

    Poi la giornalista, con una finta espressione triste, aveva ripreso a parlare: «E questa è la storia di un uomo distrutto. Se qualcuno avesse qualsiasi informazione sulla donna e sul ragazzo scomparsi, è pregato di contattare il numero in sovrimpressione. Lasciamo anche la foto delle due persone scomparse per darvi qualche informazione in più». Non avevo potuto credere a quello che avevo sentito. Era riuscito nell’intento di far cadere tutte le colpe su di me. Ero furioso, stavolta non riuscivo a controllarmi. Il sangue mi ribolliva nelle vene, mi tremavano le mani e non riuscivo a formulare pensieri logici.

    «Matthew, dobbiamo andarcene.» La gente avrebbe potuto riconoscerci dalle foto. Avevo dato una rapida occhiata al locale ma, a quanto pareva, le poche persone sedute erano interessate a tutt’altro. Un forte trambusto aveva interrotto la mia analisi dei clienti e dalla porta, improvvisamente, erano sbucati cinque uomini. Avete presente quando vedete qualcuno che sembra essere appena uscito dalla scena di un film? Ecco, quegli uomini erano esattamente così. Grossi e con uno sguardo minaccioso. Al primo impatto, ero stato sicuro che volessero causare dei problemi e il mio istinto (quelle poche volte che mi aiuta veramente) aveva avuto ragione. Io e mia madre ce ne stavamo in disparte e abbastanza distanti dal bancone, ma le loro voci avevano rimbombato fino a noi.

    «Credo proprio che ci servano delle birre» aveva detto quello che presumibilmente era il loro capogruppo.

    Il responsabile, volendo evitare guai, aveva assecondato i loro desideri. Come biasimarlo? Quando tutte le birre erano state servite, avevano urlato di felicità, o più che altro ruggito all’unisono. Non era decisamente una serata fortunata per noi.

    Come uno strano rituale, avevano sbattuto tutti i calici uno contro l’altro, urlando di nuovo, e poi avevano trangugiato tutto in pochi secondi.

    «Oste!» aveva urlato il capo. «Un altro giro, per favore. I miei amici qui sono molto assetati e tu sei l’unico che possa risolvere il problema di questa arsura.»

    Alla quinta birra a testa, si cominciavano a vedere gli occhi lucidi dell’ubriachezza. Se così era, due cose erano certe: la prima, che non sarebbe finita bene; la seconda, che non sapevano proprio reggere l’alcol.

    «Bene. Credo sia ora di andare, ragazzi» aveva urlato il capo, tra un rutto e l’altro.

    «Cosa? Andare? Ma avete da pagare per tutto quello che avete bevuto!» aveva detto di rimando il cameriere. La sua faccia era diventata rossa e non si riusciva a capire se per il nervosismo o per il fatto che avesse veramente trovato il coraggio di dire loro quelle parole.

    «Pagare?» E ridendo in cagnesco, il capo aveva preso per il colletto il povero ragazzo al di là del bancone e se l’era portato davanti alla faccia. «Io non pagherò un bel niente. Non ho mai pagato per bere in vita mia e non lo farò nemmeno ora. Ma sai…» aveva lasciato in sospeso la frase, prendendo una bottiglia di whisky. «Credo che prenderò anche questa. Oh, e segnalo sul mio conto. Prima o poi passerò di nuovo a pagare. Ma non sperarci tanto» aveva riso di nuovo, stavolta sghignazzando.

    «Voi non potete… io chiamerò la polizia» aveva detto, provando a liberarsi dalla morsa di quella sottospecie di troll.

    «Polizia?»

    Una luce di pura velenosità gli era brillata negli occhi. «Siccome vuoi fare l’eroe, prova a chiamarla, te ne prego.»

    Il poveretto era pietrificato e non sapeva cosa dire.

    «Capo?» aveva detto uno dei compagni, dall’aspetto non proprio intelligente. «Nessuno si dovrebbe permettere di minacciarci. Perché non gli insegniamo le buone maniere?»

    Si erano voltati inaspettatamente verso noi clienti e avevano tuonato: «Qualcun altro vuole fare l’eroe?» e lentamente ci avevano indicati tutti quanti. «Forse tu?» indicando il signore di mezza età che stava leggendo il giornale. «O tu?» dicendo al ragazzo attaccato al telefono. Speravo solamente che avesse avvisato qualcuno e non avesse pubblicato la storia su qualche social network. Ma ormai non avevo più speranze per loro. «Oppure tu?» aveva concluso, indicando mia madre. Dopo una rapida occhiata, si era leccato i baffi. Si era avvicinato mimando i gesti di un gentiluomo, ma per sua sfortuna era sembrato più uno scimmione ubriaco (quale difatti era). Ciò, però, mi aveva permesso comunque di capire quali erano le sue intenzioni. «Ma buonasera, signora» aveva detto, e avevo dovuto girarmi dall’altra parte. Il suo alito puzzava tremendamente di alcol. «Spero di non averle creato troppo disturbo in questa meravigliosa serata. Deve sapere che a volte io e i miei amici ci lasciamo un po’ trasportare dai fatti.»

    Mia madre era visibilmente a disagio e anche ancora un po’ intimorita. Nessuno aveva risposto. Volevo tanto fargli passare la voglia di fare il gradasso, ma erano in troppi e le mie probabilità di vittoria erano minime. Si era avvicinato al tavolo e si era messo di fianco a lei: «Lo sa che è veramente una bellissima donna? Potremmo divertirci un poco, io e lei» aveva detto, senza curarsi del fatto che fossi lì. Sebbene in minoranza, ero pronto a reagire.

    Con piccoli movimenti e senza farmi notare, avevo spostato tutto il peso del corpo sulla gamba sinistra. Non gli avrei permesso di farle niente, non mi importava cosa sarebbe accaduto dopo. Quel porco non doveva toccare mia madre. Finalmente aveva notato che anche io ero presente e mi aveva guardato. Nei suoi occhi avevo visto un rapace. Aveva trovato la sua preda e difficilmente l’avrebbe lasciata andare. Avevo dovuto però aspettare il momento opportuno per reagire.

    «Dimmi un po’, giovanotto. Hai qualcosa da obiettare, se la signora viene con me?» Così dicendo, si era girato di nuovo verso i suoi scagnozzi ridendo come un folle, e così avevano fatto anche loro da eco. Erano davvero disperati per stare appresso a questo tizio. Ma la sua distrazione era stata una manna dal cielo. Il suo voltarsi mi aveva creato lo spazio necessario.

    «Effettivamente sì» avevo cominciato a dire. «Ho da obiettare.»

    E in quel momento le cose erano successe molto in fretta. Mentre stava per voltarsi verso di me, avevo preso la sedia con la mano destra e gliel’avevo scagliata in testa con tutta la forza che avevo potuto usare. Sarà stata l’adrenalina o non so proprio cosa, ma il colpo aveva avuto una potenza tale da

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