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Il Giudice
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Il Giudice

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About this ebook

Sono anime sbriciolate quelle di Ethan, Arthur, Grace, Olivia e altri. Il rischio di disperdersi è costante, in bilico sul filo del rasoio percorrono la loro giovanissima esistenza condividendo la loro fragilità con il resto del mondo. Chiusi in un involucro trasparente, guardano vivere e si lasciano andare, diventando prede di anime nere che sempre più li tirano giù verso gli abissi più profondi della psiche. Sono gli adolescenti post Covid, quelli che più di tutti hanno pagato le spese di una segregazione forzata, quelli che in solitudine hanno dato spazio ai loro fantasmi.
Può a soli sedici anni una ragazza avere una tale profondità d’animo da impiantare una storia di questa portata? Il giallo che ci propone è in parte su base biografica; qui, mette in scena sé stessa, e ogni personaggio la rappresenta.
Ambientato in una piccola cittadina americana, la popolazione rimane sconvolta dai frequenti omicidi che imperversano e sembra che non vogliano finire. Ogni cadavere è accompagnato da un biglietto in cui si spiegano le motivazioni della sua soppressione; per mano del Giudice, vari personaggi, in vista e non, perderanno la vita in nome di quella giustizia tanto anelata.
Il gruppo di ragazzi che si riunisce nella palazzina grigia della piccola cittadina è formato da elementi problematici; ognuno con il proprio dolore, sarà la loro psicologa a offrire il sostegno di cui hanno bisogno.
Il Giudice di V. Tonarelli, dedicato a chi si è perso ma che poi si è ritrovato.
LanguageItaliano
Release dateJan 31, 2023
ISBN9788830676916
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    Il Giudice - V. Tonarelli

    piatto.jpg

    V. Tonarelli

    Il Giudice

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7116-4

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il Giudice

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Tutti hanno segreti… tutti fanno sbagli…

    e tutti hanno paura di essere scoperti.

    Presentazione dell’Autrice

    Sono una ragazza di sedici anni che vive in una piccola città in Toscana, posso definire quella che è stata per ora la mia adolescenza come un "total mess" se vogliamo dirla all’inglese. Alle medie sono stata vittima di bullismo, io l’ho sempre considerato tale, ma nessuno lo ha mai davvero capito. In prima superiore ho iniziato a soffrire di depressione associata all’anoressia, e conseguentemente si sono aggiunti la paura del Covid, e il terrore di tutto e di tutti… Tante cose, tante emozioni come queste non le puoi spiegare, se vuoi provare a farle capire ad un’altra persona devi scriverle, se vuoi capire quello che provi devi scrivere; così mentre ero in ospedale tenevo un diario di tutto quello che provavo e piano piano è tornata la passione per la scrittura che avevo abbandonato. A dicembre del 2021 ho avuto un flash, un’idea per un libro dove potermi rifugiare, dove poter esprimere quella valanga di paure e di personalità diverse nella mia testa. Ho iniziato a scrivere e più il tempo passava più la storia mi prendeva e dopo diversi mesi di fatica le ultime parole sono state scritte… Non credo nemmeno io di aver scritto un romanzo e soprattutto che di averlo portato a termine; ho scritto un libro nel quale esprimo tutta me stessa, dove affronto i problemi giovanili e in cui cerco di aiutare tutti quelli che si sentono a disagio in questo mondo, proprio come me.

    V.

    Capitolo 1

    Per Ethan quello è il primo giorno; l’auto si muove sulla strada bagnata e, ad un certo punto si ferma davanti ad un palazzo di mattoncini grigi che svettano verso l’alto mischiandosi al colore del cielo.

    Lui e sua mamma scendono, il freddo umido di novembre li annienta ai primi passi mentre suo padre lo saluta con uno sguardo amichevole dall’auto; superato l’ingresso si trovano in un grande atrio, circondati dal caldo e dal profumo di lavanda emanato dai pavimenti; un’infermiera si avvicina e li scorta al piano superiore.

    «L’ufficio del dottor Jacob è in fondo al corridoio» dice e si congeda con un sorriso.

    La scritta fuori dalla porta dell’ufficio ed il titolo di psichiatra che gli si attribuisce, fanno venire ad Ethan la voglia di fermarsi, tornare indietro e fare in modo che nessuno si accorga che c’è qualcosa che non va, senza bisogno di mentire, senza bisogno di toccare il fondo ancora di più.

    Quei pensieri sono scacciati dal sorriso dello psichiatra che li invita a sedersi nel suo studio.

    Lui ascolta sua madre parlare dei suoi attacchi di panico per uscire di casa, di come si fosse chiuso nella sua stanza durante la pandemia e come, anche adesso, avesse paura ad uscire, di quando scoppia a piangere all’improvviso senza ragione e senza dare giustificazioni, di quante volte la scuola avesse chiamato perché lui faceva delle cose strane, del modo in cui da diversi mesi si fosse chiuso in se stesso, parlando poco con la sua famiglia e di quando a volte tornasse a casa, con dei lividi oppure senza qualche oggetto, che lui diceva sempre d’aver perso.

    Intanto Ethan osserva l’ufficio ordinato: verso destra ci sono diversi scaffali con dei libri all’interno, probabilmente trattati di psicologia, vicino alla finestra, con vista sui palazzi del centro, un Anthurium bianco, sulla parete opposta c’è incorniciata la laurea, ed intorno a quella diversi quadri di arte contemporanea.

    Mentre lo psichiatra ascolta, accenna sorrisi di comprensione che accentuano le sue leggere rughe e restringono i suoi occhi neri.

    «Ethan c’è qualche problema? Cosa succede a scuola?» chiede il dottore con voce profonda; come se lui potesse dire la verità, come se lui potesse denunciare quello che da anni è per lui una tortura e di cui nessuno si era mai reso conto.

    «No, nessun problema, sono solo stressato» mente Ethan guardando in basso e muovendo involontariamente il piede.

    «Non è che qualcuno ti costringe a fare determinate cose? C’è qualcuno o qualcosa che ti dà noia? Non c’è niente da vergognarsi, se vuoi possiamo fare uscire tua madre…».

    «No, non c’è niente e non c’è nessuno» risponde Ethan facendo ancora di più capire che sta nascondendo qualcosa.

    «Non credo che questo sia solo stress, comunque qualsiasi cosa sia, mi sembra che tu non sia pronto a farcela sapere…» dice il dottor Jacob cercando di catturare il suo sguardo, perso ad osservare i lacci delle scarpe, poi riprende «…Da poco è iniziata la prima seduta di un gruppo di ragazzi che parlano insieme dei loro problemi e cercano di affrontarli, che dici di dare un’occhiata? Ti fermi lì con loro per oggi poi, se ti trovi bene, vieni anche la prossima settimana sennò proveremo a fare delle sedute individuali, cosa ne pensi?».

    Ad Ethan non piace nessuna delle due idee e sta per esporre la sua opinione, quando la mamma lo ferma e dice esattamente l’opposto di quello che lui sta pensando.

    Si fa indicare la stanza e lo trascina al terzo piano.

    Mentre lui guarda la porta e prega sua mamma di tornare a casa, lei bussa senza scrupoli.

    «Avanti» dice una voce femminile dall’interno.

    Neanche il tempo di rispondere che si ritrova buttato dentro: la stanza è molto grande, alle pareti sono addossate alcune librerie mentre al centro ci sono delle sedie messe in cerchio.

    Concentra lo sguardo verso una signora sulla quarantina che gli fa segno di sedersi; cerca di non guardare gli altri ragazzi e, anche se vuole scappare via, si accomoda su una delle poltroncine libere.

    Ci sono tante facce diverse, sconosciute, finalmente senza mascherina tranne una ragazza, poi riconosce altri due visi che lo sorprendono, per primo quello di Grace, la sua migliore amica delle elementari e la sua prima cotta e poi, vicino a lui si rende conto che è seduto Arthur, anche lui il suo migliore amico delle elementari. Per un po’ era sparito dalla circolazione, lo aveva rivisto di sfuggita a scuola e sapeva, come tutti in città, quello che gli era successo; era da tanto tempo che avrebbe voluto parlargli e chiedergli come stava ma non aveva mai avuto l’occasione.

    «Ciao a tutti, ragazzi, io sono Marion» si presenta la psicologa.

    Ha lunghi capelli lisci e grigiastri con alcune sfumature che tirano al biondo, i suoi occhi sono neri ed incorniciati dagli occhiali con la montatura dello stesso colore, porta dei normali jeans scuri con sopra una camicetta e un maglioncino.

    «Ora, piano piano, ci conosceremo tutti, sappiate che nessuno è qui per giudicarvi e che tutti voi siete qui perché avete un problema e noi siamo pronti per affrontarlo tutti insieme. Adesso per presentarvi farete un monologo su voi stessi, parlate di quello che volete, fate come se foste a teatro e doveste parlare ad una platea».

    Marion invita la ragazza con la mascherina ad alzarsi, ha la carnagione ambrata con lunghi capelli neri ed occhi scuri.

    «Io mi chiamo Nayana» dice «mi sono trasferita qui dall’India con i miei genitori quando avevo quattro anni, tutti i miei parenti sono rimasti laggiù, mi mancano tantissimo, ormai è tanto tempo che non li andiamo a trovare» poi si siede.

    Il successivo è un ragazzo robusto, con i capelli e gli occhi castani.

    «Ciao a tutti, io sono Roger» dice timidamente, arrossendo «Ho un gatto grigio che si chiama Olivia» balbetta non sapendo cos’altro aggiungere.

    Una ragazza bionda intenta a guardarsi le unghie alza lo sguardo, rivelando due occhi azzurri come il cielo, poi riporta subito l’attenzione alle unghie mangiate il più possibile.

    Marion la fissa e dice: «Lei si chiama Olivia».

    Roger approfitta di quel momento per rifugiarsi sulla sua sedia.

    Arthur non si scomoda ad alzarsi, dice il suo nome da seduto e poi continua a giocare son i suoi ricci mori, Ethan fa lo stesso anche se non ha dei ricci mori, ma dei capelli biondo platino, li copia anche Pier, un ragazzo dalla pelle chiara e i capelli neri.

    Poi si alza Grace, sempre con la sua felpa enorme e i pantaloni della tuta larghi, muove i suoi capelli castani, dice il suo nome poi continua: «…Abito qui in città e… niente…» poi si rimette al suo posto, imbarazzata.

    La psicologa guarda un ragazzo con i capelli rossi e le lentiggini, il quale aveva, dall’inizio, spostato la sedia un po’ fuori dal cerchio, non si era ancora presentato e continuava a fissare il pavimento.

    «Connor» dice la psicologa attirando la sua attenzione «Tocca a te presentarti», lui dice il suo nome e poi sposta il suo sguardo sugli orecchini dondolanti di Marion, arrossendo tutto.

    Mentre escono, Ethan dà un’occhiata a Grace e ad Arthur guardandoli andar via senza trovare il coraggio di parlargli e di chiedergli il perché fossero lì anche loro.

    Il giorno dopo a scuola Ethan presta più attenzione ad Arthur e a Grace; a mensa lo vede passare per primo con il cappuccio della felpa tirato sulla testa ed una sigaretta in bocca, mentre gli passa davanti alza lo sguardo per poi continuare a camminare.

    Poco dopo vede Grace seduta insieme alle sue amiche a chiacchierare tranquillamente, Ethan si chiede perché quella ragazza che era sempre stata così solare e che lo sembra tuttora si trovi in una clinica psichiatrica, poi va avanti e si siede ad un tavolo nell’angolo più lontano da tutti e inizia a mangiare il suo pasto.

    Mentre mangia, il solito gruppo di ragazzi lo osserva da lontano e fa lo stesso un professore poco più in là. Dopo pranzo Ethan si dirige in bagno di fretta, per non arrivare tardi alla lezione successiva in cui doveva essere interrogato; mentre è in bagno sente dei ragazzi entrare ed urlare, sono sempre loro, sente che si avvicinano alla sua porta ed iniziano a trafficarci intorno, lui si alza di scatto e cerca di aprirla ma questa non si apre, sente delle risate e degli insulti che piano piano si fanno più lontani, ma la porta continua a non aprirsi.

    Passa un’ora, due e non succede niente, non prova ad urlare sapendo che se qualcuno lo avesse scoperto e avesse detto la verità sarebbe finito in guai ancora peggiori; semplicemente si mette a piangere nel modo più silenzioso possibile.

    In quel momento qualcuno entra nei bagni.

    «C’è qualcuno?» Ethan avverte dei passi che si avvicinano alla sua porta.

    «Per favore, potresti aprirmi?» chiede Ethan asciugandosi le lacrime e riponendo tutta la sua speranza nello sconosciuto dall’altra parte.

    La porta si apre e davanti a lui appare Arthur con in bocca un’altra sigaretta ancora spenta.

    «Ah sei tu!» dice Arthur «Sono stati Lucas e gli altri a chiuderti qui, vero?».

    Ethan annuisce mentre lo guarda accendersi la sigaretta.

    «Io vado, comunque dovresti dire quello che ti stanno facendo, perché non è giusto» gli suggerisce Arthur mentre si allontana.

    Anche Ethan esce, va a prendere il suo zaino in classe e trova diverse chiamate perse di sua mamma a cui manda un messaggio dicendo che è a scuola, in pochi minuti lei lo raggiunge ed Ethan entra in auto.

    La prima cosa che fa sua mamma è osservarlo con uno sguardo omicida.

    «Dov’eri? Mi ha chiamato la professoressa dicendo che non ti sei presentato all’interrogazione lasciando lo zaino nell’altra classe».

    Ethan non risponde, non sa cosa dire.

    Sua mamma si gira e lo guarda negli occhi: «Mi spieghi che ti sta succedendo? Questa non è la prima volta che salti un’interrogazione in questo modo, se ti senti in ansia puoi dirmelo la mattina e per quel giorno non andrai a scuola, ma prendere in giro la professoressa in questo modo…».

    Lei continua a parlare sgridandolo finché non arrivano a casa; una volta lì si siede vicino a lui con un foglio in mano, si mette gli occhiali da lettura e si prepara ad esporre un discorso che sembra, dalla premessa, essere importante.

    «Oggi ho chiamato il dottor Jacob» inizia «Ha detto che per ora faremo una seduta solo con lui il venerdì e poi la seduta di gruppo il martedì e il sabato, che ne dici?».

    «Ho da studiare, non voglio perdere tempo lì, non serve a niente ed io sto bene» risponde Ethan.

    «Io sono tua mamma e sono preoccupata per te, sto tutto il giorno a lavorare e lo so che magari non ti sono sempre vicina, ma questo non vuol dire che non mi accorga di certe cose» dice Giuly, sua madre.

    Il giorno dopo lo porta alla palazzina grigia ma questa volta lo lascia da solo con il dottore.

    «Com’è andata la settimana, Ethan?» gli chiede.

    «Bene» gli risponde con freddezza.

    «Allora, tua madre mi ha raccontato cos’è successo ieri a scuola, per caso hai avuto un attacco di panico prima dell’interrogazione? Cioè ti sentivi mancare il respiro e il cuore ti batteva forte? Se è così dimmelo pure perché non c’è niente di cui vergognarsi».

    «Sì, è così…» risponde Ethan in modo tale da dare una risposta che possa spiegare il suo comportamento e non far preoccupare più di tanto sua madre «A volte mi succede, non sempre però» aggiunge per rendere più veritiera la sua storia.

    «Okay… piano piano riusciremmo a superare questa cosa insieme, va bene?».

    Ethan annuisce.

    «Mi riusciresti a spiegare la differenza tra le volte in cui ti vengono gli attacchi di panico e le altre?».

    Ethan pensa, si guarda intorno per cercare l’ispirazione e risponde: «Mi vengono solo quando sono indeciso su alcune cose oppure se non riesco a capire, credo, oppure anche semplicemente perché ho paura che mi venga un vuoto di memoria».

    Jacob lo ascolta attentamente poi gli dice di sedersi insieme a lui sul tappetto ed iniziano a fare esercizi di respirazione per mantenere la calma e, prima di andare via, gli consiglia di ripeterli anche a casa o prima di una verifica per sentirsi più tranquillo.

    Nel mentre sua madre, fuori dalla stanza, continua a fare avanti e indietro, muove i suoi capelli biondi al ritmo dei suoi passi e prova a immaginarsi cosa possa avere, perché quel bambino sia diventato così triste.

    "Cos’è successo? Magari ha paura di qualcuno…".

    Ethan pensa fra sé e sé che quegli esercizi gli potrebbero davvero servire, ma non prima di una verifica…

    Neanche il tempo di accorgersene ed è di nuovo davanti alla palazzina grigia, entra nella stanza dell’incontro col gruppo: stanza 1, 3° piano. È in anticipo e trova solo Arthur intento a fumarsi una sigaretta, appena lo vede lui alza lo sguardo.

    «Ne vuoi una?» gli dice Arthur porgendogli il pacchetto di sigarette dove sopra campeggia l’immagine di una persona in ospedale piena di fili e in fin di vita.

    «No, grazie… Comunque ti volevo ancora ringraziare per avermi liberato dal bagno. Sai, senza di te forse sarei ancora lì».

    I due ridono ed Ethan si siede di fianco a lui.

    «Mi dispiace per quello che ti è successo, te lo volevo dire già da un po’. Comunque spero che col tempo riuscirai a sentirti meglio» continua Ethan.

    «Come mai ti interessa come sto?» gli chiede Arthur fissandolo con i suoi occhi verdi.

    «Ci conosciamo dalla prima elementare e, anche se abbiamo un po’ perso i contatti, comunque sei una persona a cui tengo» ribatte Ethan timidamente, sapendo che non tutte le persone sono sensibili come lui. Quello che ha appena detto potrebbe essere considerato sdolcinato ma Arthur non ride, semplicemente lo guarda.

    In quel momento entra la psicologa insieme agli altri ragazzi che si posizionano sulle sedie.

    Arthur butta la sigaretta per terra e la copre con il piede, ma è troppo tardi.

    «Arthur, non si fuma!» lo sgrida la psicologa mentre gli prende il pacchetto e lo butta nel cestino.

    Lui guarda all’interno del bidone il pacchetto rubato con tanta fatica, ripromettendosi di tornare a prenderlo il prima possibile.

    I ragazzi si siedono in cerchio; l’ultima a sedersi è Nayana che allontana la sedia degli altri muovendola col piede e fissandola per alcuni secondi prima di accomodarsi.

    «Oggi faremo un esercizio, voglio che mi parliate di uno dei vostri ricordi più belli: descrivetelo, pensate alle sensazioni che avete provato in quel momento e condividetelo con gli altri. Allora chi inizia?» propone la psicologa.

    A quella domanda i ragazzi si guardano l’un l’altro; Marion invita Arthur a parlare, lui cerca di sottrarsi ma la psicologa lo convince; allora inizia a raccontare in modo vago e distaccato: «Da quando avevo sei anni, d’estate, con la mia famiglia andavamo a passeggiare in montagna. Partivamo la mattina per tornare la sera, facevamo anche delle arrampicate oppure, d’inverno, andavamo a sciare».

    Mentre parla, Ethan e Grace si ricordano di quando, da piccoli, lui gli raccontava dei suoi viaggi in montagna, che per lui erano come viaggi spaziali. Gli diceva di quando aveva imparato a scalare insieme a suoi genitori e da quel giorno non si era più fermato, la sua voglia di osservare tutto dalla migliore prospettiva lo spingeva sempre più in alto. Poi Arthur aggiunge: «…Adesso però non lo faccio più» e smette di parlare improvvisamente.

    «Ti va di condividere il motivo per cui non ci vai più?» chiede Marion.

    «No» è la risposta secca di Arthur. Si alza di scatto ed esce dalla porta sbattendola. Ethan lo segue.

    La psicologa li lascia andare e fa parlare Roger.

    Ethan raggiunge Arthur intento a fumarsi una sigaretta in corridoio.

    «È tutto a posto?».

    Questa domanda lo infastidisce, lui preferisce stare da solo, sopratutto quando è in quei momenti di nostalgia e tristezza dove l’unica cosa che può farlo sentire meglio è il fumo.

    «Torniamo dentro?» gli dice Ethan.

    Arthur non risponde e si siede per terra, Ethan, non ricevendo risposta, capisce che è meglio non insistere e si accomoda vicino a lui: rimangono insieme in silenzio.

    Intanto, dentro, è Nayana a raccontare i suoi ricordi: «I miei ricordi sono le diverse vacanze fatte in India con la mia famiglia: siamo andati a New Delhi, a Borra Caves, al Forte Rosso e tante altre località, però quella che mi ha lasciato il ricordo più bello e quando siamo andati al Ganga Aarti, sulle rive del Gange a Varanasi…» si blocca come in cerca di consensi per continuare, tutti la stanno ascoltando e lei riparte «Siamo arrivati a Varanasi un giorno prima della cerimonia, per noi questa è una città sacra, si affaccia sul fiume Gange.

    Appena arrivati abbiamo fatto un giro in barca, gli edifici colorati si affacciano sul fiume. Oltre alla nostra c’erano tantissime altre barche piene di gente, poi abbiamo fatto un giro per la città e abbiamo visitato il tempio di Kashi Vishwanath, uno dei più importanti templi dedicati a Shiva, mi ricordo che c’erano delle torri alte, con le cime dorate, in architettura antica.

    All’alba ci siamo radunati insieme a tantissimi altri indiani sulle sponde del Gange; lì c’erano molte candele sparse sulle scale che portavano al fiume e diversi palchi con dei sacerdoti, le persone cantavano i nostri inni sacri, mi ricordo che c’era molto odore di incenso e dai palchi muovevano delle grandi lampade di fuoco; c’erano delle persone con dei ventagli fatti con le piume di pavone e delle campanelle. L’atmosfera sembrava quasi magica.

    E poi tra i miei ricordi ci sono anche le cene con i miei nonni durante le quali facevamo lunghe tavolate con tutti i parenti e mangiavamo il naan, che mio nonno sapeva fare in maniera eccellente e i laddu fatti da mia nonna; erano i più buoni del nostro quartiere e forse dell’intera città».

    Lascia la frase a metà e si sofferma a fissare il pavimento con un velo di tristezza davanti agli occhi.

    Poi aggiunge: «Posso andare in bagno?».

    La psicologa sorride e le dà le indicazioni poi Nayana esce passando davanti ad Ethan e Arthur che, nel frattempo, si sono alzati per rientrare.

    «La seduta è finita, ci vediamo la prossima settimana» annuncia Marion sorridendo, li saluta e li accompagna all’uscita.

    Capitolo 2

    Credo che il lunedì sia il giorno più odiato da chiunque e, come chiunque, anche Ethan si alza svogliato.

    L’ultima ora della mattinata è l’ora di motoria, la più brutta per Ethan, costretto a stare nello stesso spogliatoio degli altri e lì spogliarsi; mentre va dal professore pronto ad inventare l’ennesima scusa per saltare motoria, lui lo precede: «Se oggi salti motoria vai dalla preside e, dato che ho saputo che per te è diventata un’abitudine, non credo che si stupirà più di tanto».

    Ethan non prova neanche a ribattere, sa che ha ragione e, rassegnato, si avvia al suo macello.

    Appena entra tutti si azzittiscono e si guardano fra di loro ridendo.

    Lui si dirige nelle docce, per evitare di spogliarsi davanti a tutti ma Lucas lo blocca mettendosi davanti a lui.

    «Dove pensi di andare? Perché non ti cambi qui come gli altri? Facci vedere gli addominali».

    Lo stuzzica mostrandosi a petto nudo.

    «Fai uno spogliarello per noi» dice un altro.

    Ethan si guarda intorno deciso a non fare niente, a rimanere fermo ma questa per gli altri non è un’opzione, gli si avvicinano e lo circondano.

    «Certo che sei proprio un fifone, siamo tutti amici» dice uno e gli altri concordano.

    «Femminuccia» aggiungono, mentre uno gli dà una spinta che lo sbalza dall’altra parte del cerchio, dove ne riceve un’altra, accompagnata anche questa da un insulto: il suo corpo è esile, ogni spinta gli fa male, ogni insulto è una coltellata che lo ferisce, che lo fa sprofondare, che lo fa sentire sempre più inutile, un peso.

    Cerca di trattenere le lacrime ma non ce la fa, gli manca il respiro, si sente il cuore battere in gola, i brividi lungo la schiena, dà una spallata a Lucas, che fa finta di essere stato infettato da qualche strana malattia, mentre lui corre in bagno e si chiude dentro: cerca di tranquillizzarsi, di respirare più lentamente, di seguire le indicazione di Jacob ma è difficile, non è come farlo nel suo studio per un problema immaginario, questo è vero ed è lì, a pochi passi da lui e ha paura.

    Mentre sente fuori dalla porta le risate, che nessuno sembra poter sopprimere, si mette in posizione fetale, vorrebbe tornare indietro, nella pancia della mamma, vorrebbe sparire, pensa che forse loro hanno ragione, che è lui ad essere sbagliato; e mentre riflette, le lacrime gli scendono come fiumi lungo le guance.

    Quando sente tutti uscire, si asciuga le lacrime e va dal professore: «Prof mi dispiace ma ho scordato la tuta».

    Il professore lo guarda dall’alto in basso, segna qualcosa sul suo quadernino ed Ethan si accomoda su una sedia a guardare gli altri.

    Arthur torna a casa un’ora dopo la fine delle lezioni, prima è dovuto passare da un vecchio amico che gli doveva dei soldi e adesso è sulla via del ritorno; al primo cestino che trova, butta la verifica di matematica con la

    f

    in rosso poi continua a camminare alleggerito da quel peso.

    Le villette ordinate si alternano le une alle altre e riconosce appena le vie che sembrano tutte uguali.

    Entra in casa silenziosamente, si toglie le scarpe posandole con gentilezza all’uscio, sente delle voci: sono i suoi genitori, sente nominare il suo nome e si avvicina alla porta della sala.

    «…Non può continuare così, noi stiamo facendo di tutto per lui. E lui cosa fa? Lui continua a bere, a saltare la scuola, a sparire ed andare chissà dove, a scappare di notte…» dice sua mamma, una donna ordinata che si era mostrata paziente all’inizio, ma poi aveva fatto subito intendere che la sua pazienza aveva un limite.

    «Clare, dagli un po’ di tempo, è qui da meno di un anno» le risponde suo padre.

    «Ha preso

    f

    all’ultima verifica e così va in tutte le altre materie…» continua Clare e aggiunge: «Se solo lui si aprisse con me… io lo voglio davvero aiutare…».

    Arthur corre sulle scale a passi pesanti per far capire che è tornato, che ha sentito che parlano di lui; appena se ne accorgono tentano di sgridarlo, di urlargli contro ma Arthur gli sbatte la porta della camera in faccia.

    Lui non vuole cambiare; osserva la sua stanza, piena di poster e vinili dei migliori cantanti rock degli anni ’80, la sua chitarra elettrica in un angolo e tutto questo gli fa pensare a quanto sia grato di essere lì, anche se non riesce a dimostrarlo, anche se sta ancora troppo male per smettere di fumare e di bere.

    Prende la chitarra in mano, alza il volume, e si mette a suonare.

    "Loro non sanno minimamente cosa stia provando e come mi sento nessuno lo può sapere. A me non me ne frega niente" si ripete fra se e sé, ma forse un po’ gli interessa, forse non vuole buttarsi del tutto al vento.

    La mattina dopo Ethan viene chiamato in presidenza; quando arriva trova, insieme alla preside, anche il professore di motoria.

    «Ethan non puoi sempre saltare motoria, non è una materia facoltativa» lo ammonisce la preside.

    Lui fa per ribattere, ma è lei a riprendere subito la parola: «Se la salterai un’altra volta avvertirò i tuoi genitori».

    Dopo queste parole lo manda fuori.

    Arthur ed Ethan si ritrovano davanti alla palazzina grigia, si guardano per alcuni secondi poi salgono insieme, con loro c’è anche Pier che li segue silenziosamente.

    Una volta entrati, Ethan si rende subito conto che manca Grace, poi si siede.

    «Ora che ci siamo

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