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Ragnatele
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Ragnatele

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“Una buona domanda va molto più lontano di una buona risposta”

Manlio Peretti, dopo aver rubato sei capi femminili di alta moda, li restituisce e si autodenuncia. A processo, sostiene che l’azione è stata indotta da un disturbo da cui è affetto, la Sindrome di Stendhal, ovvero una patologica attrazione per il bello. L’uomo viene tuttavia condannato, e poco dopo scompare. Il fatto, già di per sé curioso, è contornato da circostanze poco chiare che spingono Willer, scomodo giornalista di inchieste, a investigare. Nel suo territorio, la malavita organizzata ha solide radici ma, mentre la popolazione, le istituzioni e la stampa tendono a sminuirne l’influenza, la magistratura intenta centinaia di processi ed emette altrettante condanne. Willer segue la sua innata curiosità e scopre malaffari, collegamenti col mondo della finanza e della politica, corruzione. Ostacolato nei suoi tentativi di informare, coltiva il desiderio di rendere pubblici i fatti di cui è venuto a conoscenza, ma non vuole agire da eroe solitario. Si rivolge quindi ad amici e conoscenti con cui condivide lo stesso desiderio. L’eclettico gruppo elaborerà e metterà in atto un piano di rivolta democratica studiato con intelligenza, piacere artistico, abilità, ironia.

Claudio Cavalli (1947)
Scrive storie: inventate, vere, quasi vere, con una preferenza per l’avventuroso nel quotidiano e il fiabesco, con spruzzi di umorismo, poesia, sorprese e qualche brivido. Le utilizza in teatro come autore e narratore (12 spettacoli di cui uno per il Teatro alla Scala: Incanto di un vecchio pianoforte). In Tv è stato autore nelle prime 500 puntate del programma RAI l’Albero Azzurro ed è andato in video come narratore. Come direttore artistico progetta festival curiosi e avventure culturali, come l’Eroico Manoscritto, il più grande manoscritto al mondo, alla cui realizzazione hanno partecipato oltre 2000 persone di ogni età. Scrive racconti per narratori e narratrici e inventa giochi e storie sui capolavori della pittura: per questo è ancora direttore artistico di Artexplora.
LanguageItaliano
Release dateJan 31, 2023
ISBN9788830677227
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    Ragnatele - Claudio Cavalli

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1

    Quando il corriere della BRT gli recapitò un grosso pacco, il procuratore Foresi lo ritirò pensando fosse uno degli acquisti via internet della moglie o della figlia. Ma quando le due donne rientrarono e lui ricordò loro che non era prudente far recapitare pacchi a casa di un procuratore, le due donne gli risposero che non avevano fatto nessun acquisto via internet.

    «E allora di chi è quel pacco arrivato oggi?»

    La figlia guardò l’indirizzo.

    «è per te papà!»

    Il procuratore sorpreso constatò che aveva ragione, il mittente era poco leggibile. Soppesò il pacco. Era leggero ma ritenne opportuno chiamare la polizia scientifica che, in giardino e con molte cautele, ne constatò il contenuto: era un capo di abbigliamento femminile.

    «Io non indosso vestiti femminili» disse in tono ironico alle due donne «qualcuna di voi sa qualcosa di questo che mi sembra anche un capo di alta moda?»

    Loro, sorprese, osservarono l’abito.

    «Bello e originale, è per una donna giovane» disse la madre alla figlia «e mi pare della tua taglia, forse è un regalo di qualcuno per te…?»

    La figlia accarezzò l’idea che il fidanzato le avesse fatto una sorpresa, cominciò ad avere qualche dubbio quando vide il cartellino con il prezzo, €4.650,00; fu sicura che non era un regalo quando sollevò l’abito e sul fondo lesse scritto a matita su un foglio: Corpo di reato n. 1.

    Il pacco era per il procuratore.

    Nel corso dei successivi tre giorni seguirono altri tre pacchi, spediti con diversi corrieri: tutti capi femminili di gran pregio, tutti in perfetto stato e numerati in successione come corpi di reato n. 2, 3, 4. Un altro pacco arrivò a distanza di altri due giorni e, accanto al biglietto Corpo di reato n. 5, conteneva una lettera scritta a mano: Questo è l’ultimo pacco. Sono l’autore dei furti degli abiti che le ho inviato, seguiva firma, indirizzo e numero telefonico. Il procuratore verificò che su quei capi ci fosse la denuncia di furto, si informò sul firmatario dei pacchi, lo fece convocare in procura e, dopo la sua confessione, lo mise agli arresti domiciliari perché aveva qualche precedente. Complessivamente il valore commerciale degli abiti superava i 25mila euro ma la casa di produzione aveva avanzato anche la richiesta di un milione di euro per danni professionali e di immagine.

    Il processo per direttissima fu veloce.

    Quando venne chiesto il motivo del furto l’autore, Manlio Peretti, 28 anni, studente fuori corso all’Accademia di Belle Arti, rispose che era ammaliato da tutto ciò che rappresentava la femminilità e davanti a quegli abiti aveva provato un rapimento come la sindrome di Stendhal. Quando l’avvocato del negozio gli chiese se avesse indossato gli abiti, il giovane rispose di no; alla domanda se era gay rispose che non lo era ma si augurava di potere aggiungere alla sua natura maschile una forte sensibilità femminile. Quando un secondo avvocato – quello che tutelava gli interessi della società di sicurezza – gli chiese come materialmente avesse asportato gli abiti e superato i complessi sistemi antifurto, il giovane rispose che si era già dichiarato colpevole per cui non vedeva come l’argomento potesse essere materia del processo.

    Poi arrivò una prima sorpresa: quando l’avvocato della casa di moda fece notare che gli abiti rubati erano 6, dunque all’appello ne mancava uno, Peretti disse che lo aveva regalato, pertanto non lo avrebbe mai richiesto indietro ma ne aveva predisposto il regolare pagamento secondo il cartellino del prezzo presente nella scatola.

    Il suo avvocato consegnò al giudice un assegno circolare di 4.900 euro corrispondenti al prezzo dell’abito e fece notare, al giudice e al pubblico, che quella cifra corrispondeva a quasi tutti i risparmi del giovane.

    La seconda sorpresa, un vero colpo di scena, arrivò quando il giudice stesso chiese a Peretti perché si fosse auto denunciato. Peretti si alzò in piedi: «Perché nella tasca dell’abito n. 5 ho trovato una collana: ho pensato che si fosse sganciata dal collo di un manichino e fosse scivolata in tasca ma guardandola meglio ho capito che i brillanti non erano bigiotteria, ma diamanti, e che la collana valeva un sacco di soldi. Allora ho pensato che quell’abito, o forse tutti quegli abiti, potevano essere una questione molto pericolosa».

    A questo punto Peretti si fece consegnare dal suo avvocato un panno di velluto rosso in cui era avvolta la preziosa collana e la esibì a tutto il pubblico che, stupito, lampeggiò fotografie a lungo, come ci fosse un divo sul red carpet. Il giudice non gradì, zittì la gazzarra, si fece consegnare la collana e sospese l’udienza.

    Il giorno successivo le foto di Manlio Peretti e della collana erano su tutti i quotidiani della regione: gli articoli mostravano sorpresa e una certa simpatia per il giovane ladro. La verifica dell’autenticità e del notevole valore della collana arrivò con l’avvocato della gioielleria, che mostrò al giudice la copia della denuncia di furto e i vari documenti che attestavano identità, caratteristiche e proprietà della collana, il cui valore era intorno ai 400mila euro.

    Alla ripresa del processo, il giovane venne sottoposto a un fuoco di fila di domande, ovviamente sulla collana, alle quali rispose con dei non so proprio, non riesco neppure a immaginare, ignoro totalmente e così via. La polizia esibì al processo la registrazione del video di sorveglianza dell’esterno della gioielleria che mostrava Peretti fermo più volte davanti alla vetrina. Poi il gioielliere testimoniò che il giovane era entrato nella gioielleria e si era fatto mostrare delle spille di bigiotteria, ma non aveva fatto acquisti. Peretti confermò ogni circostanza ma negò il furto della collana, come negò di avere avuto complici.

    Ai dubbi dell’accusa sulla sindrome di Stendhal, l’avvocato della difesa chiamò a testimoniare un pittore, Armando Tesini, amico del Peretti, che testualmente disse: «Peretti mi ha chiesto più volte di accompagnarlo alle mostre di pittura perché gli può accadere di non sentirsi bene e infatti in due occasioni l’ho visto bloccarsi, diventare bianco, sudare e respirare a fatica: è successo a una mostra di opere di Antonello da Messina e a una di Edward Hopper, tutte e due le volte è stato portato fuori dalla mostra quasi di peso.»

    Quando chiesero a Peretti se anche davanti alla collana provasse la sindrome di Stendhal, il giovane rispose che per lui era impossibile non provare emozioni davanti alla bellezza. Alla richiesta di spiegare perché pensasse che la questione fosse divenuta pericolosa, rispose che di preciso non sapeva, aveva trovato strano che una collana di quel valore fosse nella tasca di un abito e aveva avuto il presentimento di un pericolo.

    Il pubblico ministero, nella concisa requisitoria, affermò che Manlio Peretti aveva dimostrato una grande destrezza nel furto degli abiti, pertanto era in grado di rubare anche in gioielleria, negozio situato subito a fianco della casa di moda.

    Successivamente, rubata la collana, si era spaventato per il suo valore e per la caccia che gli avrebbe dato la polizia e chissà chi altro, per cui si era liberato della patata bollente con la sceneggiata dei pacchi al procuratore e con il finale teatrale che tutti avevano visto della riconsegna della collana. D’altra parte come si poteva credere a uno che ruba abiti in preda alla sindrome di Stendhal e poi fa marcia indietro per un presentimento?

    Invece l’avvocato difensore centrò proprio la sua tesi sulla forte credibilità del giovane, che avrebbe potuto restituire tutto in forma anonima e senza correre alcun rischio, invece aveva agito autodenunciandosi.

    La tesi del pubblico ministero ebbe maggiore credito e Manlio Peretti, che aveva a suo carico un paio di vecchi precedenti per detenzione di stupefacenti, fu condannato a sei mesi di servizi sociali con l’invito a consultare uno psicologo per mettere sotto osservazione la sua insolita sindrome di Stendhal. Il giudice stabilì la non menzione nel casellario giudiziale ma gli fece divieto di uscire dalla città per tre mesi, con l’obbligo di presentarsi al commissariato vicino alla sua abitazione una volta alla settimana.

    La casa di moda ebbe una tale pubblicità che ritirò la richiesta del milione di danni, fece esaminare con attenzione gli abiti, che furono trovati in perfette condizioni, e invitò il suo designer a creare uno spazio espositivo solo per quei cinque abiti. Dopo una settimana, in uno scenario da galleria d’arte, cinque manichini femminili, in pose diverse, mettevano in rilievo gli abiti rubati, illuminati da una forte luce laterale. Un cartello in bella calligrafia manuale segnalava che La bellezza di questi abiti può causare reazioni da sindrome di Stendhal.

    Dopo circa tre settimane, Manlio Peretti non si presentò ai servizi sociali. La polizia lo cercò alla sua abitazione, dai genitori, interrogò amici e amiche, lo cercò nei locali che frequentava, ma il giovane era sparito senza lasciare tracce.

    Qualche giornalista di cronaca locale si chiese perché la polizia perdesse tempo ad andare a caccia di uno che si era auto denunciato, aveva riconsegnato di sua volontà tutto quello che aveva preso, si era tenuto un abito che aveva pagato a prezzo pieno, aveva addirittura consegnato una collana di diamanti che non aveva rubato.

    Dopo un’altra settimana il caso, ormai freddo, sparì dalle cronache e dalle chiacchiere. La polizia archiviò il programma sulle indagini, fece una copia cartacea di ogni documento, smise di cercare il ladro, spostò il fascicolo da una scrivania allo schedario dei latitanti di scarsa importanza e sulla copertina scrisse in pennarello: Manlio Peretti, furto di vestiti da donna con sindrome di Stendhal.

    2

    Willer Bertelli non aveva scritto niente su Peretti ma aveva seguito il caso sui gustosi articoli di un giovane freelance, assunto da poco. Erano storie come quelle che gli ridavano respiro quando aveva esaurito la riserva di sopportazione, indignazione e spesso rabbia, che gli procuravano le notizie politiche o di cronaca. Arrivava a un punto che doveva smettere di masticare quegli articoli dal gusto e dal peso indigeribili per restaurarsi l’anima con qualche visione di leggerezza. E il processo del Peretti che si era autodenunciato in quella maniera lo aveva divertito.

    Non dico che dovrebbero additarlo a esempio aveva pensato perché comunque è un ladro reo confesso, ma potrebbero almeno riconoscergli il coraggio e il merito di avere fatto marcia indietro.

    Quando Peretti aveva tirato fuori la storia della sindrome di Stendhal, una questione impossibile da verificare, Willer aveva pensato che il tipo era un misto di furbizia e genialità e non era chiaro di quale delle due facesse maggiore uso. Poi Manlio Peretti aveva estratto un altro coniglio dal suo cilindro: la storia della collana di diamanti, un’autentica stramberia rocambolesca, che lo aveva reso un personaggio ancora più intrigante e misterioso. Infine era fuggito chissà dove e a quel punto gli interrogativi erano diventati molti e ambigui e Willer Bertelli, senza neppure accorgersi, aveva cominciato a crearsi nella memoria un angolino dedicato a Manlio Peretti. Era un riflesso condizionato, un fatto istintivo che gli accadeva quando le domande su qualcuno o qualcosa divenivano molte e non trovavano risposte accettabili. D’altra parte nella storia di Manlio Peretti non c’erano noccioline ma diamanti e abiti di alta moda. E Willer era stato autore di alcune inchieste nell’edizione regionale di un quotidiano che però, dopo neppure sei mesi, aveva cancellato anche l’idea stessa di fare giornalismo di inchiesta.

    Firmandosi solo con il nome, Willer, con misurata franchezza che considerava essenziale in democrazia, aveva sollevato questioni su malavita organizzata, scuole non a norma, appalti e concessioni che sapevano di corruzione, macchinette mangiasoldi, ludopatie, traffici e fallimenti di banche locali, e aveva valorizzato servizi sostenuti da associazioni di volontariato, lavori socialmente utili per emigrati, coltivazioni biologiche.

    Poi era accaduto che le inchieste, e quindi anche i suoi scritti, avevano smosso la coltre di polvere sotto la quale si muovevano fatti e misfatti, anche di sinistra e del partito per cui votava, con personaggi che preferivano il nascondino. La cosa aveva sollevato polemiche, smentite che, più che smentire, avevano fatto molto rumore e, sottobanco, avevano attivato pressioni e ritorsioni di uffici e segreterie e così anche il suo giornale si era adeguato al comportamento degli altri quotidiani locali.

    In un territorio di province nelle quali la stragrande maggioranza delle amministrazioni erano, come si diceva, di sinistra centro, il giornalismo di inchiesta era stato abbandonato, in un controllato silenzio, come un neonato indesiderato.

    Allora Willer Bertelli si era messo in attesa di tempi migliori. Continuava a campare facendo il giornalista di cronaca, pubblicava periodicamente pezzi di storia locale e, in collaborazione con un piccolo editore, realizzava brevi guide per viaggiatori che cercavano mete o combinazioni culturali insolite. Ma quei pochi mesi di inchiesta erano stati sufficienti a fargli contrarre il virus della curiosità per i traffici non leciti, lucrosi e nascosti e a casa sua, sul suo computer, continuava a fare il giornalista di inchiesta. Non pubblicava, ma raccoglieva materiale. E scriveva.

    La busta la trovò nella buca della posta accanto a un paio di bollette: non era affrancata e sopra c’era scritto a matita per Willer Bertelli. Salì in casa, la esaminò: era molto sottile e la copertura era incollata. Doveva contenere solo un foglio, forse neanche intero. La guardò un’ultima volta in controluce poi strappò su un lato. Era firmata da Manlio Peretti.

    A questo Peretti piacciono le cassette postali e le spedizioni pensò.

    Qualcuno mi sta dando la caccia era scritto sempre a matita su un mezzo foglio, non so chi è, che cosa vuole, ma ho capito che potrebbe essere pericoloso. Ho delle cose da raccontare. Se vuole io sarò al Parco del Verziere di Marettico mercoledì alle due del pomeriggio. Se viene si fermi nel parco da qualche parte, la raggiungerò io. Se non viene capirò, se viene con la polizia non mi farò vedere. Comunque grazie.

    Manlio Peretti! In quali guai si era cacciato da non avere più conigli nel suo magico cilindro?! Aveva fatto di tutto perché la sua storia fosse più pubblica possibile, con foto, interviste, TG regionale: che cosa aveva attizzato?

    Willer rientrò nell’atmosfera curiosa e per certi versi divertente che gli aveva procurato la vicenda di Peretti e riattivò l’angolo di memoria a lui dedicato. Dopo quasi un mese dalla sua scomparsa e a caso abbandonato, non aveva ritenuto necessario conservare qualcosa sulla vicenda. Recuperò in internet informazioni, articoli di giornale, video, li catalogò e li inserì in un nuovo capitolo dei suoi dossier. Willer aveva bisogno di scrivere per ragionare e capire, anzi, aveva bisogno di scrivere e poi di rileggere lo scritto stampato sulla carta. I neuroni delle riflessioni, delle connessioni e dell’immaginazione si attivavano al meglio quando le parole scorrevano su una pagina di carta sensibile al tocco delle dita e, possibilmente, illuminata da una luce proveniente da sinistra. I neuroni erano meno efficaci quando le parole erano disposte nel controluce frontale e intoccabile dello schermo del computer.

    Per cui raggruppò le informazioni che riteneva più importanti, le stampò, le lesse e rilesse con annotazioni a margine, poi su un foglio bianco formulò le domande, ricordando quanto detto dagli ebrei Chassidim: «Una buona domanda va molto più lontano di una buona risposta». E in effetti le domande, poche e ficcanti, aprivano porte su territori inquietanti, cosa che gli procurò un certo piacere.

    Era martedì mattina: aveva tempo per vedere di persona i negozi derubati e fare quattro chiacchiere con qualcuno. Raggiunse per primo il negozio di moda che aveva un certo nome in città e proponeva alcune delle firme prestigiose dell’alta moda.

    Willer vide subito su un lato del salone centrale i cinque manichini con gli abiti rubati: erano su un palcoscenico di tavole di legno grezzo e avevano come fondale la gigantografia di un dipinto di De Chirico: una piazza vuota e senza tempo.

    Erano cinque donne, in corpi color bronzo levigati nei volumi: portavano gli abiti con noncuranza e disegnavano le posture e gli stati d’animo di chi è in attesa, di qualcosa o di qualcuno. I volti, ovali senza segni, esprimevano i sentimenti con la loro inclinazione e con l’aiuto dei giochi delle mani. Quel fermo immagine, quell’attesa tanto intensa quanto vaga esercitò un’attrazione così forte su Willer che vi si immerse come in un’atmosfera ipnotica. Non era la sindrome di Stendhal, come veniva segnalato nel cartello ai piedi dei manichini, ma forse era uno degli effetti della pittura metafisica. I suoi occhi si mossero dalle figure femminili alle ombre lunghe dei palazzi dipinti, dagli abiti ai portici assolati. Anche la piccola locomotiva lontana, quasi sempre presente nei dipinti di De Chirico, era immobile, come immobile era il fumo che aveva sopra il camino. Il Willer scrittore di guide per viaggi insoliti pensò che il treno era il destino di tutta quell’attesa, i manichini comprimevano un desiderio: andarsene, partire.

    Un commesso lo distolse dal rapimento visivo.

    «Posso esserle utile?»

    «Sì» disse Willer dopo qualche secondo «questa messa in scena è veramente suggestiva.»

    «Grazie, lo dirò al designer, ci tiene.»

    «Ma non intendo acquistare abiti. Sono Willer Bertelli, giornalista, e vorrei parlare con qualcuno sulla vicenda accaduta a questi abiti.»

    «Allora deve parlare con Gaudio, il responsabile del settore, ora lo chiamo» e il commesso digitò il messaggio su uno smartphone.

    Nell’attesa, Willer fotografò gli abiti sui manichini con il cellulare.

    Il responsabile arrivò poco dopo, strinse la mano a Willer e lo accompagnò in un salottino.

    «Gradisce un caffè, un tè o qualcosa d’altro?»

    «Un caffè, grazie.»

    Il responsabile era un tipo sui quaranta anni, capelli tagliati cortissimi e tre millimetri di barba incolta, vestito completamente in nero, con una giacca dal taglio originale e senza maniche. Cominciò a raccontare le cose che Willer già sapeva.

    «Ma c’è un punto importante che non è stato mai chiarito» chiese Willer «il Peretti, secondo voi, come e dove avrebbe fatto il furto?»

    Il responsabile sorseggiò il caffè poi, con un certo imbarazzo, disse che non erano riusciti a stabilirlo con certezza perché quegli abiti fin dal loro arrivo erano stati oggetto di molti spostamenti e parecchia confusione.

    «Normalmente» chiese Willer «quale itinerario fa un capo di vestiario dal suo arrivo in sede al punto di esposizione al pubblico?»

    «Arriva con gli automezzi nel magazzino del seminterrato, poi passa in un magazzino al piano terra, riservato agli abiti selezionati per le esposizioni e infine viene sistemato sugli scaffali o negli allestimenti. Ogni spazio è dotato di allarme periferico e volumetrico; il negozio ha anche videocamere di sorveglianza interne ed esterne.»

    «Come responsabile di settore si sarà dato una qualche risposta sulla modalità del furto…»

    «Il Peretti ha fatto il furto, anzi i furti, perché ha sottratto, secondo noi, gli abiti in più riprese, molto probabilmente con la complicità di qualche donna, e ha usato uno dei metodi più vecchi: indossarli sotto ai propri vestiti. Quando ci sono i nuovi allestimenti, persone abili e che recitano bene possono riuscire a fare qualche furto.»

    «Ovviamente per voi è ancora più misteriosa la presenza della collana di diamanti…»

    «Su quella invece per noi non c’è alcun mistero: Peretti ha mentito; noi non mettiamo bigiotteria sui manichini, al massimo mettiamo complementi di abbigliamento che ci pervengono dalle case di produzione insieme con gli abiti, men che meno mettiamo collane da 400mila euro. Su questo, Peretti ha raccontato una grossa balla, e infatti non è stato creduto.»

    Willer ringraziò e i due si incamminarono verso l’uscita. Davanti alla installazione dei manichini si fermò ancora a complimentarsi.

    «C’è ancora un dettaglio» disse il responsabile «quando abbiamo allestito questa installazione abbiamo scoperto che le etichette interne degli abiti erano state asportate. Quasi certamente è stata un’operazione del Peretti per eliminare almeno l’evidenza delle firme. Comunque le abbiamo ripristinate.»

    «Potrei vederle?» fece Willer.

    Il responsabile stesso tolse una giacca da un manichino e Willer la fotografò nell’interno.

    3

    La visita in gioielleria fu ancora più breve. Il titolare non c’era, era presente invece il socio che curava la creazione e il restauro dei gioielli. Disse che la collana era stata sicuramente rubata dal Peretti il pomeriggio in cui era entrato in negozio, che il furto lo aveva ben preparato con i suoi passaggi davanti alla vetrina e che gli era stato facile rubarla.

    «Come, facile rubarla?!» chiese Willer sorpreso.

    «Perché una nostra cliente che doveva fare un acquisto importante e che aveva a lungo ammirato la collana era uscita prima del Peretti che, entrato subito dopo, si era trovato con la collana ancora sul banco: era chiusa nella sua custodia, ma sono bastati pochi secondi per rubarla.»

    «Come mai avete tardato così tanto a denunciare il furto, mi pare una settimana.»

    «Perché ci siamo accorti tardi del furto; ancora adesso ci rimproveriamo per avere riposto la custodia della collana nella cassaforte senza controllarne l’interno.»

    Willer chiese al gioielliere se poteva vedere la collana.

    «Mi spiace, è stata venduta qualche settimana fa.»

    «Potrei vedere qualche cosa di simile?» insistette Willer.

    «Come può vedere, non teniamo preziosi di quel valore: gioielli di quella entità li facciamo arrivare solo su ordinazione.»

    All’uscita dalla gioielleria, Willer Bertelli aveva la netta impressione di essere stato preso per i fondelli: quella storia faceva acqua da più parti. Un gioielliere che non controlla per una settimana se la collana di diamanti che, a occhio, vale da sola un terzo di tutto il suo negozio, è ancora nella sua custodia o è un grande fesso o uno che mente.

    Gli dispiacque di non averla veduta: avrebbe forse capito meglio

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