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Com'è amaro il paradiso
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Com'è amaro il paradiso

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About this ebook

Jamleh, una donna di quarantasei anni nata in Siria e moglie di un jihadista, viene lasciata dal marito che si unisce a un gruppo di guerriglieri. Quando un missile lanciato su Aleppo distrugge la sua casa, Jamleh decide di partire e il suo viaggio la porterà molto più lontano del previsto. Prima ad A’zaz, vicino al lago di Maydanki, dove incontra Thaira, una donna con la quale stringe un legame d’amore proibito, poi a Lampedusa, dopo un viaggio terribile sul Mediterraneo, e infine a Roma. Il paradiso però è sempre più amaro di quanto si immagini.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateJun 17, 2019
ISBN9788863939064
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    Com'è amaro il paradiso - Claudio Pepe

    Capitolo 1

    Roma, Italia. Estate 2016

    Ciò che successe quella mattina fu di una gravità assoluta. 

    I giornali, per aumentare l’effetto mediatico, riempirono le prime pagine con congetture e ipotesi di fantasia: nessuno si sarebbe interessato di verificare le vere cause. 

    Anche le televisioni non persero l’occasione per arricchire il palinsesto serale con materiali accattivanti, riempiendo le trasmissioni di pubblico ed esperti improvvisati. Fu come se gli operatori della stampa, gli intellettuali, i sociologi, i filosofi e i capi redazione non si vergognassero di sfoggiare la loro ipocrita conoscenza. Tutti volevano dare una voce a un capitolo di storia destinato a diventare un episodio memorabile. Nessuno rifiutò l’invito.

    Per ogni testata giornalistica fu un successo scontato scrivere su quella tragedia: tragedia che lasciò sul terreno alcune vite umane, per di più innocenti. 

    Il mondo dell’informazione si preparò a tutto per sfruttare quel momento di gloria della cronaca nera. Anche le emittenti locali pur non operando sul territorio discussero per ore della vicenda. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia nessuno si lasciò scappare l’opportunità di lucrare sull’accaduto.

    Giornalisti e cameraman erano presenti in massa nel luogo della strage con tutti i loro strumenti di lavoro. I commentatori di tutto il mondo si recarono sul posto con cineprese, microfoni e taccuini per documentare le cause ancora non ben comprese. Molte persone giunte sul posto pensarono subito a una disgrazia, alcune all’allestimento di un set cinematografico, non raro da vedere per le strade di Roma, mentre altre vissero l’evento come un’occasione per riempire la noia della loro giornata. I soliti appassionati di tragedie, quelli non mancavano mai, commentarono con banali supposizioni.

    «Ecco! Una città che cade a pezzi…»

    «La solita fuoriuscita di gas…»

    «Una bomba…»

    «Un attentato…»

    «La mafia anche qui a Roma…»

        Capitolo 2

    L’esplosione

    La detonazione fu violenta e improvvisa.

    Il boato fece tremare i vetri delle finestre fino a cinquecento metri di distanza. La strada si riempì di cocci e stracci di ogni tipo, mentre il fumo, invaso tutto il viale dei Parioli, obbligò gli automobilisti ad abbandonare le vetture e a trovare riparo all’interno dei negozi.

    L’aria, acre e pungente, divenne presto irrespirabile.

    Non potevano non notarsi i pezzi dell’arredamento fuoriuscite dal piccolo studio in cui era avvenuta l’esplosione.

    All’interno degli ambienti i soccorritori trovarono i resti straziati di cinque persone ridotti in piccole parti: la carne e il sangue si erano mescolati con il materiale andato in frantumi. I corpi erano irriconoscibili, in particolare quello della suicida sembrò volatilizzato.

    Alle autovetture della polizia si affiancarono quelle dei carabinieri, due ambulanze e i vigili del fuoco. Per questi ultimi fu impossibile entrare in quel luogo di morte senza calpestare resti umani, organi interni e cervella. Perfino sulla parte alta delle pareti degli ambienti interni e sul soffitto erano presenti macchie di sangue e pezzi umani attaccati all’intonaco.

    I vigili urbani transennarono la strada per non lasciare passare chiunque non fosse autorizzato alle indagini o al ripristino dell’ordine. Il marciapiede adiacente allo studio era coperto da corpi che non davano segni apparenti di vita, tutti con il volto rivolto verso l’asfalto come se fossero caduti dal tetto di una palazzina. I loro indumenti, solo qualche istante prima indossati con piacere, si presentavano ora, alla vista dei soccorritori e dei passanti, bruciacchiati e sgualciti.

    Erano persone colpite dal lancio di chiodi e bulloni provenienti dai locali: locali completamente devastati dall’esplosivo nascosto sotto l’abito di una donna entrata nello studio qualche minuto prima. Anche viti e palline di piombo facevano parte di quel corredo di morte.

    Ci fu tumulto ed eccitazione tra gli animi della gente e degli addetti ai lavori. Tutti erano consapevoli di essere, in quel giorno, i protagonisti di un evento eccezionale e unico non solo per quel quartiere, ma per tutta Roma e per l’intera nazione.

    Semy scese dalle scale del suo appartamento dopo aver sentito tremare il pavimento sotto i suoi piedi. Presto si trovò in strada nel mezzo del trambusto tra persone e ambulanze colme di feriti. In tutta quella confusione non riuscì a capire cosa fosse accaduto fino a quando, fattasi largo tra la folla compatta, scorse l’ingresso del suo immobile completamente devastato.

    L’incredulità divenne angoscia. La paura di aver perso una persona cara pervase la sua mente. Tutto era possibile: che Jamleh si fosse salvata o fosse stata solo ferita e trasportata via dall’ambulanza. A Semy non restò che cercare qualcuno con cui parlare, mentre il sangue le scorreva freneticamente nelle vene.

    I curiosi si accalcarono in massa di là dalle transenne, aumentando lo stato di confusione e agitazione. Ognuno sentiva il bisogno di urlare qualcosa a qualcuno.

    «Mi state calpestando, non riesco a vedere nulla» dicevano i più, infastiditi loro stessi dalla moltitudine di persone.

    «Fate qualcosa, abbiamo paura» gridava un’anziana signora verso la polizia.

    «Rimanete oltre le transenne, potrebbe arrivare una seconda esplosione» si affrettò a dire il comandante dei vigili del fuoco sperando di far allontanare qualcuno.

    Nella zona regnava il disordine.

    Semy, ormai sempre più stordita dalle urla e dalle sirene, riuscì a riconoscere, per la divisa, un poliziotto. Infilandosi magistralmente tra i pochi spazi vuoti lasciati dalla gente, raggiunse la transenna nel punto esatto, dove quest’ultimo si era appostato.

    «Che cos’è successo?» chiese all’uomo girato di spalle davanti a sé, senza però ricevere alcuna risposta. «Dov’è Jamleh? Doveva essere lì dentro. Spero sia uscita in tempo.» 

    «Sono tutti morti signorina, la prego di allontanarsi» rispose il carabiniere, fiero nel modo di portare l’abito e con tutta l’aria di ricoprire un ruolo di responsabilità tra le forze dell’ordine. 

    «Quello è il suo negozio?»

    Semy si sentì rassicurata da quell’uomo. Sembrava conoscere la situazione meglio di chiunque altro.

    «Sì, è il mio negozio» rispose con il cuore a mille battiti.

    «Le dovremmo fare alcune domande, rimanga in città, avremo bisogno di molte informazioni» proseguì il graduato senza badare all’agitazione di Semy che gli aveva parlato balbettando.

    «Ma io ho bisogno di sapere cos’è successo, non posso stare ferma qui. Mi tremano le gambe, ho le mani sudate, non vede… mi faccia passare, la prego.»

    «Cerchi di avere pazienza, non capisce la situazione in cui ci troviamo? Mi lasci lavorare! Comunque non si muova da qui, la faccio parlare con il mio comandante» rispose lui.

    Finalmente l’ufficiale disse qualcosa di utile. Si trattava solo di aspettare, di avere un po’ di pazienza.

    Il comandante, con la sua bella uniforme da parata, piena di nastrini luccicanti, si fermò davanti alla ragazza e la guardò dal basso verso l’alto come se avesse la necessità di fare un controllo minuzioso del modo in cui era vestita, per poi, con il volto scuro e la voce decisa, darle un preciso e irrinunciabile invito.

    «Domani dovrà presentarsi in caserma alle otto e senza alcun ritardo, altrimenti verremo noi a prenderla a casa.» 

    Dopo aver esaurito la sua parte, il graduato si allontanò per poi sparire tra la folla che non accennava a diminuire.

    Semy, in quel momento, indossava una vestaglia pesante. L’indumento le scendeva dalle spalle fino a incontrare le due ciabatte color ciclamino. Sul dorso delle calzature apparivano in bella mostra due piccoli ciuffi di piume di colore nero. Le davano, a prima vista, un senso d’inadeguatezza. Si era appena alzata dal letto e precipitata in strada indossando la prima cosa che le era capitata tra le mani.

    Qualche ora dopo, dove prima si trovava il modesto ufficio di Jamleh, non era rimasto più nulla. Si era fatto buio e le luci dei lampioni in strada si confondevano con quelle accese dagli addetti alla sicurezza stradale per segnalare la zona vietata al transito dei pedoni. Soltanto alcuni passanti, ostinati curiosi, guardavano dal lato opposto del marciapiede, davanti al nastro rosso e bianco lasciato dalle forze dell’ordine. Da vedere c’era solo quanto rimasto dell’esplosione: un buco vuoto con le pareti annerite dal fumo. 

    Nessuno poteva avvicinarsi. Il lampeggiante in bella mostra posto sopra il cofano della macchina della polizia girava senza sosta segnalando il pericolo. La sua luce intermittente illuminava a tratti l’ambiente circostante alternando ombre a improvvisi bagliori.

    Semy, sempre più preoccupata, ma meglio vestita, prese la sua vettura e si recò immediatamente all’ospedale per sapere se la sua amica era stata ricoverata. All’entrata del Policlinico Tor Vergata davanti a un computer un’anziana infermiera controllava gli ultimi ingressi.

    «Sono molto dispiaciuta signorina, ma non abbiamo notizie di questa persona. Tra i pazienti ricoverati fino a questo momento, nessuno corrisponde al nome che mi ha dato. Se si riferisce al fatto di questa mattina in viale dei Parioli le posso solo dire che qui sono arrivate le persone trovate distese in strada al momento dell’esplosione, sono tutti uomini e donne con notevoli ferite ma nessuno in pericolo di vita; degli altri non sappiamo nulla.»

    Non le restava che rassegnarsi e aspettare il giorno dopo. L’indomani avrebbe avuto notizie certe direttamente da chi era intervenuto sul posto, anche se difficilmente sarebbero state notizie incoraggianti. Jamleh, infatti, non la chiamò e non rispose nemmeno alle sue numerose telefonate. 

    Tornò a casa, si sedette sul divano e con il telecomando in mano girò tutti i canali in cerca di notizie. Ci furono diverse edizioni straordinarie, da cui però non emerse nulla che già non sapesse.

    Tutti i telegiornali passavano direttamente dalle notizie del fatto terroristico ai servizi sullo sport, su come mangiare senza ingrassare o alle maldicenze sulla regina d’Inghilterra. Non c’era posto per un po’ di meditazione, tutto era in continua evoluzione. Le vicende della vita non conoscevano pause. Semy passò tutta la notte in uno stato deprimente.

    Alle otto del mattino, come le era stato ordinato, si recò alla stazione del comando dei carabinieri in via dei Volsci, ma dell’impettito comandante non vide nemmeno l’ombra.

    A riceverla c’era un giovane tenente, Vincenzo Coppola, dall’aria buona e dai modi molto cortesi. Aveva il compito di redigere il verbale, ma non certo quello di raccontarle come si erano svolti i fatti. Non poteva farlo in quel momento per la riservatezza richiesta dalle indagini.

    Si limitò a riferirle che non era stata una fuga di gas a provocare la distruzione del suo locale e quindi non era stato un incidente. A causare i danni e quei morti era stata una persona entrata nel suo immobile con addosso una cintura piena di esplosivo. Una suicida che aveva portato via con sé la vita di altre quattro persone compresa Jamleh.

    Semy, per paura di svenire, si sedette su una vecchia sedia di legno accanto a lei, tra una scrivania anch’essa in legno altrettanto usurata e un giovane uomo in divisa con le mani sulla tastiera di un computer, pronto a prendere nota della sua dichiarazione. In quell’istante ebbe un momento di abbandono e cominciò a piangere senza riuscire a trattenersi.

    Il tenente, alla vista del volto in lacrime della giovane donna, non seppe controllare il sentimento di tenerezza che lo pervase: guardò Semy e, mentre socchiudeva gli occhi, le porse il fazzoletto di carta che aveva sopra il tavolo. Poi, dopo un breve silenzio, sentì il dovere di darle la sua opinione con la speranza di attenuarle il dolore.

    «Ascolti signorina, c’è gente che crede nella morte come l’unica soluzione al loro malessere. Per queste persone, fortunatamente poche, uccidersi equivale a liberarsi della condizione umana in cui si trovano per passare a quella spirituale, dove pensano di raggiungere la felicità che non hanno avuto nella loro vita. Solitamente sono uomini e donne che affidano la loro anima a un Dio che li premierà per aver compiuto, con il sacrificio della loro vita, un gesto di eroismo che gli darà il diritto di avere le porte del paradiso aperte. Se ciò sia vero, oppure falso, non ha alcuna rilevanza perché le loro menti credono fermamente che la morte non coincida mai con la perdita di qualcosa di unico e prezioso come la loro esistenza ma che, al contrario, essa sia la conquista della meritata eternità. Sono persone convinte di andare in un luogo migliore, dove si ritroveranno con i loro parenti e amici, quando anch’essi meritevoli del paradiso. Per questa gente il sacrificio della loro vita è un dono riservato al creatore per aprire l’ingresso del suo regno. Sono persone impazzite, non ragionano più come noi. Si sono messe fuori dal mondo reale, vivono in attesa della morte. È stato il destino, poteva capitare a chiunque, anche a lei se fosse stata nel suo locale. Si consideri perciò fortunata.»

    Semy uscì dalle stanze della caserma senza sapere che a uccidere la sua amica era stata una donna di nazionalità siriana.

    Per conoscere qualcosa sulla morte di Jamleh dovette leggere i giornali, i quali riportarono le informazioni sulle pagine di cronaca com’era loro consuetudine fare.

         Capitolo 3

    I mass media

    Il giorno stesso dell’esplosione, a soli pochi minuti dal fatto, tutte le reti televisive sospesero le trasmissioni per comunicare la tragica notizia, con tutti i folclorismi del caso. Anche i giornali, ricchi di fantasia, non mancarono all’appello, e non persero l’occasione per sfornare frettolosamente decine di articoli.

    I quotidiani:

    C’è stata una forte esplosione nel centro di Roma a pochi metri dalla sinagoga.

    Dalle prime indiscrezioni sembra trattarsi di un attentato provocato da un individuo fattosi esplodere all’interno dei locali di un piccolo studio professionale nel centralissimo viale dei Parioli.

    L’esplosione ha causato diversi morti e feriti. Non si conosce ancora il numero delle vittime: i rumors parlano di trenta persone coinvolte.

    A farsi esplodere è stata una persona di religione islamica affiliata all’Isis: pare si tratti di una donna.

    Dalle prime ricostruzioni degli investigatori, la terrorista si trovava nello studio di proprietà di un’altra donna anche lei di nazionalità siriana: forse una sua complice.

    Appena pochi istanti dopo l’esplosione, il traffico e la circolazione sono andati in tilt.

    Si pensa che la suicida fosse diretta alla sinagoga. Per fortuna non è riuscita a raggiungerla.

    Forse la donna, temendo di essere stata intercettata dagli agenti dell’Intelligence, ha cercato rifugio nello studio dell’amica, anch’essa probabilmente coinvolta nel tragico accadimento.

    I settimanali:

    Roma è stata colpita a morte dal fanatismo islamico, esponendo, da oggi in poi, la capitale a nuovi possibili attentati.

    Possiamo affermare che si tratta di un colpo diretto contro l’istituzione e la religione cristiana. 

    Sul posto si è recata la presidente della Camera la quale ha espresso tutta la sua inquietudine per l’avvenimento definendolo doloroso e disumano.

    Alcune fotografie riportano le immagini dei corpi straziati, stesi sul selciato, in un ambiente disordinato e colmo di gente spaventata. Non mancano in copertina i volti incappucciati dei carnefici dell’Isis, coperti da una tuta rigorosamente color arancio come i carcerati di Guantánamo.

    I mensili:

    La capitale è stata colpita in modo brutale. Tra i cittadini aleggia la paura di un altro attacco.

    Gli inquirenti ipotizzano che il carnefice sia una donna ricollegabile alle organizzazioni estremiste islamiche: sul luogo dell’incidente sono stati trovati, infatti, frammenti del tradizionale chador.

    È stato un attentato di portata internazionale: da oggi anche l’Italia è entrata a pieno titolo nel mirino del terrorismo di matrice islamica.

    Tutti i principali leader dei Paesi del mondo hanno espresso la loro solidarietà verso il nostro Paese. Tutti hanno definito l’attentato un atto barbaro contro la democrazia di un popolo civile e pacifico come quello italiano. Solidarietà e amicizia sono state espresse dal mondo musulmano con il rammarico per tutte le vittime.

    In molte piazze sono stati organizzati cortei e manifestazioni contro il terrorismo: i più facinorosi hanno preso di mira le ambasciate turche. Altri si sono scagliati contro le forze dell’ordine e le autorità, incolpandole di non essere state in grado di prevedere quello che sembra essere a tutti gli effetti un attentato organizzato da cellule dormienti di criminali islamici. A distanza di alcune settimane nulla si conosce della suicida e dei suoi legami con probabili fiancheggiatori. Le forze di polizia stanno cercando di capire come i terroristi siano potuti arrivare nella capitale senza essere scoperti. Com’è stato possibile trasportare tutto l’esplosivo necessario alla detonazione? Gli inquirenti hanno richiesto il tempo necessario perché sia fatta completa luce sull’accaduto.

    In Vaticano:

    «Santità, sono arrivati a Roma. Si sono fatti esplodere vicino alla sinagoga. Forse volevano venire qui da noi.»

    «Monsignore, non dia retta ai giornali. Si accerti come meglio può e poi mi riferisca. Ci sono state vittime?»

    «Dicono diverse persone, Santità.»

    «Che Dio perdoni gli autori e accolga nella sua grazia le vittime. Questa mattina diremo una preghiera per tutti.»

    «Padre, dobbiamo essere prudenti, tra i nostri fratelli musulmani vi sono troppe persone con l’animo cattivo.»

    «Ricordati, loro sono i figli di Dio che hanno sbagliato strada. E poi non temete per me: se dovesse succedermi qualcosa di grave, il Signore avrà sicuramente cura della mia anima.»

    Semy non sapeva nulla di più di quanto riportato dai giornali. Aveva perso un’amica e ciò che si era costruita in anni di sacrifici.

    Jamleh non le aveva mai raccontato delle sue esperienze in Siria e dei rapporti instaurati in Medio Oriente. Con lei preferiva chiacchierare del futuro. Il passato era un sasso, seppure momentaneamente dimenticato in fondo al mare. In nessuna occasione l’amica aveva fatto cenno alle sue relazioni con le persone conosciute ad Aleppo, nemmeno alla passione per Thaira e a tutti quei momenti drammatici imposti dalla guerra. Ogni cosa successa l’aveva compressa nell’angolo più lontano e oscuro del suo cervello, imprigionata e tenuta a bada. 

    Semy conosceva Jamleh per com’erano state in quei giorni, felici e piene di prospettive per gli anni futuri che avrebbero dovuto trascorre insieme. Non c’era bisogno di altro. Erano due donne sole e sapevano tenere i loro sogni stretti in grembo.

    Capitolo 4

    Aleppo, Siria. Estate 2013

    Ero in piedi, davanti a mio marito, decisa a confessare tutti i miei pensieri sulla sua insana idea di voler partire per andare a combattere. Credevo che nessuno mai gli avrebbe chiesto di arruolarsi nell’esercito siriano per fare il soldato o per indossare qualche grado appuntato sulle spalline di una divisa militare.

    Era da poco tornato a bordo di un camioncino nero con diverse macchie verdi con cui aveva viaggiato per due giorni. La sua volontà, senza possibilità di replica, era di lottare per gli ideali dell’Islam.

    «Il nostro popolo deve liberarsi dall’imperialismo delle multinazionali che sfruttano la nostra terra senza ripagarci per ciò che meritiamo» mi diceva assumendo l’atteggiamento della persona certa delle proprie ragioni. Senza dare alcuna importanza alla sua baldanza, io replicavo ancora più convinta: «È impossibile comprendere ciò che mi stai dicendo. Dimmi cosa possiamo guadagnarci noi, solo così potrei trovare una qualche convincente giustificazione alla tua voglia di lasciare la nostra casa. Non credo siano valori quelli di uccidere persone sconosciute. Non hai mai visto il loro volto, non sai in quali condizioni vivano, come la pensino e se le loro idee siano tanto diverse dalle tue».

    «Non vuoi capire, ci sono molte potenze economiche desiderose di approfittare di noi. Non parlare come una stupida!» mi rispose lui con la solita maschile arroganza.

    «Non sono stupida. La lotta contro le multinazionali è un’utopia e come tutte le utopie non si realizzerà mai. Tu vuoi fare una cosa stupida, insensata, pericolosa e incosciente. In guerra toglierai la vita a uomini che non ti hanno fatto nulla. Questa non è una battuta di caccia. Sopra di

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