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Fante di cuori
Fante di cuori
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Fante di cuori

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Il libro ripercorre la storia di Franco, arruolato per la seconda guerra mondiale. Assieme a lui, scopriamo la storia d’Italia da un punto di vista esterno e generale e anche da un punto di vista più interno e raccolto. La dimensione di paese, la bellezza di Cairo Montenotte, le difficoltà e le incertezze di giovani ragazzi che si trovano a dover combattere dall’oggi al domani: questo è ciò che dovrà affrontare Franco. Ma ci saranno anche la rinascita, le piccole soddisfazioni, e la vita che continua a scorrere per arrivare fino a noi, generazione dopo generazione.

Giovanni Perdonò, nato e vissuto prevalentemente a Cairo Montenotte sul confine ligure-piemontese, pugliese d’origine, medico in pensione dal SSN ma ancora operativo sul territorio di Savona e Provincia, sposato con Maria Clotilde, consigliere del gruppo Alpini di Cairo, sezione di Savona, si è cimentato in questo lavoro basandosi esclusivamente su testimonianze tramandate oralmente dai protagonisti dell’epoca, con l’auspicio di offrire un piccolo contributo al processo di pacificazione nazionale non ancora del tutto completato, soprattutto in questo territorio che ha visto gli eventi più cruenti della seconda guerra mondiale e della Resistenza.
 
LanguageItaliano
Release dateDec 31, 2022
ISBN9788830675933
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    Fante di cuori - Giovanni Perdonò

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREMESSA

    Faccio una doverosa premessa per gli eventuali lettori di questo papello, i fatti raccontati sono stati verificati con rigore storico, i personaggi, le vicende, i nomi, sono assolutamente reali, ho soltanto romanzato la narrazione per non sembrare un cronista asettico; persino le foto d’epoca sono state scattate dal protagonista o da commilitoni con la sua fotocamera Ferrania.

    Mi scuso per la lunga e barbosa disquisizione storica, indispensabile per legare tra di loro gli eventi, avrei potuto scriverla in corsivo, così si potrebbe anche saltare, ma non lo consiglio, soprattutto ai giovani.

    Qualche nome è di fantasia, poiché non ricordo quello vero, mentre tutti i cognomi li ho fissati indelebilmente, alcuni però li ometto, lo capirete…

    La cronologia degli eventi è piuttosto slegata, soprattutto nei fatti più recenti, mentre parlo del 2020 salto indietro di uno-due anni, solo perché in quattordici mesi ho narrato le ultime novità di casa nostra appena acquisite, sia belle che brutte.

    Franco è il vero testimone di tutte le vicende umane e di molti avvenimenti storici narrati, vissuti e passati a me di prima mano, il perché…

    PARTENZA

    «Forza ragazzi, presto, il treno sta arrivando.» Le voci concitate di una moltitudine di giovani si rincorrevano nella stazione sbuffante di locomotive, rimbombavano sotto la grande tettoia d’acciaio, si sovrapponevano all’altoparlante, che indicava la partenza del direttissimo¹ per Venezia, l’assalto alle vetture di legno di terza classe, la ricerca di una seduta meno scomoda possibile, gli zaini sopra i ripiani e sotto i sedili.

    Qualche scossone sincrono con lo sbuffo del vapore e il convoglio si mosse, sempre più velocemente, lasciò la stazione e si avventurò nella campagna la tiepida serata del 13 marzo.

    Erano già lontani ricordi le passeggiate per il Corso, la Villa Comunale, le serate da ballo allietate da suonatori improvvisati o da qualche rara tromba cantante, i grammofoni dell’epoca, le ragazze, i timidi approcci, forse ancora ieri, la sera scorsa o l’altra?

    Il treno correva, aveva superato la città del vino e le sue vigne,² le cave di marmo, il lago salato, il ponte di ferro, i canneti che segnavano il confine di regione, così come volavano i pensieri di Franco. «Biglietti, prego», invitò il Capotreno, biglietto uguale per tutti, una cartolina verde dalla quale bisognava staccare un talloncino con sopra scritto Venezia.

    Il paesaggio cambiava continuamente, ora il mare spumeggiava contro le scogliere, così come ribolliva l’Europa.

    Era il 1940, la Nazionale italiana di calcio, che entrava in campo salutando romanamente, si era riconfermata campione mondiale di calcio nel 1938, allenatore il torinese Vittorio Pozzo, Tenente degli Alpini, che nel 1934 aveva ricevuto da Starace, Segretario del Partito Nazionale Fascista, l’ordine di vincere i mondiali di Roma, e lui, caparbiamente, vinse anche quelli di Parigi nel 1938 e le olimpiadi di Berlino nel 1936. Italia e Germania avevano sottoscritto nel 1938 l’Asse Roma-Berlino, poco dopo il Ro-Ber-To (il Patto tripartito Roma-Berlino-Tokio del 1940). L’Esercito tedesco (la Wehrmacth) il primo settembre 1939 aveva invaso la Polonia, così Inghilterra e Francia, che garantivano l’autonomia di molti stati, Polonia compresa, erano scese in campo contro la Germania, lo stesso anno la Guerra di Spagna si era conclusa con la presa di potere del Caudillo Francisco Franco Bahamontes, un Tenente Colonnello comandante la lontana guarnigione delle Canarie che, senza indugi, aveva marciato in direzione Madrid, approfittando del Nazionalismo spagnolo imperante che riempiva il vuoto di potere in una debole Repubblica,³ contando soprattutto sull’alleanza di Hitler e Mussolini.

    L’Italia Fascista era assurta al grande ruolo di moderatrice di questi sussulti, sempre più violenti, prima che il cinismo del suo Capo la portasse alla rovina, come già preannunciato dalla promulgazione delle Leggi Razziali, primo vero cedimento alla volontà di Hitler.

    Dai, nessuno vuole la guerra, pensava Franco – .

    Il treno correva, la locomotiva fischiava, Franco sapeva leggere quei fischi, perché dopo molti anni (nonostante la giovane età) di lavori precari – imbianchino, decoratore e pittore – finalmente era entrato in ferrovia con il posto fisso, autentico miraggio all’epoca, con la mansione di frenatore. All’epoca non esisteva il sistema Westinghouse, che permette al macchinista di frenare tutto il treno con un comando unico, quindi, ogni tre o quattro vetture o carri merci, in fondo al corridoio o nelle garitte, c’era un uomo che, secondo il numero e l’intensità dei fischi, doveva stringere il freno o rilasciarlo, a seconda dell’asperità o della pendenza della linea. Questa tratta gli era familiare, riconosceva i punti di azione e le zone di scalo merci, dove spesso, durante la sosta, doveva controllare l’integrità del carro affidatogli.

    I suoi compagni di viaggio e di avventura, Domenico e Michele, dormivano beatamente; il primo aveva trascorso gli ultimi giorni a casa, come Franco, il secondo in un paesino in collina lavorando la terra, poi un complicato viaggio sino alla città, l’assillo meno importante di pochi pensieri e di poche nozioni di cronaca, nel suo zaino non mancavano salsicce, caciotte secche e un po’ di vino, aspro ma genuino.

    Albeggiava quando il treno superò le spiagge della Romagna, già allora rinomate per la dolce vita dei turisti, soprattutto nordeuropei, e per le ville faraoniche dei Gerarchi, poi ancora avanti, Bologna culla e tomba del Regime, Ferrara, la più antifascista delle città fasciste, Padova con il Santo che si stagliava verso il cielo, infine la Laguna, il treno che correva tra due mari come un aliscafo. «Quant’acqua, quassù» esclamò Michele sbirciando dal finestrino – «da noi è razionata!»

    «Guarda che questa è acqua salmastra, non puoi né berla, né irrigare i campi, e nemmeno ti puoi lavare» gli fecero osservare gli altri due.

    Lo sbuffo sempre più tardo del vapore avvertì il gruppo che la meta era raggiunta, giù di corsa nonostante la notte quasi insonne, all’uscita nessun camion né corriera, solo un uomo in divisa che gridava: «Forsa, tosei de l’ostia, montè sul vaporeto».

    Venezia, una città da favola, si stagliava davanti ai loro occhi con i suoi canali e canaletti, calli e campielli⁴ invece che corsi e stradine, grandi palazzi dall’architettura unica, mai vista; Rialto, il ponte dei Sospiri, le meraviglie di piazza San Marco.

    «Semo arivà»; il sottufficiale indicava un portone con la scritta:

    56° Reggimento Fanteria Caserma Cornoldi.

    «Dai, coraggio, diciotto mesi e torneremo a casa, in questo paradiso passeranno velocemente», esclamò Franco per infondere coraggio, soprattutto a se stesso.

    La stazione di partenza, fine anni ’20.

    Franco e commilitoni a Venezia.


    1 Direttissimo: treno veloce, senza supplemento di prezzo (aggiunto in seguito), conpoche fermate, soprattutto notturno, oggi sostituito dai Regionali Veloci, diurni.

    2 La città del vino ha un nome preciso, è una cittadina di circa cinquantamila abitanti (oggi) che basa la sua economia sull’uva da vino, prevalentemente adoperata per tagliare, cioè rinforzare, vini blasonati italiani e francesi poco corposi. Anche se oggi fornisce qualche etichetta

    DOC

    , più fiorente è un altro genere di attività. Altrettanto vale per le località successive, ma ometto tutti i loro nomi per mantenere nel vago la città del protagonista.

    3 Brevi notizie sulla guerra civile spagnola. Le elezioni del 1930, vinte dai Repubblicani, determinarono l’abdicazione di re Alfonso

    XIII

    di Borbone e il suo esilio spontaneo, in seguito alla crisi, anche di consensi, della monarchia.

    La seconda repubblica (la precedente era nata intorno al 1870 da un colpo di stato di breve durata), vide il dualismo tra i repubblicani più orientati a sinistra, come Primo de Rivera, e quelli più esposti a destra, come Calvo Sotelo, il cui assassinio accelerò la svolta golpista di Francisco Franco Bahamontes, nominato Comandante della guarnigione delle Canarie per allontanarlo dai focolai d’instabilità continentali. Come già detto precedentemente, Franco (non il protagonista del racconto) approfittò della situazione, marciò verso la terraferma e poi su Madrid e, oltre che Caudillo (Generalissimo o, semplicemente, conduttore come vedremo oltre), diventò anche Reggente dell’Infante di Spagna che, alla morte del tutore, sarebbe diventato re Juan Carlos di Borbone. La Guerra Civile spagnola non fu altro che il banco di prova della seconda Guerra Mondiale, durante la quale si sperimentarono nuove tecnologie belliche, (vedi il bombardamento di Guernica, immortalato da Pablo Picasso) e l’antagonismo tra la coalizione nazifascista e il Fronte Popolare, costituito da volontari antifascisti di tutto il mondo, (vedi Hemingway, Per chi suona la campana e vicende nostrane, vedi anche il capitolo "Artisti cairesi).

    4 Calli = stradine lungo i canali; campielli = piazzette.

    ARRIVO

    Come, appena partiti e già arrivati? No, erano passati più di due anni e Franco era nuovamente in treno, questa volta trainato da un locomotore elettrico, che non sbuffava né fischiava, perché il viaggio era tutto in salita. Il paesaggio era nuovamente cambiato: dal mare la ferrovia s’inerpicava verso colline verdissime, traforate da gallerie.

    Il treno fermò alla stazione di Santuario, nome di una frazione di Savona, dove troneggiava una grande chiesa tardo rinascimentale, salì un sacerdote con alcune persone al seguito che iniziarono a parlare tra di loro. «Misericordia, non giustizia, disse la Vergine al Beato Botta», ripeteva il prete. Franco cercava di ascoltare, ma il rumore del treno glielo impediva, così un viaggiatore seduto accanto, che parlava con una cadenza simile al genovese, gli domandò: «Forestiero? Non conosci la storia che sta raccontando il prete? Savona e Genova furono da sempre rivali, poi nemiche, finché nel 1528 i genovesi arrivarono in forza dal mare, distrussero l’antica Cattedrale, mozzarono la torre del Brandale, interrarono il porto e costruirono la fortezza del Priamar, simbolo della loro dominazione.

    Otto anni dopo, il 18 marzo 1536, la Madonna apparve a un contadino, Antonio Botta, chiedendogli di riferire alle autorità savonesi il suo desiderio: vedere costruita una chiesa in quel luogo; la Madonna apparve altre due volte e disse al Botta, che in seguito diventerà Beato, Misericordia, figlio, voglio, non vendetta.

    Mi pare – opinione personale – che la Chiesa avesse già all’epoca interferito nella politica, poiché la guerra terminò con la resa di Savona, che in compenso ebbe il privilegio (economicamente magro, quasi nullo) di recare l’effige della sua Vergine su navi, chiese e palazzi della Superba.

    «E tu dove vai, soldatino?»

    «A Cairo, a…»

    «Sì, ho capito tutto, buona fortuna ragazzo e, se riesci, fa’ un salto qui, al Santuario della Madonna della Misericordia di Savona, merita una visita.» (Franco seguì il suo consiglio quarant’anni dopo).

    Il compagno di viaggio occasionale scese in una stazione con un nome evocativo, Ferrania, come la macchina fotografica riposta nel suo zaino, qualcuno lo salutò: «Ciao Oscar, cosa dicono i nostri amici?»

    «Nulla, ora ho la scorta armata, non vedi?» (Lo nominerò, ben più avanti, e capirete perché fu così sibillino.)

    Poco dopo apparvero una selva d’acciaio, ciminiere in cemento che toccavano il cielo, enormi contenitori da milioni di litri e una teleferica che saliva e scendeva verso il mare.

    Franco era sovrappensiero, solo il grido del Capostazione: «Cairo, stazione di Cairo» lo richiamò alla realtà, era arrivato. Una bimba dai grandi occhi neri, scesa dallo stesso treno, gli sorrideva come per dargli il benvenuto, ma la madre diffidente la strattonò: «Via, anduma via».

    Franco chiese informazioni al Capostazione circa la sua meta, evitando di chiamarlo Collega e dargli del tu, perché quella era una qualifica elevata, pari a un alto grado militare. «O fai un lungo giro di qua, di là e così, oppure segui a piedi la ferrovia in quella direzione, non transitano treni a quest’ora, qualche centinaio di metri alla tua destra la riconoscerai.»

    Percorse poca strada e si trovò su un ponte imponente che scavalcava il fiume Bormida, alla sua sinistra una strada poco frequentata correva tra l’argine e il borgo antico, sovrastato da un campanile maestoso e, più in alto, dai ruderi del castello mediovale, muto testimone dei fasti e delle rovine del paese; in fondo, un ponte stradale che, percorrendolo, avrebbe allungato di un paio di chilometri il suo cammino; alla sua sinistra prima una costruzione imponente e maestosa, il Riformatorio, che nel frattempo stava cambiando la sua destinazione d’uso, poi ancora campi, colline verdissime, finalmente una struttura inequivocabile: il campo di prigionia! Bussò al Corpo di Guardia, si presentò prima al sottufficiale di servizio, sergente Forte, poi al capitano Garrone, nel frattempo sopraggiunto.

    «Da dove arrivi, soldato?»

    «Da Genova, signor capitano, ecco i miei documenti di trasferimento.»

    «Da Genova Quarto, ma allora sei matto?» disse sorridendo l’ufficiale.

    «No, signor capitano, a Genova gli inglesi hanno bombardato, distruggendoli, l’Ospedale Militare della Chiappella e quello civile di Pammatone, per cui il comandante della Piazza ha requisito l’Ospedale Psichiatrico di Quarto e l’ha diviso in due, un’ala per i pazzi, l’altra per i feriti di guerra.»

    «Lo so, io sono genovese, ritorno sempre a casa il sabato a trovare la mia famiglia e riferire al signor colonnello Passavanti, che qui viene due o tre volte l’anno, volevo solo sapere quanto tu fossi informato su questa guerra. Hitler ha invaso la russia, Mussolini, per spartire il bottino, vi sta mandando continuamente soldati,⁵ ma penso che stiano vendendo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, Hitler l’ha invitato a desistere per non avere palle al piede ma… ma cosa ci fa un Capitano a raccontare queste cose a un soldatino? Armati di scopa, voglio il pavimento lucido come uno specchio! E poi, la guerra in Francia e in Grecia è persa» disse, perdendo nuovamente il tono marziale «tu lo sai perché leggo il tuo Foglio Matricolare: in Africa settentrionale facciamo due passi avanti e cinque indietro, la Guerra di movimento; in Africa orientale ci hanno spazzato via come fuscelli, la battaglia aerea d’Inghilterra volge male per la Germania, la Russia sarà la fine di tutto. Ora basta, altrimenti chiuderanno anche noi due qui dentro.»

    Era l’8 agosto del 1942, esattamente tredici mesi prima della fatidica data.

    Franco alla Vesima.

    Rancio al Campo di prigionia 95 (Cairo M.)


    5 La letteratura storico-militare accusò a lungo Mussolini di essere la palla al piede di Hitler, infondatamente, perché dopo l’invasione della Polonia, preludio allo scoppio del conflitto, Adolf ammonì ripetutamente Benito per assumersi le proprie responsabilità e rispettare i trattati, ma l’inconsistenza del potenziale bellico italiano determinò davvero l’effetto palla al piede, richiedendo troppo spesso l’intervento tedesco per ovviare alla debolezza italiana e all’incapacità strategica di Mussolini, indebolendo a sua volta l’alleato tedesco. Leggete i capitoli centrali e la fiorente letteratura bellica, provate quindi a definire palle al piede Alpini, Bersaglieri, Paracadutisti della Folgore e i Partigiani.

    VENEZIA

    Com’è triste Venezia per gli innamorati delusi, per gli uomini alla ricerca di un fine o di una fine per la loro vita, per chi si è lasciato scivolare giovinezza e vita passando il tempo specchiandosi nell’acqua morta dei canali. Quant’è allegra per una comitiva di giovanotti, goffi nelle loro uniformi sempre fuori misura, con il fazzoletto legato al braccio sinistro per distinguerlo dal destro durante l’addestramento formale (Per fila a dest, mezza riga girava a destra, l’altra metà a sinistra), in giro per una città sconosciuta e strana, a fermare le ragazze per strada, soprattutto quelle vestite da cameriere, dalla fama di essere più facili.

    Arrivò il giorno della vaccinazione, quarantotto ore di riposo in branda prescritti dal Comandante per paura degli effetti collaterali. La sera Franco si avvicinò al portone per la libera uscita e l’Ufficiale di Picchetto lo fermò: «Dove vai, recluta?»

    «In libera uscita, signor tenente.»

    «Ma non sei stato vaccinato?»

    «Nossignore!»

    «Vediamo…» e il Tenente gli sferrò un pugno nel petto, in sede d’iniezione. Franco non fece una piega nonostante il dolore insopportabile e il tenente, perplesso: «Bene, puoi uscire.»

    Il 56° Reggimento, appartenente alla Brigata Salerno, era costituito da tre Battaglioni, ognuno dei quali, a sua volta, costituito da quattro Compagnie, un totale di tremila uomini, mentre due Reggimenti costituivano una Brigata o una Divisione, binaria e non ternaria (cioè con due Reggimenti, non tre come nella maggior parte degli eserciti mondiali), quasi tutti marmittoni strappati ai campi, alle fabbriche o alle gonnelle di mamma, che marciavano inconsapevoli verso il baratro. Gli Ufficiali avevano ancora i gradi sulle maniche delle giacche, come quelli di Aeronautica e Marina, un Sergente napoletano ne spiegava il significato alle reclute: «Guaglio’, chill ca tene nu maccarunciello, chill è o’ Sottotenente, chill che ne tene doi è o’ Tenente, tre maccaruncielli o’ Capitano, nu maccarone e nu maccarunciello è o’ Maggiore, nu maccarone e doi maccaruncielli chill è o’ Tenente Colonnello, nu maccarone e tre maccaruncielli è o’ Colonnello, chill ca tene a lasagna, o maccarone e o maccarunciello, chill è o’ Generale, o’ padrone o’ pastificio.» Così, cari lettori eventuali, avete imparato anche i gradi dell’Esercito italiano, oggi maccheroni e maccheroncelli sono sostituiti da stellette, torri e greche,⁶ mentre le altre resistono solo nelle alte uniformi o in quelle storiche.

    Una mattina gli ufficiali trafelati condussero le reclute al percorso di guerra, il già anziano Comandante, colonnello Capigatti, tolse la bustina dal capo e svolse tutto il percorso senza penalità (scusate il paragone ippico), quindi ordinò: «Come me, tutti i soldati, sino all’ultimo, devono completarlo, altrimenti una settimana di consegna di rigore!» Franco fece il percorso netto (altro paragone ippico), mentre Michele saltava goffamente, finendo la giornata in cella, come promesso dal Comandante, uscì giusto in tempo per ritirare un pacco pieno di ogni ben di Dio, appena arrivato da casa. «Michè, offri un po’ di salsiccia al capitano (Comandante di Compagnia), così quando gli chiederai il permesso te lo darà più volentieri»; il giovane accettò il consiglio.

    Il tempo passava e il branco di ragazzi sembrava sempre più un esercito vero in una pace armata, Mussolini attendeva il momento più opportuno per sferrare la zampata, intanto sparava al massimo la sua propaganda e i soldati marciavano cantando…

    "Arditi baldi e fieri,

    della (Compagnia) Comando siamo, bimbe dagli occhi neri, veniteci a baciare, voi ci ricordate la giovinezza fiera, bimbe dagli occhi neri, veniteci a baciare,

    e come la marcia

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