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Trio
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Ebook482 pages6 hours

Trio

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About this ebook

1928. Mentre una crisi di dimensioni incalcolabili si profila all’orizzonte per la società italiana, l’ex pugile Leone (Leonardo) Salis, con la sua fiammeggiante Alfa Romeo, acconsente ad accompagnare la sua giovane conoscente Ida, collezionista di quadri fiorentina, a un’asta d’arte a Mantova. L’uomo spera di poter conquistare la ragazza quando un terzo compare improvvisamente nelle loro vite, il pianista inglese Albert Andrew Hall. Leonardo e Ida accompagneranno il pianista in tutte le tappe del suo itinerario italiano, in un triangolo di passione, amicizia e tensione.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateMay 28, 2019
ISBN9788863938920
Trio

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    Trio - Annalisa Pardi

    ORME

    frontespizio

    Annalisa Pardi

    Trio

    ISBN 978-88-6393-892-0

    © 2014 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

          PRIMO TEMPO

    CARNAVAL

       PRÉAMBULE

    Quasi maestoso

    Il concerto stava per iniziare.

    Un grande pianoforte a coda, scuro, ristava sul palco, lucente e luttuoso. Come in un duello all’ultimo sangue, in cui le parti s’abbigliano di nero per prepararsi all’inevitabile, lo strumento aspettava di conoscere le mani di chi l’avrebbe suonato e sembrava serbare in sé una grande, gravida attesa.

    La sala, moderatamente colma, profumava di cipria e di polvere di sipario.

    Nessuna scenografia ornava il retro del palco che, nudo, compariva con tutti i suoi misteriosi filamenti, corde e travi, come un orologio sventrato.

    Sul programma era scritto a grandi lettere graziate che quella sera si sarebbe suonato Schumann: Carnaval e Studi sinfonici.

    Quando il pianista entrò in sala, si udì un applauso freddo e misurato, da intenditori che aspettino prima di lasciar fluire qualunque entusiasmo.

    Il musicista, alto e biondo, non tardò a sedersi di fronte allo strumento. Aveva lunghe mani ossute e dita saltellanti come cavallette.

    Suonava bene, davvero molto bene. Sapeva quando osare, sapeva quando trattenere. Nel suo volto non si leggeva una sola espressione; tutte le espressioni erano nelle dita.

    Di tempo in tempo chiudeva gli occhi e sembrava morto, mentre le mani continuavano a fuggire. Pareva, in qualche remota parte dell’anima, subire la profonda claustrofobia delle cose iniziate che non si possono interrompere.

    Alla fine di Carnaval si alzò, la fronte bianca sudata e fredda, come se avesse suonato con la testa. Raccolse gli applausi con distacco.

    Poi l’intervallo.

    Quando tornò a eseguire gli Studi sinfonici, era calmo e distante.

    Ancora una volta suonò, e di nuovo il miracolo delle sue dita seppe compiersi. Il pubblico si sciolse e, a mano a mano che si scioglieva, il pianista si mutava in ghiaccio.

    Quando gli fu tributato l’applauso finale, il pianista pensò che fosse soltanto un pallido e dovuto ringraziamento per le otto ore quotidiane che da trent’anni dedicava al pianoforte.

    Sorrise un poco, soltanto un poco, sentendosi triste, e sognò di ritirarsi in fretta nella sua camera d’albergo.

    Più moto

    Sul programma di sala era scritto a grandi lettere graziate che quella sera si sarebbe suonato Schumann: Carnaval e Studi sinfonici.

    Per questo erano arrivati fin lì, con l’automobile ruggente di Leone. In realtà non proprio per questo, ma adesso erano lì, e ciò bastava.

    Amavano Schumann. In realtà era Ida ad amare Schumann. E poiché Leone certo amava Ida, non avrebbe perduto per nulla al mondo l’occasione di mostrarle che anch’egli amava Schumann.

    Lei adorava il pianoforte. Lui preferiva il jazz e le canzonette della radio, ma si vergognava a confessarlo, e comunque si era prestato di buon grado ad accompagnare la giovane donna al concerto. 

    Su un giornale, trovato in trattoria, Leone aveva letto l’allarmante notizia che il dirigibile Italia di Umberto Nobile era precipitato durante il viaggio verso il Polo Nord. Il modo in cui gli esploratori avrebbero gestito la spinosa questione della loro sopravvivenza occupò la conversazione della coppia, che altrimenti, forse, avrebbe languito per imbarazzo. 

    Così era andata la cena; poi, via al concerto.

    Mentre acquistavano i biglietti e andavano a sedersi in platea, Leone aveva a stento dominato la sua inquietudine: sentiva che il digestivo aromatico Contratto brûlé, appena bevuto, stava salendo alla testa con i suoi vapori destabilizzanti, e temeva di addormentarsi, se la musica fosse stata noiosa.

    Anche Ida era preoccupata, ma per tutt’altro motivo: aveva paura che l’esecutore del concerto non fosse all’altezza del compito e le sciupasse il piacere di ascoltare musica. 

    «Io non l’ho mai sentito questo nome. Albert Andrew Hall… Nato a Brighton, ha studiato a Londra…» lesse la donna sul foglietto di sala.

    «Non c’erano pianisti italiani abbastanza bravi per andare a scomodare questo Albert Andrew Hall?» domandò Leone, tra il serio e il faceto.

    «Che discorsi da allineato!» rise Ida con tono di finto rimprovero, continuando a leggere. «Nato a Brighton, ha studiato a Londra… Mio Dio quanti concerti ha fatto… Almeno non si può dire che gli manchi l’esperienza.»

    «Be’, non significa molto questo. Significa solo che stiamo per vedere un pianista vecchio suonare roba vecchia e probabilmente quel pianista era vecchio anche quando era giovane, e allo stesso modo quella roba. Ecco tutto» chiosò Leone, reso disinibito dall’alcol, ben consapevole che le donne amano battibeccare.

    «Questa maniera di parlare è insopportabile» lo sgridò ancora Ida, ridendo tra sé di quelle idee polemiche che pure, occasionalmente, condivideva suo malgrado.

    «No, Ida, lei si sbaglia a vederla così, mi permetta. Io dico solo, sinceramente, ciò che pensa la maggior parte delle persone in questa sala. Lei ritiene che vengano qui per sentire Schubert?»

    «Schumann.»

    «Ecco, lo vede? La maggior parte di loro, proprio come me, non li distingue neanche, quei due. Gli spettatori vengono per motivi diversi dai suoi. Lei è un’idealista, lei insegue la bellezza e si sottopone a lunghi viaggi per cercarla, lei sa coglierla quando la trova all’improvviso, lei è sempre aperta, ricettiva, in ascolto. Guardi loro, invece! Hanno sonno, hanno mangiato pesante, hanno bisogno della toletta, vengono a teatro per incontrare altre persone simili a loro e fare due chiacchiere, combinare matrimoni, sperare funerali. Ecco tutto! Se questo signor Hall suonerà bene, meglio per lui; se suonerà male, per loro non farà molta differenza; stia tranquilla che tutti usciranno dal teatro parlando solo della cena di domani o della passeggiata di oggi pomeriggio. Nessuno si preoccuperà di questo vecchio pianista e del suo lavoro.»

    «Bah, forse ha ragione lei. O almeno dovrebbe averla, a giudicare dal calore che impiega per esprimersi. Speriamo che questo signor Hall suoni bene, ecco tutto, perché ci vuole davvero tanta esperienza per…»

    «Creda, l’esperienza non sempre giova. A volte può essere meglio improvvisare.»

    Ida non riuscì a rispondere alla provocazione, sconvolta dalle labbra di Leone che nel parlare si erano avvicinate alle sue. Si allontanò, ritrosa; riprese il dominio di sé, riscuotendosi dall’imbarazzo, e disse: «Solo a volte, e comunque non per Schumann. Questi brani vengono spesso ritenuti l’apice della carriera pianistica. Ci vuole una grande consapevolezza per eseguirli, sa? Ogni singolo pezzo dura un paio di minuti al massimo e il pianista deve essere in grado di adeguarsi a tutti i cambiamenti di ritmo che il compositore impone. Suppongo che sia molto difficile».

    «Certo. Molte cose sono difficili» convenne Leone. Comprendeva assai bene la necessità di cambiare marcia di frequente, perché amava la velocità e le macchine da corsa. La musica e la guida avevano del resto molti altri punti in comune: l’attenzione per ogni singolo movimento, il ritmo, le pause, la ricerca di un traguardo sempre troppo lontano, l’inseguimento inesausto dell’eccezionalità. Nella mente di Leone, anche stare accanto a una donna come Ida rispondeva a quell’ideale di sublime perfezione che non si stancava mai di rincorrere. La guardò, come si guarda un quadro. Era l’opera d’arte fragile e forte di un dio capriccioso e senza virtù.

    Ida aveva indosso un abito scuro, di ottimo taglio, ed era di quell’umore sognante di cui sovente s’abbigliava. Era come se per lei tutta la stanchezza del viaggio si fosse all’improvviso dissolta.

    Leone non diceva più parola. Talvolta lisciava i neri baffi, lucenti di brillantina, con le dita forti e abbronzate. Osservava. C’erano delle donne molto belle in quella sala di teatro. Erano desiderabili, ma spaventosamente piatte per espressione e atteggiamento. Dopo aver conosciuto una donna come Ida, era difficile riuscire a posare altrove lo sguardo. Era il suo apparente disinteresse di fronte a ogni cosa terrena, come il cibo o il sesso, a renderla così eccitante.

    La piega del naso non era nobile, ma vezzosa e tenera, come quella delle maliziose figure dipinte da Boucher nel Settecento; i capelli formavano un’onda affascinante e mobile sull’alta fronte candida di cipria; lo sguardo smeraldino, instancabile, mandava bagliori come un tesoro nascosto in verdi acque marine.

    No, rifletteva Leone guardandola, Ida non era poi tanto bella. Il suo volto era solcato da rughe precoci sulla fronte e ai lati della bocca. In quella sala c’erano decine di donne più belle di lei. Ma, Dio se voleva averla! E voleva avere lei soltanto! Certo, forse se una pallida biondina in quell’istante lo avesse guardato e con gli occhi gli avesse domandato un incontro, Leone avrebbe ceduto al mero bisogno fisico, al libertinaggio senza conseguenze, a un’ora spassosa, ma quanto al desiderio, alla brama, alla passione, ecco, credeva di non poterli ormai provare più per nessun’altra.

    Ida, dal canto suo, sembrava non accorgersi dell’interesse che destava negli uomini: a volte giocava con Leone come se fosse stata un ragazzo, un amico, un compagno di confidenze; altre volte, invece, diventava una madre e lo bacchettava con la sua superiore intelligenza. Tutto in lei chiamava la lotta amorosa, tutto in lei la negava. 

    Odorava di rosa, e di cipria e rossetto. Non somigliava in nulla a quelle donne semplici e composte, senza trucco e senza pretese, che piacciono agli uomini. 

    Ma a dirla tutta, Leone non sapeva molto di lei. Sapeva solo che andava matta per le ginevrine, le pasticchette di zucchero, e anche per i confetti di liquirizia, che le aveva regalato sperando da quell’attenzione di ricavare qualcosa di più di una goliardica amicizia.

    A un tratto, imbarazzato dal silenzio che si era andato creando tra loro, l’uomo provò a chiederle qualcosa, qualcosa di sciocco, tanto per sentirne la voce calda, ma l’arrivo del pianista sul palcoscenico, sollevando un timido applauso, lo zittì forzatamente. Appena Ida vide il musicista sedersi al pianoforte, esclamò divertita: «Ma non è affatto vecchio!».

    In effetti, sebbene il signor Hall portasse disinvoltamente fili d’argento nella barba appuntita e benché l’altezza e il mestiere lo costringessero a una posizione incurvata, sembrava non aver toccato i quarant’anni e si distingueva per fascino, tanto da parere un attore di cinematografo.

    «Ha qualcosa di Lars Hanson» osservò infatti Ida con il piglio dell’intenditrice.

    «Lars Hanson? E chi è?»

    «Lars Hanson, quell’attore svedese… Non va mai al cinematografo, lei, vero?»

    Leone, già morso dalla naturale gelosia per il pianista e dal fastidio per la propria inferiorità culturale, non poté dire altro, se non: «E comunque l’importante è che sappia suonare, no?».

    «Questo lo capiremo subito» approvò Ida.

    Caddero nel silenzio assieme all’intera sala.

    Il concerto iniziò.

    Al termine del concerto, Ida era eccitata e felice. Non aveva mai sentito, disse, suonare Schumann tanto bene. L’artista non si era risparmiato; aveva suonato senza un errore, senza una sbavatura, con una perfezione inimitabile. La donna non faceva che chiedersi come mai il nome di quel pianista sublime non le fosse giunto alle orecchie prima di allora. Anche Leone dovette ammettere di aver goduto della bella musica e di aver provato emozioni molto complesse e intriganti durante l’ascolto. Lui, che aveva una naturale predisposizione per la carne e l’azione, non si era annoiato e si era persino abbandonato a pensieri di bellezza e purezza contemplativa.

    All’uscita dal teatro erano entrambi sovreccitati. Si fermarono a un caffè, che trovarono aperto nonostante l’ora tarda, e si sedettero a un tavolo, lasciando scorrere le loro emozioni verso il silenzio. Sorridevano, quasi estasiati. Non capita di frequente di assistere al miracolo artistico e loro vi avevano appena assistito. Ne erano confusi.

    Il cameriere, stanco e unto di fatica, giunse a interrompere i loro vagheggiamenti chiedendo cosa i signori desiderassero.

    Ida, avrebbe volentieri risposto Leone; invece «un Old brandy cavallino rosso» disse con tono determinato, perché sapeva che la sicurezza con i camerieri è un’altra arma infallibile per sedurre le donne.

    «Mi rincresce, signore, non lo abbiamo.»

    «Portatemi allora il brandy che avete.»

    «E per la signora?»

    «La signorina» corresse Ida «prende un’aranciata.»

    Il cameriere si allontanò e Ida e Leone restarono di nuo­vo soli.

    «Un’aranciata! Che ordinazione sciapita!» la sbeffeggiò, ridente, Leone. Anche Ida rise di sé.

    «Ho dei limiti anch’io, sa, signor Salis? Sarei capace di ubriacarmi anche con l’aranciata, questa sera. Sono talmente stanca! Ma il concerto meritava la fatica, non trova? Dio, quanto vorrei tornare indietro e ascoltarlo di nuovo, tutto uguale a come è stato!»

    «Sì, è triste. Non lo ascolteremo mai più uguale. Non si può ripetere per due volte la stessa cosa.»

    «Be’, dovrei sposarmi con un pianista di quel calibro. Allora forse…»

    Leone trovò l’osservazione di Ida un poco indelicata, ma sulle prime non commentò. Accese un Maria Mancini e aspirò larghe boccate di fumo. Aveva labbra grandi e denti bianchi pieni di forza, sotto i baffi appuntiti da damerino. Adesso sembrava nervoso.

    «Per disgrazia io non sono un pianista e non lo diventerò mai. Anche io ho i miei limiti. Per tutto il resto, non credo di essermi risparmiato nella vita» disse poi all’improvviso, con impeto. E poi, timido, quasi correggendosi: «Ma sono contento, Ida, che lei abbia chiesto proprio a me di accompa­gnarla qui».

    Ida, però, sembrò non dare grande importanza alla preferenza accordata a Salis: «È stata la scelta più naturale. Non ho altri amici tanto esperti con l’automobile, né altrettanto pazienti di lei. E poi mio zio ha così tanto insistito che…».

    «Volevo dire che… sono felice che lei si fidi di me, tutto qui.»

    «E perché non dovrei fidarmi?»

    Leone pensò un poco, poi, sorridendo: «Be’, ero pugilatore di professione, fino a qualche mese fa. Non ha paura di un pugno irragionevole?».

    «Via, un signore come lei picchiare una donna? Non ci potrei mai credere.»

    «I miei nervi potrebbero essere alterati» motteggiò ancora Salis.

    «Via, su, non mi pare che i suoi nervi abbiano risentito del pugilato molto più del suo naso. Lei mi sembra una persona tranquilla, divertente, e di buon senso.»

    «Grazie! Però non deve fidarsi così tanto delle persone, sa? È pericoloso.»

    «Mi faccia capire: lei si è prefissato il nobile obiettivo di proteggermi?»

    «Perché no? Sarei onorato di proteggerla.»

    Il tono di Salis fu così serioso che fece scoppiare Ida in una sonora risata.

    «Perché ride?» domandò allora Leone, permaloso.

    «Perché gli uomini vogliono sempre proteggermi e lo trovo buffo. Le pare che io non sappia proteggermi da sola?»

    Salis non si capacitava della libertà di cui Ida godeva in famiglia. Le sembrava assurda, al limite dello sconveniente. Le pareva che la donna, per tale ragione, dovesse essere priva di ogni remora etica. Ciò lo sconcertava, facendolo sentire vulnerabile.

    «Mi scusi, ma per quanto mi conosce lei, anche io potrei essere un delinquente, un assassino, un violentatore» notò con serietà. 

    Invece Ida non riusciva proprio ad abbandonare il tono ironico: «No. Lei non ne ha avuto il tempo, di diventare tutte queste cose. Ci vuole applicazione, e molto tempo libero, per la cattiveria e la delinquenza. Il pugilato, le automobili, e ora il giornalismo, la distolgono da questi pensieri».

    «Si scorda il nuoto.»

    «Ecco, vede? Non ha il tempo di diventare altro, per questa vita si accontenti. Io so sempre di chi fidarmi.»

    Tacquero. Il pensiero di Leone si aggirava ora con insistenza attorno al fatto che, a breve, avrebbero dovuto varcare la soglia dell’albergo. Uno struggimento vago e potente s’impadronì di lui. 

    Avevano inventato di essere fratello e sorella, in albergo; il concierge era stato compiacente, fingendo di credere alla parentela. Solo Leone aveva dato un documento d’identità al bureau. Avevano fermato due camere singole adiacenti e l’ex pugilatore ora vibrava al pensiero di dormire accanto a Ida, diviso soltanto da un esile muro.

    «Be’, Ida, insomma, lei l’ha capito benissimo quello che voglio dirle.»

    «Certo che sì.»

    In quel momento portarono da bere. Leone, che stava iniziando a parlare di nuovo, attese che il cameriere se ne andasse. Ma il cameriere ristava, immobile, in attesa di essere pagato. Leone sbrigò l’affare in fretta, poi tornò con gli occhi a Ida, che ora beveva enigmatica la sua aranciata, con il sorriso della Gioconda stampato sul bel volto.

    «Insomma, lei l’ha capito, quindi.»

    «Sì, Leone.»

    «E non mi dice nulla? Nulla d’altro?»

    «Non saprei che dirle. Lei mi vuole proteggere. È già un passo importante, non trova? Eppure ci conosciamo da troppo poco tempo.»

    «È stata bene oggi con me?» domandò Salis, un po’ timoroso.

    «Molto. Mi sono divertita. Faremo altre gite bellissime insieme. Le farò da guida e, se vorrà, qualche volta porterò io la macchina. Però lei mi deve insegnare a farlo bene!»

    «Certo, le insegnerò volentieri, un giorno. Mi chiederà ancora di accompagnarla, se dovrà vedere altri quadri in giro per l’Italia?»

    «Sì, certo.»

    Non era stato in effetti il concerto di Schumann a richiamare Ida a Mantova, ma la sua passione per il collezionismo d’arte. 

    Questa insolita passione era nata dalla morte: erede universale di ricchi fiorentini stroncati dalla febbre spagnola, Ida era sopravvissuta per dimenticare e per diventare, dopo un’educazione illuminata, grande collezionista di quadri e statue. Con un’attività frenetica e instancabile, aveva spesso intuito il valore economico di opere sottovalutate dai più, contribuendo, così, alla sua precocissima fortuna mondana.

    Era uno strano tempo: si entrava in contatto con la morte da giovani e, se si sopravviveva a essa, si poteva andare fieri del suo tocco carnale, misterioso. Il suo richiamo eterno risuonava con la forza degli abissi e, nel vedere le tracce che lasciava sui volti sconvolti, c’era da restare tentati d’esserne baciati, come da madre matrigna, necessaria e prevaricatrice, come per colmare un’ansia mai placata, un vuoto assurdo mai appagato.

    Ida aveva soldi e adorava spenderli nell’arte; amava circondarsi di musicisti e letterati; comprava quadri importanti perché aveva intuito per la bellezza, tutto qui. Il teorema del successo sociale, delle cene sfarzose, delle false amicizie e dei corteggiatori non le era mai interessato. Viveva con lo zio e non pensava né a sposarsi né a fidanzarsi. Aveva pochi amici e molti conoscenti, interessata solo a coltivare, e con passione, il grande giardino della sua personalità. Se talvolta le capitava un’opportunità interessante, tentava di coglierla, ma di rado le capitavano tali occasioni.

    I più maligni dicevano di lei che avesse gusti saffici; i più benevoli che non avesse gusti di nessun tipo; c’erano, poi, certi superficiali che ritenevano non dovesse avere sentimenti al di fuori della sua passione per l’arte, alcuni ricchi che la dipingevano interessata solo al denaro e molti imbecilli che la volevano arrivista e un po’ puttana. 

    In realtà Ida aveva ventitré anni ma era una bambina. Vergine nell’anima e nel corpo, non sapeva nulla del mondo. Si contentava di indagare come si accostano i colori in una tela; sapeva apprezzare la musica di Vivaldi e cantare Caccini; amava leggere i classici stranieri sotto un albero del parco. Era in grado di intonare la tappezzeria alle tovaglie, i mobili alle pareti, e andava pazza per cosmetici, cappelli, perle e acconciature. Le piacevano i marroni glassati e le cose belle e dolci, perché anche lei era una cosa bella e dolce. Non conosceva le tappe sistematiche della vita, perché la febbre spagnola l’aveva toccata e l’aveva ridotta allo stremo delle forze, prima di decidere di graziarla e passare oltre. Per lei adesso quei beni, quelle ricchezze rimaste, non potevano significare più nulla, tranne l’angoscia del vuoto e la certezza di dovere, un giorno o l’altro, perderle.

    Ida era anche capricciosa. Sperava per sé un avvenire sempre eccitante e felice. Un breve mal di testa la squinternava. Un raffreddore la rendeva intrattabile. Era come se si sentisse in credito con la sorte.

    Il motivo per cui lei e Salis ora si trovavano a Mantova era piuttosto elaborato: inizialmente, Ida doveva essere scortata lì in automobile dallo zio Evaristo che, amando la guida, faceva un punto d’onore nel non avere un autista al suo servizio. Ma lo zio, all’ultimo momento, aveva avuto un imprevisto: la sua cavalla preferita stava partorendo e voleva assisterla. Così, originale quale era, si era tirato indietro dal suo ruolo di chaperon e aveva detto alla nipote: «Rinuncia ad andare all’asta, Ida. Oppure, se ci tieni così tanto, fatti accompagnare da qualcuno, che io non sono geloso».

    Ida non sapeva proprio a chi poter domandare un favore tanto grande. Era pronta a rinunciare al viaggio, perché non le andava troppo a genio di prendere il treno e dormire una notte da sola, quando lo zio le aveva buttato lì, con tono distratto: «Ma perché non domandi a quel tuo conoscente, a quel Leone Salis, che era automobilista sportivo?».

    Ida aveva riflettuto, perplessa: Leone Salis non era un suo ami­co, ma un conoscente con cui aveva scambiato sì e no una trentina di parole in un anno. Non era troppo intimo avanzare una simile richiesta a una persona vista solo poche volte, sempre di sfuggita, e che per di più era dell’età e della posizione giu­sta per piacere a una donna? Era indubbio che Salis non avrebbe approfittato della situazione, ma il mondo che cosa avrebbe detto, ancora una volta, di quello strano viaggio? E la sua reputazione? Chi avrebbe creduto che non fosse una fuga d’amore? E cosa avrebbe pensato Salis stesso della strana proposta?

    La nipote provò a spiegare le sue incertezze allo zio, ma Evaristo era preoccupato per l’amata cavalla e non si poneva più alcun problema per la nipote, anzi, non vedeva l’ora di scaricarla a qualcuno che guidasse bene l’automobile. Lo zio pensava forse, oscuramente, che oramai la sua adorata pupilla era arrivata all’età giusta per avvicinarsi al matrimonio, oppure sottovalutava il pericolo della situazione; comunque, tutto sommato, non vi notava nulla di disdicevole.

    Ida, quindi, spinta da Evaristo, aveva contattato Salis per telefono e gli aveva domandato, tra mille reticenze, il grande favore.

    Salis, anche se spesso si trovava a Firenze per piacere, lavorava e viveva a Roma. Enorme fu il suo stupore quando udì dall’altro capo del telefono la voce seducente della signorina Dal Ponte, tuttavia la richiesta non lo trovò impreparato neppure per un momento: Leone non vedeva l’ora di poter essere utile. Era un vero gentiluomo, per cui non provò un’eccessiva smania alla prospettiva di restare solo con la bella Ida, né nutrì in petto la speranza di approfittarne; tuttavia, l’idea di un viaggio con lei lo eccitò a dismisura.

    Per non mettere in imbarazzo Ida, Salis al telefono mentì e finse di avere anche lui la necessità di recarsi nel Nord Italia; quindi, accettò senza indugio la proposta.

    Aveva appena appoggiato la cornetta, Salis, che iniziò a domandarsi come diamine avesse conosciuto Ida Dal Ponte. Ci mise qualche tempo a ricostruire la storia del loro primo incontro.

    Era stato a casa di un’amica comune, una ricca possidente fiorentina che dava spesso feste distinte nella sua tenuta fiesolana. 

    Salis era quel che si dice un personaggio mondano, che i salotti altolocati facevano a gara per avere. Andava di moda e destava interesse intorno a sé per la sua multiforme carriera. 

    Era arrivato in società grazie a un impegno che sarebbe parso eccessivo a chiunque altro, ma non a lui, abituato com’era al lavoro duro. Napoletano e povero di nascita, Salis era stato sottratto a una vita incerta e ricca d’espedienti da un lontano parente che, intuendone le capacità di resistenza psichica e fisica, ne aveva fatto un eccellente sportivo. Nuotatore in adolescenza, Leone aveva coltivato questa capacità con intensi allenamenti, passando poi per caso al pugilato, disciplina in cui era divenuto una scoperta, e in seguito un campione. 

    Salis, si diceva, prendeva pugni e non cascava mai; non c’era verso di buttarlo al tappeto. Era orgoglioso e umile insieme, tenace e irresistibile. Si faceva massacrare, ma non cedeva. Tutti iniziarono a scommettere su di lui. 

    Era come se fosse passato attraverso lo squallore e la devastazione, senza lasciarsene lambire. Arrivavano i colpi e lui li schivava; prendeva pugni e non cadeva. Vinceva per la volontà, non per la forza. Salis, si diceva, sopportava il dolore meglio di chiunque altro. Salis incassava, taceva e sapeva aspettare. 

    Grazie ai combattimenti e alle gare, frequentò molte persone e molte città dopo Napoli. Gli incontri cominciarono a fruttargli molto denaro: s’appassionò quindi alle automobili e al rally, e divenne anche pilota. Nel giro di pochi anni iniziò a incuriosire per la sua poliedricità e ad animare i salotti con la sua dirompente ingenuità da ragazzo di strada; vennero quindi per lui Roma e il bel mondo, e i ricevimenti a cui era invitato, in fondo, solo per essere deriso.

    In quel periodo si concesse una fase di controllato sbandamento, e fu ambizioso e balordo; spendeva più di quel che guadagnava e attirava le copertine dei rotocalchi con il bel viso d’attore, le prodezze sportive e le conquiste. Ma la sua stupidità non durò, perché non era poi così imbecille da lasciarsi affogare una volta che aveva toccato riva.

    Ebbe molte donne, ma le cercò importanti e utili; in particolare un’illuminata compagna, anziana abbastanza da potergli fare da madre, ne dirozzò i gusti fino a renderlo tanto intelligente da eleggere Bel Ami di Maupassant a romanzo preferito. Salis, aiutato da doti personali non comuni, imparò la buona educazione e la corretta dizione, con grandi sforzi ripagati da un sensibile miglioramento delle sue condizioni. 

    Alla barba mal rasata degli esordi sostituì un viso sempre pulito e ornato di signorili baffetti che lo invecchiavano. I vestiti divennero di miglior taglio e il profumo più discreto. Nei salotti non parlava più d’automobili e pugilato, sgrammaticando; ma si spingeva fino agli argomenti spinosi della politica e della letteratura e, ancor più spesso, taceva con maestria, sfruttando le pause con una certa tensione ben calcolata, da oratore.

    Arrivato alla cultura per vie traverse, l’aveva amata e venerata, furbo abbastanza per capire che l’unico porto sicuro è la costruzione di sé.

    Non appena era stato capace di gestire da solo, e brillantemente, una conversazione, aveva deciso di lasciare la donna che lo aveva ripulito e migliorato. 

    In uno stretto giro di mesi Salis sperimentò tutto e il suo contrario. 

    L’ambizione, dapprima tanto intensa in lui, si era andata spegnendo a misura che crescevano i successi. La molteplicità di fortune aveva fatto di lui un inquieto pescatore di gloria, finché, a ventisette anni, con il setto nasale deviato e, in generale, distrutto dalle cicatrici, dai dolori articolari e dalla velocità con cui si era mosso nell’esistenza, aveva opportunamente accettato l’offerta imprevista di guadagnarsi la vita come cronista sportivo per Il Littoriale. L’aveva colta al volo, questa offerta, senza ripensamenti, e senza capire come avesse potuto ottenere una simile fortuna.

    Ora guadagnava uno stipendio dignitoso e fisso, e scriveva con impegno, cercando di formarsi un gusto e uno stile letterario sempre più raffinati. Dalla sua parte stavano una grande adattabilità, la capacità d’imparare velocemente e la conquista di una profonda umiltà. 

    Frattanto, Ida e Leone avevano terminato di bere. Ida era assonnata. Leone le propose di rientrare. La giornata era stata lunga, normale un po’ di stanchezza.

    Arrivarono all’albergo senza parlare. La mano di Ida si appoggiava al braccio di Leone ed entrambi guardavano dritto. Leone pensò che sarebbe stato sufficiente forzarla un poco, solo un poco, e Ida avrebbe ceduto alle sue pressioni. Vero che sarebbe stato molto meglio possederla con tutta calma, in un momento di maggior vigore fisico e mentale, in un albergo più bello e in un letto matrimoniale.

    La sua sensazione di completo potere sulla donna si confermò quando Ida gli chiese di entrare un istante nella sua camera. Leone non si fece pregare, ed entrò, lentamente. 

    Impacchettati all’angolo della porta stavano due quadri appena acquistati. Altri due sarebbero stati inviati a Firenze nei giorni seguenti, a causa delle dimensioni troppo importanti.

    «Vuole restare un momento, Leone? Chiuda pure la porta» disse la donna con un tono languoroso, che Leone aveva già mille volte sentito sulla bocca di altre donne, e che apriva mondi sconosciuti. Dunque obbedì e chiuse la porta die­­tro di sé. 

    Avrebbe dovuto, in quell’istante, baciare Ida, stringerla forte e gettarla sul letto. Lei lo voleva. Si capiva da ogni gesto, che lo voleva. Sarebbe stato facile e bello. Ma Leone non seppe farlo, stordito dalla propria imprevista rettitudine. Non poteva possedere così, brutalmente, una giovane e ingenua ereditiera, approfittando della sua stanchezza! Dio solo sa quanto nei mesi seguenti Leone avrebbe rimpianto questa incapacità.

    Così restava timido e silenzioso. Guardava e non vedeva, assorto. A un certo punto, gli sfuggì uno sbadiglio. Era uno sbadiglio causato dalla tensione, ma parve una manifestazione di stanchezza. Ida lo osservò senza dire niente; infine, notò che la situazione non si risolveva e, poiché era stanca, decise di non spingersi oltre.

    «Grazie di tutto» disse allora.

    «Di nulla. A domattina, cara Ida» rispose quindi Leone allontanandosi dalla camera.

    Entrambi si lasciarono con la sensazione di una promessa da mantenere al più presto, entrambi consapevoli di essere intimamente legati, come duellanti che si sfidano e attendono l’alba per affrontarsi.

    Pregustavano, ciascuno nel suo intimo, un delizioso piacere futuro, per nulla minato dalla stanchezza: un piacere lento, doloroso, come può essere la morte, forte e meditato, senza improvvisazioni.

    Erano entrambi troppo stanchi e assonnati, quella notte. L’indomani sarebbero stati freschi e vigorosi. Non lo dicevano, ma lo sentivano con la stessa precisione.

    Chiusa la porta e infilatosi nel proprio letto, però, Leone non riuscì a dormire fino all’alba.

    Animato

    La luce del sole portò rapida l’oblio sui desideri della notte precedente e tutto ciò che era stato possibile divenne all’improvviso lontanissimo, come un miraggio.

    Quando a mattino inoltrato si trovarono nella sala delle colazioni, avevano entrambi appetito e ancora sonno, ma erano, nel complesso, assai di buonumore. 

    Ida aveva una fame incredibile. A colazione divorò pane e burro a una velocità inusitata, mescolò tè, caffè e spremuta e Leone sorrideva, sorrideva nel vederla così giovane e fresca. 

    Poi si avvicinò l’ora della partenza. Ma al bureau, al momento di dover pagare il conto, Ida si accorse di non avere né contanti sufficienti né il blocchetto degli assegni con lei. Leone, pieno d’imbarazzo, dovette ammettere di aver finito tutti i suoi soldi il giorno precedente, al caffè dove si erano seduti, e di non avere con sé neanche il denaro necessario per il carburante della macchina. 

    Ida si innervosì, incredula: era certa di aver conservato una mazzetta di contanti nel portafogli e non capiva perché, o come, fosse sparita. Naturalmente, Leone non ricordava di aver mai visto quei soldi. Ida allora domandò di poter usare il telefono dell’albergo. L’inserviente fu spiacente nel rispondere che purtroppo un guasto ai cavi telefonici aveva messo fuori uso già da due giorni l’intera zona; era davvero una disdetta, ma non si poteva telefonare.

    Leone iniziò a credere a una congiura della sorte, mentre il concierge cominciava a guardare la coppia con aria torva. Si doveva trovare una soluzione alternativa, ma quale?

    «Posso farmi fare un vaglia postale» propose Leone. 

    Ida era contrariata: «Bah, potrei farmelo fare io invece. Mio zio mi può mandare il denaro in breve tempo. Oppure posso lasciare il mio nome a garanzia qui, nell’albergo… non saprei…».

    «Il suo nome, signorina?»

    Il concierge mise in crisi la ragazza, che solo in quel momento ricordò di aver detto di essere sorella di Leone.

    «Ida Dal Ponte. Signore, Dal Ponte. Io e lui siamo fratelli di padri diversi, mi capisce?» spiegò tesa.

    «Perfettamente.»

    «Se solo lei si occupasse di quadri!»

    «Se mi occupassi di quadri cosa, signorina?»

    «Saprebbe che sono una collezionista e che il denaro è l’unica cosa che non mi manca. Senta, sia cortese, vuole trattenere qui i miei ultimi acquisti a garanzia, fino a che io e il signore saremo andati all’ufficio delle poste per scrivere un telegramma a casa e richiedere un vaglia?»

    Il concierge ricordò di avere un cuore. Ida gli sembrava così bella e onesta che, certo, non poteva ingannarlo. Quegli abiti così puri, con quella linea tanto aggraziata, parlavano per lei. 

    E poi, d’improvviso, una rivelazione.

    «Mi scusi, non vorrei sembrare indiscreto. Ma lei è veramente identico a un pugilatore famoso…» ammise infine l’ometto, tutto timoroso.

    «Ah, perché non ci ho pensato prima!» esclamò Leone. «Macché parente! Sono Salis in persona, il pugile, sì, il Leone di Napoli.»

    «Ah, ma come, signore? Sulla carta d’identità c’è scritto…»

    «Sì, sì» tagliò corto Leone, preoccupandosi che Ida non capisse e non vedesse il suo documento. «So cosa c’è scritto.»

    La realtà, che Leone riteneva infamante, era abbastanza banale: Salis era un cognome d’arte, inventato da una delle donne che aveva amato in gioventù. Sulla carta d’identità figurava invece il suo cognome effettivo, ben meno poetico: Salierno. Leone ci teneva molto a non far trapelare la verità, soprattutto perché si vergognava delle sue origini popolari, che il cognome faceva risaltare.

    «Mi deve proprio scusare» continuò intanto l’altro. «Non avevo capito che… il suo nome… Io… be’, è stato un equivoco increscioso. Non preoccupatevi. Andate pure tranquillamente dove dovete andare…»

    «Andremo alla posta… per spedire un telegramma e farci mandare i soldi» spiegò Ida tutta agitata. Ma ormai la sua preoccupazione era spesa invano; il concierge, già ammansito dalla sua bellezza, era stato totalmente conquistato dalla fama sportiva di Leone, e quasi non voleva più essere pagato.

    «Via, signori, andate pure, ma con tranquillità. Siete persone note, siete una bella coppia e poi, via, l’albergo non può certo trovarsi in difficoltà se pagherete questa sola notte con ritardo. Piuttosto, signor Salis, sarebbe così gentile da farmi un autografo per mio nipote?»

    L’ufficio postale era grigio e affollato. Via via entrava una persona, vergava l’indirizzo su di una busta e si metteva in fila. Così era già grande la coda radunata di fronte allo sportello, in cui un meschino funzionario passava i giorni ad applicare francobolli con la colla e la meticolosità d’un frate amanuense. Pareva che anche la sua pelle fosse diventata grigia al contatto con i muri stantii dell’ufficio.

    L’unico sportello aperto – gli altri per negligenza erano serrati, e si vedeva dietro ai vetri una squadra di funzionari inutilmente pagati e per nulla affaccendati – era occupato già da tempo, per colpa di qualcuno che non lasciava procedere la fila. 

    «Ci sarà da starci un paio d’ore, se la cosa va avanti in questo modo» commentò Salis, pessimista.

    Le persone in coda, tra cui una petulante vecchietta che parlava di continuo, molinando la lingua nella bocca priva di denti,

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