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Le cose che perdi
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Le cose che perdi

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About this ebook

Paolo è un autore di romanzi di successo. Ha una vita professionale appagante, che scorre lineare tra scrittura dei testi, incontri letterari e presentazioni delle opere.
Lo stesso non può dirsi, però, della sua travagliata e burrascosa vita sentimentale, in costante oscillazione tra desiderio di normalità e voglia di provare sempre nuove emozioni, sulla spinta della propria natura passionale.
Le sue relazioni si muovono su binari paralleli che solo per brevi tratti si avvicinano, senza mai incrociarsi davvero, in un fragile e spesso precario equilibrio. Fino al momento in cui quei binari si interrompono bruscamente, costringendo ognuna delle donne a lui vicine a riannodare, con dignità e consapevolezza, le fila di un’esistenza che merita comunque di essere raccontata…

Stefano Cannistrà nasce nel 1956 a Roma, dove ha vissuto, studiato e lavorato per tanti anni. Laureato in Giurisprudenza, consegue l’abilitazione all’insegnamento nelle materie giuridico-economiche. Sposato e con due figli, nel 1992 si trasferisce con la famiglia a Perugia, dove tutt’ora vive. Attualmente in pensione, è stato un dirigente pubblico. Ha sempre riservato uno spazio importante alla scrittura: inizialmente curando articoli di stampo giuridico; con il passare degli anni riscopre però un’antica passione per la narrativa che lo porta a scrivere il suo primo romanzo. Esordisce con Chiado editore, nella collezione “Viaggi nella finzione”, con La panchina (I edizione dicembre 2017), romanzo che ha ottenuto diversi riconoscimenti letterari in concorsi nazionali e internazionali, tra i quali il V Premio Internazionale “Salvatore Quasimodo” – premio della giuria in qualità di finalista. 
Dopo i positivi ritorni ottenuti, le persone a lui da sempre vicine lo hanno spronato fortemente a proseguire con la produzione letteraria. Nasce così il secondo romanzo, Le cose che perdi.
LanguageItaliano
Release dateJan 31, 2023
ISBN9791220136648
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    Book preview

    Le cose che perdi - Stefano Cannistrà

    Prefazione

    Ho scoperto la scrittura di Stefano con La panchina, opera prima che ha sfidato la narrativa sul terreno più insidioso: l’amore.

    Sono arrivata a lui attraverso il passaparola, la zattera di cui possono disporre gli esordienti talentuosi che devono prendere il largo nel mare magnum editoriale. Ecco, con quel mezzo galleggiante Stefano ha saputo affrontare le onde in mare aperto e farsi strada in un mercato ricco di proposte fortemente sostenute.

    Con Le cose che perdi, torna in pedana per sfidare il lettore in punta di fioretto. La sua seconda opera non è un duello ma un incontro meramente accademico, una sorta di allenamento ai sentimenti da sollecitare con una spada alleggerita, il fioretto appunto, per non colpire al cuore mortalmente ma esercitare alla versione più pura dell’amore.

    Il romanzo ruota attorno a un argomento spinoso quanto umano: l’amore condiviso.

    Come destreggiarsi tra le pieghe di un rapporto amoroso multiplo, quello tra uno scrittore di successo e tre donne, senza uscirne compromesso?

    Stefano ha dato al protagonista del suo libro la capacità e l’onere di alternare lo slancio amoroso tra una moglie e due donne molto importanti, eternamente presenti nella sua vita con modalità diverse tra loro.

    Difficile procedere nella narrazione senza incappare nell’accusa di narcisismo affettivo, eppure lui ci è riuscito…

    Il racconto si svolge proprio in punta di fioretto, senza mai colpire gli organi vitali, ma secondo quel fraseggio schermistico che, nella sua perfetta esecuzione, considera nullo il colpo simultaneo. Esattamente come questa nobile disciplina, la narrazione di Stefano procede con leggerezza e profondità, agilità descrittiva e una buona tattica di scrittura.

    Non si tratta del semplice schema del conquistatore irriducibile e delle sue prede inermi, ma di un complesso groviglio di rapporti all’interno del quale è affascinante il meccanismo di aggiudicazione del potere.

    Paolo, il protagonista del romanzo, non è seduttivo, ma seducente. Non vuole stordire le proprie conquiste con abbacinanti fuochi pirotecnici, ma amare sinceramente le tre donne che hanno assediato diversi comparti del suo cuore. Con sincerità, lontano da ogni ambizione di dominio.

    Trama difficile da rappresentare centrando l’obiettivo, ma Stefano ce l’ha fatta…

    La leggerezza con cui Paolo affronta questo circuito amoroso non sarà sgombra da sensi di colpa né scevra da un alto prezzo da pagare. Complice la morte, Paolo non avrà il tempo di redimersi nei confronti delle tre donne, e tutta la sua intima riflessione verrà racchiusa nella lettera scritta alla figlia Priscilla, unica a non tollerarne la visione dell’amore.

    Soltanto dopo, nello spazio di tempo successivo alla sua scomparsa, nelle donne che ha amato maturerà il senso vero di quei legami, ciascuno assolutamente risolto nel proprio ambito.

    Paolo avrà vissuto portando il fardello della colpa e le stimmate della fragilità per non aver donato l’esclusività a nessuna delle tre donne che ha sinceramente amato; loro, invece, sapranno con esattezza dove collocare il sentimento per lui. Il racconto regala a ognuna consapevolezza, dignità e molta forza. È attraverso il sentimento autentico ma distaccato di Valeria, quello indiscusso ma difeso di Patrizia e quello profondo ma discostato di Veronica che la figura femminile, in questo libro, trova colore e potenza. La donna assurge a vera artefice della propria vita e di quella dell’uomo che non la sceglierà.

    Il romanzo di Stefano mi evoca il mito seducente della ninfa Calipso che, pur amando Ulisse, non lo trattenne quando fu in procinto di tornare dalla moglie Penelope.

    Il racconto, ben strutturato, non lesina argomenti difficili, quanto urgenti: la violenza di genere e la pandemia.

    La storia si fa toccante quando tra le righe s’inserisce il complicato, delicato rapporto padre-figlia, eternamente dominato dal complesso di Elettra. Priscilla, lei sì, troverà difficile accettare la condivisione amorosa che caratterizza le relazioni paterne.

    Commovente l’epilogo pacificato di questo racconto che Stefano ha arricchito di riferimenti musicali e letterari.

    A lui riconosco di aver saputo costruire una bella storia, accettando la sfida di descrivere lo scomodo ruolo dell’uomo in piena discussione con sé stesso.

    Antonella Frontani

    1

    Paolo

    Lei me lo aveva detto:

    Arriverai con un mazzo di fiori in mano, ma non mi troverai. E tra quelle stanze vuote mi cercherai, perché nei luoghi in cui abbiamo vissuto, in cui abbiamo amato, sofferto, desiderato o aspettato, resta l’impronta di noi stessi. Restano le parole, le risate, il pianto, la musica e il silenzio.

    La guardai quel giorno, cercando nei suoi occhi qualche segno rivelatore, ma lei sorrideva e tutto sembrava uno scherzo, un modo per esorcizzare una paura, un presentimento, un sogno cattivo che martellava ancora nella testa.

    La baciai e, chissà perché, nonostante la sua allegria e la voglia di fare l’amore che in quel momento riuscì a trasmettermi, mi rimase tra le labbra il retrogusto di un addio.

    Oggi è l’otto marzo, in mano ho un mazzetto di mimose ben confezionato; sono andato dalla fioraia che conosco da una vita: è brava, è capace di inventare piccoli addobbi artigianali semplici ma di sicuro impatto estetico. E queste mimose sono così intense, abbellite da perline e racchiuse in una stoffa verde… Sì, sono sicuro che le piaceranno. E poi stasera a cena fuori, ho già prenotato in quel locale dove andiamo sempre, lì al centro.

    Apro la porta, mi ha detto che sarebbe passata a casa oggi; ha le chiavi e alcuni cassetti con le sue cose, per quando ha voglia di dormire da me. Ma è tutto come lo avevo lasciato stamattina, le stanze sono buie e le serrande abbassate; nel mio studio, però, l’abat-jour è accesa. Illumina il tavolo, il mio computer, i miei appunti, i mei libri, il mio gufo ferma fogli.

    Illumina la sua lettera.

    Appoggio le mimose, sento il respiro che cambia, ho la percezione del mio stomaco. Non mi siedo, apro la busta.

    La sua calligrafia curata, senza sbavature, mi ricorda che l’ordine dei sentimenti è uno stato dell’anima che io non ho mai posseduto.

    "Addio, Massimo, è il momento di andare via: l’amore ha bisogno di esclusività.

    Miriam."

    Sette capitoli

    Paolo restò a fissare lo schermo del computer, quella pagina che aveva appena ultimato, come a volersi convincere che poteva concludere così il suo romanzo: poche frasi dure e irrevocabili, capaci di costruire un ponte immaginario che gli consentisse di attraversare quel mondo oscuro, indefinibile, contraddittorio e volubile che è la fine di un amore.

    Lasciare che l’epilogo fosse inghiottito dal dolore di quel personaggio di fantasia che lasciava l’uomo che l’aveva delusa, che l’aveva esclusa da ogni possibile scelta di una vita insieme.

    Paolo decise che Massimo sarebbe stato giudicato dai lettori: lui non ne aveva più la forza, perché Massimo era lui stesso, camuffato da una narrazione avulsa da qualsiasi riferimento alla propria vita. Già… Eppure nel racconto mancava ancora qualcosa: quel lato dove non batte mai il sole, il terreno sul quale si muovevano davvero il suo sentire, la sua anima irrequieta; la solitudine interiore che solo l’amore sincero, colmo di passione ma che non diventa futuro, sa infliggerti.

    Ma era lui… o forse la sua immagine migliore, in fondo. Quella comune a tante storie clandestine che a un certo punto fanno i conti con la progettualità della vita e si spezzano. Già… Eppure mancava ancora qualcosa: quella capacità di amare più donne in modo diverso, con sfumature emotive complesse e in continua mutazione; quella incapacità di decidere da che parte stare e, al contempo, quella volontà istintiva di ritornare sempre al porto di attracco, dove la furia del vento si placa e ritrovi la strada di casa.

    Mancava ancora quella confessione che rende l’uomo libero, che non lava la coscienza ma dà un senso alle cose che perdi per tua colpa, rendendole ancora più belle perché ormai morenti. Quella confessione che precede l’espiazione e, chissà, forse il perdono.

    Non aveva ancora finito, mancava La versione di Massimo

    E come tutti i suoi libri, anche quello si sarebbe fermato al settimo capitolo.

    Era un vezzo di Patrizia: il sette era il suo numero fortunato, e fin dal primo romanzo aveva preteso quella particolarità. Doveva rimanere costantemente nell’ombra, fuori dai radar della moglie… Ebbene, almeno quella piccola richiesta gliela doveva concedere.

    Anche se un giorno Patrizia era andata via, un po’ come il personaggio di Miriam, in finale di storia. Ma forse, a differenza di Miriam, senza andarsene davvero.

    Valeria, sua moglie, forse non avrebbe nemmeno letto il libro, si sarebbe affidata alla sinossi che Paolo curava per l’editore… O forse sì.

    Troppi forse nella sua vita, rifletté Paolo.

    Ma sì, magari Valeria lo avrebbe letto per trovare la chiave di lettura di quel suo matrimonio finito in una terra di mezzo, in cui il fiume della vita scorreva lento e rassicurante ma tra due sponde ormai sconosciute, prive di approdo e a volte ostili, dove pullulavano sentimenti opposti. Così, la scelta di continuare la navigazione diventava obbligata nell’attesa lunga e snervante di sfociare in un mare; un qualsiasi mare, purché diverso dalla monotonia di quel fluire indolente e silenzioso.

    Come sempre, Valeria avrebbe curato la copertina del libro: era brava nel suo lavoro, disegnava fumetti per dare forma alle parole sospese in una nuvola. Si sorprese a pensare a quale tratto della sua matita si sarebbe ispirata per dare un volto alla sofferenza che trasudava da quella storia che ora aveva deciso di concludere in quel modo.

    Chiuse il computer nel momento stesso in cui avvertì la vibrazione del telefono, tenuto sempre in modalità silenziosa per avere la scusa, con sé stesso, di non sentirlo.

    Sul display, la foto di Veronica.

    È ancora l’otto marzo

    "Grazie, amore mio, per gli auguri… Che strano giorno sarà questo: tu lontano, in un’altra città, e io qui a ricevere mazzetti di mimose, complimenti e lunghe occhiate da uomini mediocri e ipocriti che per un giorno proveranno a essere passabili nelle loro galanterie forzate. Preferisco il mio capo, che non elogia nessuno e non ricorda le ricorrenze o non gliene importa, non so; che è sempre nervoso e sotto pressione ma ha gli occhi buoni, e non ti frega.

    Come va il romanzo? In questi giorni ti ho sentito quasi assente, distratto, forse preoccupato per qualcosa. Prima ti ho chiamato e non mi hai risposto, e mi stavo agitando. Poi, però, mi è arrivato il tuo messaggio colmo di pensieri affettuosi e di attenzioni, e mi sono di nuovo sentita al centro del tuo mondo.

    Chiamami appena puoi, io sono qui.

    Giorgio la prossima settimana è in gita con la scuola. Ti aspetto… Veronica."

    La musica si diffondeva leggera tra le pareti della stanza.

    Paolo pensò che si era fatta sera ma era ancora l’otto marzo, il giorno che lo aveva ispirato per immaginare la fine del romanzo proprio al crepuscolo. Pensò che fosse un modo raffinato per punire la sua pigrizia intellettuale, incapace com’era di coinvolgere le donne della sua vita in una gioiosa danza d’amore nella giornata in cui avrebbe potuto apostrofare (e chi più di lui?) quegli amori con trame sensuali e fitte di deliziosa attesa. E invece si limitava a qualche messaggino su WhatsApp a cui aveva risposto solo Veronica, giovane stella piena di ardore femminile e ancora affascinata da lui, maturo scrittore di romanzi d’amore di successo, silenziosamente lontano ormai da tutto.

    Già, Veronica, giovane stella ferita a cui ogni tanto mentiva; che lo credeva a Bologna dalla figlia, mentre invece era rimasto a Roma, a casa, a scrivere e a ritrovare pezzi di cuore.

    Prese il telefono e chiamò Priscilla, la figlia altera e distaccata, forse per farsi ancora del male, mentre la voce malinconica di Ivano Fossati sussurrava le ultime parole di una meravigliosa Settembre.

    Il frigo pieno

    Valeria sarebbe rimasta fuori a cena con le amiche, a festeggiare l’otto marzo.

    Proprio lei che non amava particolarmente quella ricorrenza; proprio lei, convinta femminista consapevole dello straordinario valore simbolico che dovrebbe ancora rivestire quella giornata, le cui radici sociali e politiche il nostro tempo disimpegnato ha tuttavia smarrito tra mimose e cenette divertenti, e niente di più.

    Di certo non si sarebbe soffermata a ricordare le battaglie delle donne del primo Novecento, sorseggiando un buon vino rosso dai profumi fruttati e stuzzicando gli antipasti di quel ristorantino quasi sotto casa dove anche loro due andavano, ogni tanto; avrebbe assecondato le chiacchiere con cui le amiche, finendo con lo scimmiottare le serate culturalmente rasoterra o giù di lì tipiche dei maschi con in testa solo una cosa, imbastivano discorsi superficiali incentrati in prevalenza sulle carenze affettive o sulle doti amatorie più o meno discutibili dei propri uomini, su vecchi ricordi di amanti più o meno reali, sulle stupefacenti dimensioni di quel tipo di cui una di loro era pazza o sulle penose performance di quell’altro tipo che invece si sentiva un Adone.

    Ma andava bene così, Valeria era una donna che sapeva adattarsi alle circostanze, all’ambiente in cui si trovava. Sapeva quando impegnare le energie nelle cose che contano e quando, invece, lasciarsi trasportare nel futile e nel divertente solo per il piacere di sentirsi parte di uno schema precostituito che in fondo non danneggiava nessuno, come durante quella serata spensierata e un po’ stupida.

    Valeria, poi, si era adattata a lui e solo per quello, pensò Paolo, meritava rispetto e ammirazione. Sorrise mentre apriva il frigo, trovandolo stracolmo di cibi e bevande.

    «Grazie, Valeria», gli venne da sussurrare, «non lo merito ma apprezzo.»

    Si preparò un toast, anzi due, aprì una birra e si sistemò sulla poltrona che amava. Da quanti anni aveva quella poltrona, ormai da rifoderare? Con un vago senso di pesantezza attribuito al passaggio impietoso del tempo, che per un attimo gli scivolò davanti agli occhi, ricordò di averla comprata quasi trent’anni prima, per il piccolo appartamento in affitto dove aveva iniziato la sua storia con Valeria, dove avevano vissuto per qualche anno dopo il matrimonio, dove era nata Priscilla.

    Su quella poltrona aveva trascorso l’iniziale e silenziosa vita comunicativa con la figlia. Quando finalmente riusciva ad addormentarla, dopo infiniti ed estenuanti giri attorno al risicato perimetro di quelle stanze, non l’adagiava subito nella culla, ma si sedeva sulla poltrona con quel fagottino tra le braccia. Amava tenerla appoggiata al petto, ascoltarne il respiro flebile, il battito del cuore, fissare i movimenti lievi delle sue palpebre. La teneva lì, facendo cenno a Valeria di andare a dormire, che ci pensava lui alla piccola; la teneva lì, a immaginarne il futuro, a figurarsi i discorsi che avrebbero fatto, i sogni che avrebbe realizzato e tutto ciò che avrebbe potuto donarle perché avesse una vita bella.

    Non immaginando che Priscilla sarebbe cresciuta senza aprire veramente il cuore a nessuno, chiusa nei suoi libri, immersa nei suoi esami e nei suoi ideali, e con in testa una sola meta: diventare una biologa ricercatrice.

    Per l’ennesima volta provò a riaprire il file – denominato semplicemente otto – nascosto tra i suoi appunti digitali, per continuare a scrivere a Priscilla una lettera vagabonda, come gli piaceva definirla, che errava senza una meta precisa tra i segreti e i sentimenti di una vita sicuramente disordinata. Voleva dare un senso al tentativo maldestro di essere un buon padre, senza nascondersi vigliaccamente dietro l’apparente scarsa empatia della figlia; dietro quel distacco mai manifestato apertamente ma percepibile dai sensori del cuore e dalla meravigliosa estetica delle parole che Priscilla sapeva rivolgere a chi l’ascoltava, impedendo a chiunque di aggirarle per trovare vie traverse e penetrare nel suo intimo.

    Hai mai letto un mio romanzo?

    Se la immaginava camminare con passo veloce lungo i portici di Bologna, città dove si era laureata e dove ormai era radicata, ricercatrice nel laboratorio di Microbiologia al Sant’Orsola-Malpighi.

    Sì, gli sembrava di vederla, lo sguardo poco incline a vagare tra i negozi, le vetrine, la gente. Si chiese che tipo di amicizie frequentasse, se si trattasse di colleghi. Era sempre così vaga… Si limitava a rassicurarlo sul fatto

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