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L'alba di un nuovo giorno
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L'alba di un nuovo giorno

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Il cadavere di una ragazzina è ritrovato nel fossato della Torre di Londra: indossa un tutu, ha un indice mozzato e in bocca ha una fotografia della Danza macabra di Clusone, con un messaggio in latino. Accanto al corpo ci sono un carillon e un tappeto persiano. La grafologa Bianca Valenti riconosce la grafia del Latin Killer, il vecchio nemico dell’ispettore dell’Interpol Allievi, scappato ancora alla cattura. Comincia così una nuova indagine per Tobia Allievi e la terminologa Domitilla Di Mauro, un intrigante labirinto lessicale tra i monumenti di Londra, la storia dell’Inghilterra, l’eccidio di Rovetta del 1945, i segreti di un partigiano e le note di una malinconica sinfonia.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateJun 4, 2019
ISBN9788863939002

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    L'alba di un nuovo giorno - Alberto Ripa

    1

    Domenica, 22 luglio 2012

    Io ricordo, pensò una persona tra il pubblico. I suoi occhi erano di ghiaccio, malvagi e assetati di sangue. Fissavano il palcoscenico, ma erano ciechi, perché la memoria stava proiettando sullo schermo della mente il solito film, che riportava in vita chi non c’era più. Le immagini erano flash abbaglianti. I volti del passato si sovrapponevano a quelli del presente, come se una vecchia fotografia si fosse impressa sulle sue retine, impedendogli la percezione della realtà.

    Quelle visioni lo tormentavano. Occhi azzurri che sembravano parlare, ora schivi e timidi, ora accesi di passione e di amore. E un sorriso amaro e dolce nello stesso tempo. 

    Quegli occhi e quel sorriso devono scomparire, si ripeté ancora una volta. Questa frase era un’ossessione, gli toglieva il sonno. Non seguì il balletto delle altre ragazzine del saggio di danza: a lui interessava solo Kate.

    Finalmente la vide.

    Kate volteggiò nell’aria, leggera come una piuma. Sembrava sfuggire alla forza di gravità e galleggiare nel vuoto. Si arrampicò su un immaginario pentagramma, salendo a tempo la scala delle note. Pennellò con il corpo figure aggraziate, al ritmo seducente della musica. Era ipnotizzata dalla melodia, come un serpente dal flauto di un incantatore. Sfiorò con le scarpette il palcoscenico, mentre le dita del pianista accarezzavano i tasti del pianoforte. Piroettò come una foglia d’autunno in balia di un mulinello dispettoso.

    Aveva un corpo esile, ancora acerbo. Avvolta nel tutù bianco, era una crisalide che sarebbe sbocciata in una splendida farfalla dalle ali multicolori. Si muoveva con leggiadria, mentre sognava di diventare una vera étoile.

    Sorrise quasi altezzosa, per mascherare la tensione. Non sentì gli applausi scroscianti, non colse i sorrisi di approvazione: era in trance, impegnata nell’eseguire senza errori la coreografia mandata a memoria. Ascoltò solo la voce del cuore, che la incoraggiava a ogni passo del balletto.

    L’emozione era forte, le toglieva il respiro.

    Spiccò ancora un balzo, l’ultimo. Infine si accasciò sul palcoscenico, sfinita ma felice.

    La morte del cigno.

    L’uomo tenne a bada gli istinti bestiali, sebbene fremesse all’idea di stringere quel corpicino, di accarezzarlo e di esplorarlo. Era malato, lo sapeva, ma non voleva farsi curare. La sua psiche era segnata da un solco profondo: un tracciato a spirale, come l’incisione di un disco. Era un labirinto ipnotico, la peggiore delle prigioni: quando si addentrava nei suoi meandri tortuosi, la luce della ragione si spegneva, e grida strazianti tormentavano le sue orecchie; la musica, ossessiva, era sempre la stessa. Aveva ingannato tutti, facendo credere di avere rimosso le visioni distorte, come una gomma cancella la scia di grafite della matita. Il foglio della sua anima, una volta candido e intonso, era ormai una tavolozza orripilante di macchie di sangue. Avrebbe voluto urlare la sua rabbia al mondo intero, oltre la porta della cella dove la sua mente era reclusa assieme a un compagno che si svegliava quando aveva fame. E a quella bestia insaziabile le ragazzine facevano venire l’acquolina in bocca.

    Kate era il bocciolo di un fiore profumato, sul punto di aprirsi in tutta la sua bellezza.

    Ma questo non sarebbe dovuto accadere.

    Mai.

    Per alcuni giorni l’aveva pedinata. Poi, per non essere scoperto, aveva trovato il modo di conoscere i suoi segreti. Ormai sapeva che Kate era innamorata di un coetaneo, ascoltava le canzoni di Adele, impazziva per Roger Federer ed era ghiotta di gelato. Ma c’era dell’altro. Non poteva più attendere: doveva uccidere Kate, prima che fosse troppo tardi. L’ora della vendetta era scoccata. 

    Chiuse gli occhi, mentre intorno a lui tutti applaudivano. Si sentiva onnipotente, come un re che faceva decapitare un suddito con un gesto della mano. Il teatro si dissolse, e un’immagine del passato affiorò alla sua mente.

    Il ceppo per Kate era già pronto.

    La ragazzina avrebbe avuto l’onore di danzare per l’ultima volta, davanti ai suoi occhi. Ma il palcoscenico sarebbe stato diverso.

    Immaginò Kate nel labirinto, con le braccia e le gambe insanguinate, segnate da una ragnatela rossa di graffi: niente in confronto alle altre ferite inferte nel corpo e nell’anima. Avrebbe percorso i corridoi bendata e con le mani legate dietro alla schiena. Un cammino obbligato nella fitta trama di filo spinato, verso il cuore del dedalo: la sala del trono, dove il re l’avrebbe aspettata.

    Nella sua mente malata echeggiavano le urla disperate di Kate.

    Sentiva la ragazzina gridare… gridare… gridare.

    Poi ci sarebbe stato solo il silenzio.

    Il suono della morte.

    2

    Domenica, 29 luglio 2012

    «Ciao, Tobia. Homo homini lupus

    La stretta del ragno si fece subito sentire. Tobia Allievi, ispettore dell’Europol di Londra, percepiva il male. Era una sensazione dolorosa che gli attanagliava il petto, come se una vedova nera si fosse avvinghiata con le zampe al suo cuore, stringendolo fino a bloccarne i battiti. Sudò freddo, sorpreso che Lk, il Latin killer, conoscesse il numero del suo cellulare. Com’era possibile? Guardò l’ora: mancavano pochi minuti a mezzanotte.

    «Stupito di sentirmi, vero? Sono tornato e voglio divertirmi. Sai, dopo tutto questo tempo chiuso in gattabuia per colpa tua» sussurrò il diabolico assassino. La sua voce aveva un suono metallico, era chiaramente contraffatta. «Ho già preparato altri messaggi in latino per Domitilla. A proposito, felicitazioni, so già tutto di te.»

    Allievi ripensò alla telefonata del collega Lacroix di Ginevra. «È evaso dal carcere» gli aveva detto Philippe. Per mesi Lk aveva fatto perdere le sue tracce. 

    Perché mi hai chiamato? Cos’hai in mente di fare?, si domandò in preda all’angoscia.

    Rimase in silenzio a riflettere. Trovò una risposta e rabbrividì. Subito la scacciò via, come una mosca fastidiosa.

    «Presto scoprirai il perché di questa telefonata. Le danze stanno per iniziare, dopo tanta astinenza. Salutami Domitilla e dai un bacio alla piccola Aurora. Ci sentiamo presto.»

    Allievi si svegliò di soprassalto. Aveva la fronte imperlata di sudore. Ansimava, come colpito da un attacco d’asma.

    Era stato solo un incubo. Il solito, maledetto incubo che lo tormentava da quando Lacroix lo aveva informato dell’evasione di Lk. Il suo subconscio non gli dava tregua: il Latin killer si sarebbe fatto vivo. Presto. Molto presto.

    Il rapimento di Kate non era una coincidenza.

    Bionde e spumeggianti, così gli piacevano le birre.

    Come tutti i fine settimana, Paul si era rifugiato nel pub sulla riva del Tamigi. Beveva per dimenticare, si era scolato fiumi di alcolici senza riuscire a placare la sete. Era una delle tante vittime della crisi. Solo pochi anni prima era stato un mago della finanza, ricco sfondato e circondato di belle donne. Ma la fortuna alla roulette della speculazione gli aveva voltato le spalle. «Sei licenziato!» gli aveva urlato il suo capo, dopo avere scoperto le perdite che Paul aveva causato alla banca.

    Le bottiglie vuote erano le sue uniche amiche: a loro Paul biascicava monologhi senza senso, facendo le ore piccole.

    Come quella notte.

    Aveva raggiunto la Torre, più ubriaco che mai. Parlava alla città, alla luna piena, al serpente nero del Tamigi. Le sue parole erano storpiate, lunghe come lo strascico del vestito di una sposa, quasi incomprensibili.

    Ondeggiava. Un passo, un altro ancora. Una danza su un palcoscenico rotante. Paul aspettava il momento giusto per poggiare il piede su quella terra mai ferma. Davanti a lui c’era solo un mare di solitudine.

    Scorse un’ombra nel fossato, o almeno così gli sembrò. Sentì una melodia che gli ricordava un gioco di quando era bambino. Incuriosito, abbrancò alcuni rami d’edera e si lasciò cadere a occhi chiusi. Ruzzolò sull’erba umida.

    Sbatté le palpebre e vide davanti agli occhi la piccola danzatrice di un carillon ruotare su se stessa. Teneva il braccio sinistro arcuato verso l’alto, quello destro piegato davanti al busto, era sollevata sulle punte e indossava un vaporoso tutù, una nuvola di zucchero filato. Danzava sulle note di una musica che non conosceva.

    Poi vide la ragazzina.

    Sembrava una grossa bambola vestita da ballerina. Forse stava dormendo, giaceva in una zona del fossato senza erba.

    Ma non è terriccio, biascicò Paul nella sua mente.

    Il corpo era immobile. Non c’erano segni di vita.

    Sono ubriaco fradicio! Ma so riconoscere un cadavere, pensò.

    I conati di vomito lo colsero all’improvviso. Tirò su l’anima e si accasciò a terra, esausto.

    Uno dei corvi della Torre gli sfiorò il capo e si appollaiò su una trave del ponte di legno. Fissò la scena come un avvoltoio affamato, attirato dall’odore del sangue.

    Il Big Ben batté le cinque.

    Paul cercò di rimettersi in piedi.

    Fu accecato da una luce. 

    Sentì un urlo.

    Poi fu notte.

    Non era più riuscito a prendere sonno, dopo quell’incubo. I primi rumori della città filtravano attraverso i vetri della stanza, assieme alle fioche luci del giorno. L’alba sul Tamigi era sempre diversa, un’esplosione di colori che baluginavano sull’acqua. Era estate, la giornata si annunciava calda e soleggiata. Ma sulla tavolozza, quella mattina, c’era solo il colore nero.

    Si aspettava la telefonata. Allungò di scatto la mano verso il comodino, afferrò il cellulare e ascoltò in silenzio.

    «Ispettore Allievi, abbiamo trovato Kate: aveva proprio ragione!»

    Tobia si girò verso Domitilla. Vide che stava ancora dormendo al suo fianco. La piccola Aurora, nel lettino, sembrava un angioletto. Stringeva forte al petto un orsacchiotto di peluche. Era un regalo di una zia di Domitilla che viveva a Bologna: l’orsacchiotto nascondeva uno scaldino in una tasca della pancia. Aurora lo abbracciava soprattutto d’inverno, le piaceva il calore che rilasciava.

    «Arrivo subito» sussurrò.

    Riappese e sentì Zoran grattare alla porta della camera da letto. Il pastore tedesco aveva una decina d’anni, quasi tutti trascorsi nella gabbia di un canile. Tobia gli aveva regalato la libertà e una famiglia. Domitilla aveva adottato anche un gattino, bianco con due macchie nere attorno agli occhi. Era stato amore a prima vista con Zorro, ribattezzato con il nome Matisse dopo che il micino aveva immerso le zampine nella ciotola del latte e dipinto il pavimento.

    «Grazie, ispettore» aveva detto la titolare del canile «sarà un papà speciale per il vecchio Zoran.»

    Allievi aveva sorriso. Suo padre Paolo, una guardia giurata, era stato ucciso pochi giorni prima di Natale, quando Tobia era solo un bambino di cinque anni, illuso che la vita fosse tutta rose e fiori. Quel bambino si era forgiato in breve tempo un carattere da adulto, conservando, però, la fantasia e la capacità di sognare a occhi aperti. Tante volte si era sentito perso in un deserto, con la bocca riarsa e la pelle scottata da quella sventura. Aveva immaginato di trascinarsi a fatica oltre una duna, in cerca di un’oasi dove spegnere la sua sete di affetto. Finalmente i suoi sforzi erano stati premiati. L’oasi esisteva nella sua mente: era solo un miraggio, emerso dal mare di solitudine quando Tobia si era immaginato che suo padre fosse ancora in vita e gli potesse parlare. Paolo Allievi non era mai morto e sarebbe vissuto finché Tobia non avesse smesso di sognare. Suo padre comunicava con gli occhi cerulei, trasparenti come l’acqua di quell’oasi illusoria; gli raccontava le favole che Tobia non aveva potuto ascoltare; lo prendeva per mano e lo accompagnava lungo il difficile cammino della vita. Nei momenti di sconforto, Paolo era sempre al fianco di Tobia e gli regalava sorrisi che scaldavano il cuore. Anche quel giorno lo stava ascoltando, come un angelo custode. Il ragazzo ne era certo.

    Me lo sentivo, papà.

    Aprì la finestra del soggiorno per fare uscire Zoran nel piccolo giardino. Non temeva che potesse scappare: gli aveva fissato al collare un dispositivo di rilevamento satellitare, con due luci a led blu, che si azionava quando il cane usciva da una certa griglia. Era già successo tre volte, e Allievi aveva collegato il dispositivo al cellulare di Annie, la bambinaia, che spesso nella bella stagione portava a passeggio Aurora e il cane. Sua figlia era stranamente attratta da quelle due luci, che chiamava «le sue stelle».

    Accarezzò Matisse, che gli fece le fusa, e riempì di cibo le ciotole dei due animali.

    Poi chiamò Lacroix. «È qui a Londra.» Non disse altro.

    Sotto la doccia ripassò a mente il caso Kate Scott. La ragazzina era scomparsa da due giorni. L’ultima persona a vederla viva era stato un egiziano, il proprietario di una pizzeria. Erano le 20.42, Omar se lo ricordava bene perché aveva guardato l’orologio appeso nel locale. Pioveva a dirotto e soffiava un vento fastidioso. Kate era uscita dal negozio con le sue pizze. Aveva con sé un ombrello giallo e indossava una mantella rosa. Era svanita nel nulla, inghiottita dal vortice del male. Le ricerche erano state vane, l’ipotesi di una fuga di casa dopo un banale litigio con la madre era stata subito scartata. C’era ben altro da scoprire, Tobia avrebbe dovuto scavare più a fondo, forse i genitori di Kate gli avevano tenuto nascosto qualcosa. Purtroppo gli allarmi della sua squadra, la London Team, sul giro di pedofili erano rimasti inascoltati.

    Saltò la colazione, un nodo allo stomaco gli aveva tolto la fame. Si vestì in fretta, diede un bacio a Domitilla e ad Aurora, ancora addormentate, e raggiunse a piedi la sede dell’Europol, a un isolato dal suo appartamento, poco distante dal London Eye.

    Entrò in ufficio e fu subito avvicinato da John Grant: «Cazzo, Tobia, avevi proprio ragione!».

    John si cosparse il capo di cenere. Era sulla quarantina, alto e con i capelli biondi. Gli occhi azzurri lasciavano trasparire la sua tristezza interiore. Dirigeva la sezione antipedofilia dell’Europol da un anno, e non aveva dato retta a Vladimir Ripchenko. L’esperto informatico russo aveva intercettato alcune mail sospette; in una di queste, un tizio che si firmava solo con la lettera H annunciava che avrebbe fatto parlare di sé tutta Londra.

    «Ormai è tardi, John» gli rinfacciò Tobia dandogli le spalle. Stava guardando fuori dalla finestra: la vista sul Millennium Bridge era splendida. Si voltò, ascoltò tutti i dettagli e aggiornò a occhi chiusi la sua opera d’arte mentale: un insieme di ellissi e frecce colorate, dove collocava gli elementi di un’indagine come le tessere di un rompicapo.

    La vittima, Kate Scott, aveva undici anni. Era bionda con gli occhi azzurri. Indossava un tutù rosa macchiato di sangue. Era stata violentata: c’erano lividi blu sul collo. Le braccia, le spalle e le gambe erano piene di graffi. L’indice della mano destra era stato amputato. Sul polpaccio destro c’erano dei segni, forse di un morso. L’assassino aveva abbandonato un carillon, un tappeto persiano e un messaggio in latino, scritto a mano con il sangue e firmato solo con la lettera H, sul retro di una cartolina ficcata in gola alla vittima.

    Tobia mise in funzione il carillon e ascoltò la musichetta. Era diversa dalle solite. Non la riconobbe, ma sapeva chi avrebbe potuto aiutarlo. Si passò le mani sul viso, sprofondò nella poltrona e sospirò: «Cosa può significare tutto questo?».

    John alzò le spalle. «Forse il tappeto è servito per trasportare il cadavere.»

    Tobia aggrottò la fronte. «È un’ipotesi plausibile. Aspettiamo l’autopsia, Charanjit è già al lavoro. Darò il carillon a Vladimir, lui saprà cosa fare. Quanto al tizio ubriaco, interroghiamolo al più presto. Potrebbe avere visto qualcosa.»

    Domitilla si svegliò. Allungò un braccio in cerca di Tobia, ma tastò solo il vuoto sopra le lenzuola. Zoran era accucciato su un tappetino, sapeva che non gli era permesso salire sul letto. Rannicchiato tra le sue gambe c’era Matisse.

    Si alzò, si stiracchiò e prese in braccio Aurora. Il pensiero che qualcuno avesse strappato Kate all’amore dei suoi genitori la faceva schiumare di rabbia.

    Chiunque tu sia, hai i giorni contati, brutto bastardo!, pensò.

    Strinse ancora più forte al petto la figlia. Aveva un cattivo presentimento: Tobia le stava nascondendo qualcosa. Ripensò alle fotografie di Kate sui giornali e agli appelli della madre in televisione. Sapeva come avrebbe reagito, se le avessero rapito Aurora. Il suo viso si incupì. Afferrò il cellulare, chiamò suo marito e lo pregò di dirle la verità.

    Zoran alzò la testa e drizzò le orecchie, come se fosse interessato a conoscere la sorte della ragazzina rapita. Matisse, invece, continuò a sonnecchiare, del tutto indifferente. 

    «Hanno trovato Kate questa notte, alla Torre» rispose Tobia a voce bassa «ci sono tracce di un morso, forse di un serpente velenoso. Charanjit e Ronggang stanno cercando di capire quale.» Poi la informò del carillon, del tappeto e della cartolina. «Ti sto inviando alcune foto allegate a una mail, guardale subito con attenzione.»

    Domitilla accese il computer, scaricò la mail, esaminò le immagini e trasse le prime conclusioni: «Uhm, una frase in latino: Monumenta et metus. Memini. Significa: Ricordi e paure. Io ricordo. È lui, non ho dubbi. Il Latin killer non ha dimenticato, il messaggio è per te».

    «Sembrerebbe proprio così, ma potrebbe anche trattarsi di qualcuno che si spaccia per Lk. La cartolina cosa ti suggerisce?» 

    «Raffigura una danza macabra, dammi un po’ di tempo e ti saprò dire qualcosa di più.»

    «Forse hai ragione, sembra ci sia davvero la mano di Lk: la danza macabra è in perfetto tema con la vittima, una giovane ballerina. Ecco spiegato il carillon» commentò Tobia. All’età di cinque anni Kate era stata iscritta dai genitori a una scuola di danza. Alcuni giorni prima di essere rapita si era esibita in un saggio al Royal Theatre. «Però John è convinto che l’autore dell’omicidio sia un pedofilo» aggiunse l’ispettore, passandosi una mano tra i capelli. «Kate frequentava poche amiche, tutte di buona famiglia. E non aveva segreti: annotava in un diario le sue esperienze, come molte teenager. Nessuno l’aveva mai molestata.»

    «Credo che John si stia sbagliando, e mi è venuta un’idea.»

    «James, ho del lavoro per te!» 

    Ronggang Xu, il chimico cinese della Lt, posò il reperto, avvolto in polietilene, sul bancone del laboratorio. «È un tappeto. Lo hanno trovato questa notte alla Torre, accanto al cadavere di Kate. Scoprine la provenienza e analizza ogni singolo filo, se necessario.»

    James fece una smorfia. Indossava un camice bianco di una taglia più grande, una maschera trasparente sopra gli occhiali da vista e guanti di lattice. Poggiò la siringa che teneva in mano, liberò il tappeto dall’involucro e gli diede una rapida occhiata. «Vediamo… sì, è pane per i miei denti. Qui ci sono alcune macchie, questo è terriccio, c’è un filo d’erba» riconobbe mordicchiandosi un labbro.

    «Penso che sia stato rubato: non avrebbe avuto senso acquistarlo in un negozio per poi abbandonarlo sul luogo di un omicidio.»

    «Non è detto, dottor Xu. Il killer ha strappato l’etichetta per cancellare le tracce.» 

    «Rubato o non rubato, poco importa: trova ciò che è invisibile, so che ce la puoi fare! Ah, quasi dimenticavo, è un Tabriz. Me lo ha detto Vladimir.»

    James, sorpreso, alzò un sopracciglio e commentò: «Non sapevo che Ripchenko fosse esperto anche di tappeti persiani».

    A Ronggang sfuggì un sorriso ironico. «Tutto merito di Karl, il suo software.»

    «Il grande Karl! Dovresti parlarne con rispetto!» esclamò Charanjit Anand alle spalle dei due. Il patologo indiano era reduce dall’autopsia sul corpo di Kate e teneva in mano tre provette. «O vuoi ritrovarti il pc infettato da virus?»

    «Allora?» gli domandò Ronggang, ignorando le parole del collega.

    Charanjit confermò che Kate non era stata strangolata, nonostante la presenza di lividi blu sul collo. «È stata morsa da un serpente velenoso a una gamba. La morte è sopraggiunta in mezz’ora, un’ora al massimo. E questo mi fa pensare a un veleno molto potente, oppure iniettato in dose elevata, da uccidere un elefante. Una neurotossina che blocca la respirazione. Mi sono fatto un’idea del serpente, ma dovrete darmi voi la conferma. In queste provette ci sono i tessuti che ho prelevato: James, analizzali, dovresti trovare questa molecola. Guarda caso, il suo nome inizia con la lettera h» concluse il patologo, consegnando anche un foglietto con una formula chimica e una denominazione.

    Paul ripeté la stessa versione fino alla nausea.

    «Dunque è sceso nel fossato dopo avere visto un’ombra. Ne è sicuro?» gli chiese John.

    L’uomo si stava massaggiando le tempie. Aveva un mal di testa lancinante, i postumi della sbornia. Alzò lo sguardo. I suoi occhi, due ragnatele di capillari rosso fuoco, erano spenti, inespressivi.

    «Glielo giuro: ho visto quell’ombra» sussurrò, sfinito.

    «Ascolti bene questa storia, Paul. Forse le rinfrescherà la memoria» gli urlò John a muso duro. «Dalle stelle alle stalle. Due anni fa tocca il cielo con un dito: la fortuna è dalla sua parte, alcune speculazioni vanno a buon fine e, voilà, naviga nell’oro. Invece di accontentarsi, si lascia vincere

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