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Il giallo della sonnambula sui tetti
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Il giallo della sonnambula sui tetti

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Elga Tornabuoni ha sempre condotto una vita agiata. Alla morte dei suoi genitori, però, le cose iniziano a cambiare. La solitudine chiede il suo tributo, la carriera di psicoterapeuta langue, le spese di manutenzione della villa di famiglia sui colli bolognesi sono enormi e ciò che rimane della passata ricchezza si sta riducendo vertiginosamente. Orgogliosa e schiva, a cinquantacinque anni ha due prospettive davanti a sé: rinunciare al prestigio sociale svolgendo lavori umili e compiendo delle rinunce, oppure commettere un crimine. Un qualcosa di illegale e pericoloso ma che potrebbe sistemarla a vita. Elga fa la sua scelta. Per portare a termine la sua “missione” con meno incognite possibili, inizia ad osservare giorno e notte le abitudini del condominio dove dovrà agire, un elegante palazzo a due passi da Porta San Vitale. L’osservazione, però, sin da subito si rivelerà un incubo. Una donna misteriosa le appare in strane pose nel cuore della notte, in bilico come una funambola, una giovane condomina è in costante conflitto con gli altri inquilini ossessionata dalla pulizia e strani incidenti cominciano a funestare il condominio. Spettatrice impotente, Elga dovrà lottare per rimanere imparziale e sedare le proprie ansie. L’unica cosa che conta per lei è la “missione”, nonostante ciò che osserva oltre il telescopio, nascosto tra le tende, sia sempre meno rassicurante. E alla fine, tra improbabili corteggiatori che rischiano di minare il suo basso profilo, tour culinari nella Bologna più ghiotta e imprevisti di ogni tipo, il giorno in cui agire arriverà per rompere gli indugi.
“Il punto è che scrutando ossessivamente la realtà qualsiasi angolo di mondo mostra il suo lato più oscuro e ogni persona, osservata troppo da vicino, può risultare spaventosa.”

Nuela Celli, nata a San Benedetto del Tronto, dopo la maturità classica si laurea in Lettere Moderne e poi in Scienze della Formazione Primaria, diventando un’insegnante. Nel 2015 pubblica Come non mi vuoi, per i tipi della Echos Edizioni, e nel 2021 il romanzo Countdown, per la Giraldi Editore. Collabora, con le proprie recensioni, al blog Libroguerriero.
LanguageItaliano
Release dateMar 31, 2023
ISBN9788869436840
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    Il giallo della sonnambula sui tetti - Nuela Celli

    CAPITOLO 1

    Uno dei fratellini Medori gioca sul balcone con un aeroplano di carta. Lo fisso rapita. Barlumi della mia infanzia da figlia unica mi tornano in mente, dolcissimi, forse un po’ malinconici, di quel sottile strazio che emana da ciò che non tornerà più. Inutile, a parte smartphone e pc, i giochi che più interessano i bimbi sono quelli che danno libero sfogo alla fantasia, fatti quasi di niente. Nel balcone del piano di sopra si muove a scatti rabbiosi la ragazza che occupa, con il fidanzato, l’appartamento a sinistra. Veronica Diodato pulisce di continuo e ogni tanto si dirige verso la ringhiera per controllare i bambini di sotto. Li odia, si intuisce, ed è maniaca dell’igiene e dell’ordine. Anche lei, come il compagno, Cesare Martelli, sui centotrenta chili e l’aria di chi è appena uscito di prigione, piuttosto prevedibile negli orari. Lavorano in fabbrica. Nessun animale, nessun figlio, nessun hobby. Pulizie, ore in cucina a preparare i lauti pasti mentre l’omaccione guarda il calcio, pochi minuti per spazzolare tutto, poi televisione a oltranza. Fanno i turni. Uniche uscite: lui qualche ora il pomeriggio, forse per andare al bar, e lei brevi assenze per la spesa. Il minimo indispensabile e tornano a casa. Accanto a loro, l’esatto contrario. Una coppia di anziani, Achill e Greta Schneider, molto benestanti, che bevono ed escono in continuazione, sempre mano nella mano con la loro Alfa Duetto tirata a lucido. Sono mezzi sordi e spesso un po’ brilli. Dalla finestra della sala si intravedono pareti cariche di quadri e libri, tappeti costosi e mobili di legno massiccio. Lo stacco con i dirimpettai, che hanno arredato tutto in stile grande magazzino, in più con pessimo gusto retrò-campagnolo, è netto. L’estrema rilassatezza alcolicoeconomica della coppia teutonica contro le levatacce operaie pre e post pulizie compulsive.

    Annoto metodicamente anche gli orari di questa giornata. Ho preferito partire dalla mattina, piano per piano. Inutile scandagliare tutte le ore e perdermi a metà strada. Non ho fretta. In fondo, potrei addirittura rimanere in questo appartamento in pianta stabile. Oppure no. Devo ancora ambientarmi. La villa di famiglia è in campagna, verso i colli, a un quarto d’ora dal centro di Bologna; qui, invece, si prende la bici e ci si trova in centro nella metà del tempo. Chissà. Mi guardo intorno e penso sia ora di riempire le pareti dell’appartamento. Sanitari nuovi, così come letto e armadio a cinque ante, materasso e biancheria comprati ad hoc, cucina montata in qualche ora (la vecchia era stata usata poco ma pulita altrettanto poco) e divano appena uscito dal negozio: ecco tutto l’arredo. Nient’altro. Certo, se riuscirò ad ottenere ciò che desidero, e non c’è niente che in questo momento desideri di più, potrei scegliere una sistemazione di gran lunga più accogliente. Però, fin quando rimarrò qui, poiché sono dipendente dalla bellezza e dall’arte, devo riempire queste mura vuote che adesso mi sembrano occasioni perse di proiezioni ed emozioni visive.

    Mi stanno tremando le mani, accade spesso, cerco di espirare per calmarmi, lentamente e a fondo. C’è in gioco così tanto e tutto dipende dal caso e dalla mia abilità. Ma io sono una donna abile? Lo sono mai stata? Lascio la postazione (la seggiola e il telescopio), e vado in bagno. Devo uscire per fare la spesa. Mi pettino e mi osservo allo specchio. Occhi marrone scuro, leggermente sottili, ciglia folte, bocca piccola, con le labbra fini che si arricciano al centro, capelli castani e sfilati poco sotto le orecchie. Guance un po’ rilassate, eh sì, i miei cinquantacinque anni cominciano a richiedere il loro tributo. Non sono bella, non lo sono mai stata, e non sono sensuale, neanche quello. Tendo a passare inosservata se non fosse per l’altezza e il seno importante. Sono alta e il fisico, anche se un po’ appesantito dal cibo e dagli anni, rimane atletico. Do spesso l’idea di una donna algida e fredda, imponente. A volte mi scambiano per una lesbica, altre per una zitella. È incredibile la facilità con la quale le persone incasellano gli altri. Anche a me piacerebbe potermi definire con tanta immediatezza. Eppure, più mi osservo, più perdo la bussola. Una sciacquata, una pettinata veloce ed esco. Giugno quest’anno è più fresco del solito. Basso profilo, occhi sfuggenti e a passo deciso raggiungo la macchina.

    Dalla finestra della cucina osservo il sole che incendia i tetti colorati e irregolari e le chiome di bagolari e ippocastani. La vista, opposta a quella della sala, dà sul quartiere che si allontana dal centro con palazzi sempre più sparuti e case che si abbassano diradandosi tra parchi e ampie zone commerciali. Ho appena terminato la cena: prosecco, dei vol-au-vent farciti freschi di fornaio e un rotolo di tacchino ricoperto di pancetta che ho fatto sfrigolare nel forno. Mi metto in ascolto dei rumori. Ogni condominio ne ha di ricorrenti. In quello dove mi trovo c’è un costante sottofondo di televisioni e passi strascicati, oltre che bisbigli. Sono quasi tutti anziani. Tre appartamenti vuoti, i cui proprietari vengono qualche settimana l’anno, quattro dove vivono delle coppie attempate ancora autonome, ed io. Il condominio di fronte è più chiassoso. Ci sono tre bambini piccoli e i giardini al piano terra sono estensione dei primi due appartamenti, quindi, non essendo condominiali, vengono vissuti in piena libertà. Poi ci sono delle coppie giovani e, al quarto piano, nell’attico, una badante italiana per la settimana e una che deve essere ucraina o russa per il weekend, più una donna di servizio; tutte e tre strillano di continuo come galline cui stiano tirando il collo, oltre a una pletora di parenti iperpremurosi che si aggira come un nugolo di vespe attorno al proprietario ultraottantenne. I soldi li attirano come il sangue fa con gli sciacalli. Sembrano schegge impazzite: ordini impartiti alle donne che si occupano dell’uomo, manifestazioni d’affetto ai limiti della persecuzione, urla stridule per una finestra troppo aperta o troppo chiusa. La turnazione è continua. Le quattro figlie, i generi e i nipoti si contendono le attenzioni e le mansioni in una sceneggiata che non conosce soste.

    Mi alzo e vado in postazione con dei movimenti studiati, un po’ cerimoniosi, mi accosto all’oculare e fisso il punto dove ho lasciato l’obiettivo: l’appartamento degli operai. Veronica Diodato sta stendendo i panni. Non sarebbe neanche brutta a guardarla bene, non fosse che ha in corpo una rabbia mal repressa che la fa muovere in modo goffo e forzato. Immancabilmente vestita in tuta e con il mollettone sui capelli. Squadra spesso i bambini e i ragazzi del condominio. Se li sente correre o camminare con i cani per le scale stringe i pugni e di soppiatto, appena sono passati, va ad aprire il portone per cercare eventuali tracce lasciate del passaggio. Lo vedo dalla finestra che dà sulle scale. Dopo il transito capita che si sporga guardinga ed esamini il pianerottolo, i gradini e persino le pareti, probabilmente per vedere se ci siano gocce di pipì o graffi. Il compagno, Cesare, con lo stomaco e i pettorali eccessivamente grassi rispetto al resto del corpo, la ascolta lamentarsi e annuisce come un mastino a ogni sua parola. Sia la loro cucina sia la sala danno verso il palazzo dove mi trovo, ed è così per tutti gli appartamenti. Viro in alto, al secondo piano. Stento a trovare l’inquadratura, che alla fine riesco ad assestare sull’appartamento di destra. Una mamma sola con tre figli e tre cani, dei labrador adulti. Sono decisamente in troppi tra quelle mura, eppure, anche nel chiasso e nella confusione, sono una squadra. Li osservo a lungo. La signora Nadia Tamburrini fatica a muoversi, con uno stomaco enorme e il grasso sulle cosce che la spinge a camminare a gambe divaricate. Nonostante ciò, non si ferma mai. Pulisce, mette in ordine e cucina, mangia quantità di cibo notevoli e poi torna a pulire, mettere in ordine e cucinare. I tre figli, un maschio e una femmina che si assomigliano tantissimo, sui venticinque anni, e un terzo più grande e alto, tutti e tre oltre i cento chili, aiutano costantemente la madre nelle pause che il cibo e i tablet concedono loro. Nessuno dei quattro lavora. I due più piccoli, che forse sono gemelli, dovendo avere la stessa età, sono coloro che si occupano dei cani, facendoli uscire almeno due volte al giorno (cani che, inutile dire, se l’operaia potesse, avvelenerebbe in un attimo), il fratello più grande è quello addetto alla spesa. L’appartamento adiacente a quello della signora Tamburrini è il più inaccessibile. Una coppia sposata e senza figli, sui cinquant’anni, Emilio e Clelia Taddei. Due professionisti, eleganti e silenziosi. Le rare volte che li vedo cucinare, momento in cui aprono la finestra della cucina, lei dice al massimo una, due parole, e lui annuisce. La sala è costantemente schermata dalle tende di lino grigio perla. Anche questa sera tutto tace. Vado in cucina e decido di coccolarmi un po’ con il brontolio della moka e il profumo di caffè.

    Mi risveglio sul divano che è notte. Mi alzo indolenzita e do uno sguardo alla postazione. È inutile, non c’è una luce, non c’è nulla da vedere, dovrei soltanto andarmene a letto, ma non so resistere. Così mi avvicino e metto a fuoco la porzione di condominio su cui il telescopio è rimasto puntato. Riconosco la finestra delle scale, al secondo piano. Distinguo a malapena i gradini nell’oscurità quando a un tratto appare qualcosa, dal nulla. Mi prende un colpo e scatto in piedi. Il cuore batte furioso anche se, mi ripeto, si è trattato sicuramente di un’illusione ottica, magari dovuta alle luci esterne riflesse sui vetri, oppure al troppo prosecco che ho bevuto. Sembra assurdo eppure sulle scale semibuie mi è appena sembrato di vedere una figura curvata in avanti, quasi stesse arrancando per i gradini con le mani e con i piedi! Ho una paura boia ma devo dimostrare a me stessa che è stato un abbaglio. Così torno a sedermi e punto il telescopio sulle due finestre. Le scorgo velocemente, una dopo l’altra, ma niente, non c’è traccia di alcuna figura inquietante. Con la tachicardia che mi opprime mi guardo alle spalle, la sala buia non è proprio rassicurante, poi scruto nuovamente le bocche scure che campeggiano nella parete dirimpetto, due strambi poligoni irregolari, non sapendo bene neanche io cosa cercare o cosa effettivamente abbia visto. Forse è stato il prosecco. Sono stanca, e anche brilla. Osservare senza compilare il taccuino, diligentemente diviso per fasce orarie e per appartamenti, è inutile. Una stupida perdita di tempo. In più non devo raggiungere la soglia di saturazione. Se mi dovesse succedere, tutto diventerebbe più difficile. E la mia missione quasi impossibile. In fondo è come se questo condominio fosse un grande orologio e, a parte eccezioni molto rare, i suoi meccanismi sono prevedibili e ricorrenti, poiché l’uomo è, di base, un animale abitudinario. La possibilità di riuscire dipende da questo: dal calcolare in modo millimetrico ogni imprevisto, ogni spostamento, ogni variabile.

    Sotto le lenzuola, nella stanza semivuota non fosse per il letto e un armadio imponente, mi sono svegliata di colpo e ho fissato spaventata gli angoli delle pareti. Non avendo scorto nulla mi sono rilassata, lasciando andare il capo sul cuscino per il sollievo, ed è stato lì che l’ho vista. Sul soffitto, appesa come un ragno enorme, una figura dai lunghi capelli, a quattro zampe, la schiena curva e nessun volto. Ho urlato disperata e facendolo, nel sogno, mi sono svegliata. Ed eccomi completamente vigile, a notte fonda. Il silenzio di questa casa sconosciuta, la solitudine e il senso lacerante di perdita, tutto sembra piombarmi addosso. Ma devo riprendermi, in fondo, sono una donna forte, una persona fuori dal comune, e non devo vacillare per così poco… Non devo cadere nei tranelli dell’inconscio, in questo magma così pericoloso che si nutre di solitudine e di zone d’ombra. Con me non avrà la meglio.

    CAPITOLO 2

    L’ho messo in conto e almeno ogni due giorni mi chiedo se ne valga la pena. E i motivi, come le resistenze, sono tanti. Ma cosa ho da perdere? Me lo chiedo di fronte al solito caffè corretto al latte di soia e cornetto alla crema. Il giornale riporta le immancabili notizie della crisi economica in atto e della guerra in Ucraina. L’Italia arranca con il caro energia. Paradossalmente, proprio adesso che del mio lavoro ci sarebbe un immenso bisogno, le persone se ne privano per poter raddrizzare i bilanci famigliari. La crisi ha colpito diversi settori e il mio è uno di quelli. O forse sono io a non essere competitiva, a non sapermi inserire, con il mio dannato e impareggiabile snobismo, nei meccanismi famelici dell’umano commercio. Sì, deve essere così. Ognuno ha i suoi difetti e io sono stata una psicoterapeuta molto brava ma incapace di fare del marketing efficace. Sbircio la cronaca. Due femminicidi e un furto d’arte, nel museo d’Arte Moderna di Roma. È stata rubata una scultura di Medardo Rosso, del valore di mezzo milione di euro. Le telecamere erano puntate sull’opera e il sistema d’allarme risultava in funzione durante il furto. Le indagini sono in corso. Mi attraversa un brivido. L’arte è uno di quei business che il tempo può rendere soltanto più vantaggioso. Legale o illegale, può far diventare milionari.

    Pago e mi incammino lungo il viale alberato alla cui fine c’è la traversa che immette nel quartiere dove abito. I tigli sono enormi, adoro le foglie a terra e i tronchi scuri di questi alberi così imponenti. Calpestare il manto colorato che li circonda, respirando l’odore dell’estate imminente che predomina su quello di smog, mi dà benessere. Farò il possibile. Non posso fallire, sarebbe uno spreco assurdo. Per cui non devo farmi distrarre. È la mia occasione! Il grigiore e il nulla, oppure i riconoscimenti sociali e il denaro. Quest’ultima prospettiva mi elettrizza. Devo uscire dall’angolo in cui mi trovo. Per colpa di chi, non conta.

    Appena in casa accendo la radio e vado in postazione. Ore dieci, annoto. Gli Schneider stanno per tornare dalla colazione con passeggiata mattutina. Al pian terreno i bambini sono ancora a scuola e i due uomini al lavoro, rimangono le mamme. Anna Medori, nell’appartamento a destra, esce sempre di pomeriggio. Lavora da qualche parte e per tre ore viene una babysitter giovanissima, poi torna a casa e porta i figli alle varie attività sportive (come si può dedurre dai borsoni) e quindi spesa, compiti, cena, pulizia, giochi, strilli, corse dentro e fuori. Un delirio. Marta Brizi, nell’appartamento accanto, bella e impeccabile come una bambola. Il figlio è meno impegnativo, educatissimo. Anche loro escono spesso ma, una volta rientrati, lui rimane in sala a fare i compiti e lei, con grazia e tranquillità, prepara la cena e mette in ordine. La cerco oltre le finestre ma non la trovo. Non è iperattiva come la bionda, e spesso ne perdo le tracce. Non gira continuamente le stanze. Come ogni volta, osservarla mi genera una vaga sensazione di disagio. Di sicuro è la mia mania del controllo a provocarla. Quella donna sa essere sfuggente e, a volte, mi inquieta, con gesti repentini ed espressioni incomprensibili. Quando ci ripenso, però, mi sento in colpa. La verità è che sfoggia un’avvenenza notevole, e forse per questo motivo mi sento a disagio. La bellezza può creare inquietudine quando è così marcata. Sì, forse è così. È come se fossi ipnotizzata ma anche spaventata da quelle forme accattivanti, qualcosa che ho finito per non desiderare neanche più per me stessa, anzi, che ho catalogato, già a partire dall’adolescenza, come feticcio dei desideri. Insomma, dinamica che ho spesso spiegato ai miei pazienti, sto proiettando le mie inadeguatezze su questa donna che, in realtà, di conturbante non ha proprio nulla.

    Nelle rilevazioni ho deciso di procedere per fasce temporali di almeno due settimane. Ogni mossa dei condomini va scandagliata, soprattutto per quelli dell’ultimo piano, nell’attico, dove vive il Cavalier Nando Busetti, che a volte scrive, a volte sonnecchia sulla sedia a rotelle davanti alla tv e a volte si consegna inerme alle mille cure della badante e delle figlie: in tutto quattro, con annessi i mariti e ben otto nipoti. Solo le figlie e le badanti, però, hanno le chiavi dell’appartamento. Tutti gli altri devono suonare e scandire nome e cognome, farsi vedere dalla telecamera e aspettare. Non hanno un sistema di allarme, nessuno lo attiva o disattiva, ma sono molto attenti. Ermeticamente chiusi, sono di quegli altoborghesi predatori che mantengono con le mani e con i denti ogni briciola del loro benessere. Il Cavaliere ha costruito una fortuna sia come notaio che gestendo una fitta rete di immobili. Desolante il livello educativo delle figlie. Quattro donne. Due casalinghe con il vizio del lusso, una che fa la maestra, quindi, avendo cinquantacinque anni, le deve essere bastato il diploma, e poi la quarta, che gestisce un negozio di

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