Il Grido di Protesta: Memorie dell'Olocausto
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Manny Steinberg passò la sua adolescenza in quattro campi di concentramento tra la Polonia e la Germania, sopravvivendo per più di cinque anni in condizione fisiche e mentali estreme. Il Grido di Protesta racconta la sua storia e rappresenta una testimonianza fondamentale di quello che fu uno dei più dolorosi episodi della storia umana. Con una
Manny Steinberg
Manny Steinberg, appena quattordicenne, subisce interminabili soprusi in quattro campi di concentramento diversi tra la Polonia e la Germania.
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Il Grido di Protesta - Manny Steinberg
1 RAGGI DI SOLE
Oggi è il 31 Maggio ed è il mio compleanno. Me ne sto seduto in una sedia di legno sotto un albero in fiore. Mentre mi guardo attorno e vedo i miei figli correre felici nel prato ed il sorriso splendido di mia moglie la mia mente inizia a viaggiare e penso a quando per sei terribili anni i campi di concentramento erano diventati la mia casa, una casa di morte alla quale riuscii a scampare solo per caso. Provo a scacciare i ricordi quando apro i regali e taglio la torta; i parenti mi fanno gli ultimi auguri ed è tempo di dare la buonanotte ai bambini. So che tra pochi istanti il silenzio piomberà in questa casa e tutto diventerà immobile ed allora non sarò più in grado di trattenere la mente nel ricordare la mia infanzia e la mia famiglia. Dal 1939 al 1945 ho vissuto sulla mia pelle gli orrori razzisti. Ora, molti anni dopo, è solamente grazie all’aiuto e alla volontà di chi sta sopra di noi e di mio fratello Stanley che sono in grado di raccontare la mia storia.
Sono nato nel 1925 a Radom, in Polonia. Sono il più grande di tre fratelli: Stanley è nato nel 1927 e Jacob, il più piccolo, nel 1934. Prima che Jacob nascesse ricordo che una sera, mentre ero sdraiato nel mio letto e la porta della cucina era aperta, sentii mia madre chiedere a mio padre che nome volesse dare al bambino ed io allora capii che presto ci sarebbe stato un altro fratellino seduto a tavola con noi, di cui avrei avuto cura e che avrei amato. Non riuscii più ad addormentarmi perché fantasticavo nell’immaginare il suo viso e tutte le cose che avremmo potuto fare assieme. Mi chiedevo anche se avesse potuto essere una sorellina, come era successo già ai vicini della casa di fronte. La mattina dopo mentre facevamo colazione confessai ai miei genitori che avevo ascoltato quello che si erano detti.
Succederà presto?
chiesi.
Mio padre guardò mia madre e mi accarezzò la testa, accennando un sorriso. Mi vestii ed uscii per andare a scuola con una grande sensazione di gioia ed impazienza.
La notte in cui nacque Jacob mi svegliai di soprassalto e vidi un grande lenzuolo bianco appeso tra una parete e l’altra della stanza che mi impediva di vedere oltre la fine del mio letto. A quel tempo la casa dove abitavamo aveva una sola camera nella quale dormivamo io, Stanley e, nel lato opposto, i miei genitori. Confuso e un po’ spaventato rimasi sotto le coperte ad ascoltare i mormorii lagnosi di mia madre per quello che sembrò essere un lunghissimo lasso di tempo fino a che, vinto dalla curiosità, mi alzai e spiai al di là del lenzuolo. Vidi mia madre distesa e davanti a lei riconobbi la schiena di mia nonna, le mie zie e le mie cugine; erano tutte attorno e intravidi anche qualche donna del quartiere. All’improvviso i lamenti che udivo si trasformarono in urla che mi pietrificarono. Mi voltai indietro verso il letto e vidi Stanley rannicchiato in un angolo della stanza con il suo lenzuolo tirato su fin sopra la testa. Andai a sedere accanto a lui per cercare di rassicurarlo. Rimanemmo seduti in silenzio sul pavimento e guardammo la piccola finestra appannarsi sempre di più dal caldo umido della stanza. Sentimmo la signora Guttman, una nostra vicina, chiedere dell’acqua calda con la voce acuta di chi fatica a mantenere la calma.
Tienile i piedi in su
la sentimmo dire e trova qualcosa da metterle attorno alla testa!
Per quanto tempo ancora?!
Solo qualche altro minuto. È un maschietto e deve aver buoni polmoni considerando le grida!
Sentii mia nonna sussurrare in ebraico: "Mazel Tov, che sia beato nel regno di Israele".
Quando mi svegliai qualche ora più tardi un inusuale silenzio regnava nella casa e capii che era successo qualcosa. Il lenzuolo bianco era stato levato e il letto di mia madre era vuoto. Mi alzai e mi diressi verso la cucina da dove sentivo delle voci bisbigliare. Una signora quando mi vide mi venne incontro. Riconobbi i suoi capelli rossi dalla sera prima e le chiesi di vedere mia madre. Ella allora si inginocchiò davanti a me e mi prese le mani, mi disse che mia madre era stata portata all’ospedale e che sarebbe tornata tra qualche giorno. Mi disse che nel frattempo dovevo essere forte.
E il mio fratellino?
chiesi confuso.
Resterà con tua nonna fino a che tua madre non tornerà a casa
mi spiegò tenendo ancora le mani racchiuse nelle mie. Ora vai a prepararti. Dopo la scuola ci sarà tuo padre qui a casa ad aspettarti
.
Obbedii in silenzio e mi voltai per tornare in camera mia e svegliare Stanley.
A scuola immaginavo mia madre tenere Jacob tra le braccia, faticavo a concentrarmi e aspettavo trepidante di tornare a casa per chiedere a mio padre ulteriori dettagli. Qualcuno bussò alla porta della classe e vidi il maestro uscire nel corridoio. Quando tornò aveva un’espressione strana e i suoi occhi cercavano i miei. Venne verso di me e una volta raggiunto il mio banco mi chiese sotto voce di prendere le mie cose e di seguirlo. Nel corridoio c’era la stessa signora dai capelli rossi che avevo visto in cucina appena svegliato, mi prese dalle mani la cartella e mi aiutò ad indossare la giacca, poi ci dirigemmo verso casa in silenzio. Arrivati notai subito che le finestre erano state oscurate. Quando entrammo vidi Stanley giocare nel pavimento della cucina e vidi mio padre seduto accanto a lui. Destato dal rumore della porta che si chiudeva, papà camminò verso di me e mi accorsi che stava piangendo. Me lo disse così, inginocchiandosi e guardandomi negli occhi: mia madre era morta ed io dovevo essere forte. Mi accompagnò nella stanza da letto e lì vidi il suo corpo disteso, immobile, il viso coperto da un telo bianco ricamato. Candele accese erano state posate sul pavimento attorno al letto ed illuminavano la stanza in penombra. Il giorno seguente, poiché non esistevano ancora delle vere e proprie bare, il corpo di mamma venne adagiato dentro una fossa che poi venne chiusa con delle travi di legno e sopra ci gettammo della terra e dei fiori. Io, che fino a quel momento non avevo versato una lacrima, incapace di comprendere la vastità di quello che era successo, quando l’ultimo fiore venne gettato sulla terra esplosi in un pianto incontrollato.
Per tutto il suo primo anno di vita Jacob restò a vivere con mia nonna poiché mio padre era occupato a lavorare ed era a casa di rado. Alcuni vicini si alternavano per fare compagnia a me e a Stanley e per prepararci dei piatti caldi, ma la maggior parte del tempo eravamo da soli e ci mancava enormemente nostra madre. Poi una mattina, dopo aver aiutato Stanley a vestirsi per la scuola, in cucina trovammo una donna che non avevamo mai visto prima e che disse di essere la nostra nuova madre. Ci disse che lei e mio padre si erano sposati la notte precedente e che d’ora in avanti lei avrebbe badato a noi. Anche il piccolo Jacob sarebbe stato portato a casa presto e il pensiero mi rallegrò tanto che mi ritrovai a correre incontro a questa signora sconosciuta e ad abbracciarla stretta.
Sei felice quindi?
mi chiese sorpresa ricambiando l’abbraccio.
Io annui un po’ imbarazzato di ritrovarmi cosi vicino al suo viso. I suoi capelli erano castano chiaro e mi ricadevano sulla fronte. Aveva un corpo massiccio e un volto comune di donna di campagna. Era molto diversa da mia madre la quale invece aveva avuto bellissimi capelli scuri ed occhi caldi e profondi, un corpo magro e vestiti che profumavano sempre di pulito. Mentre Stanley accettò la matrigna dal primo istante che la vide a me servirono parecchie settimane per adattarmi alla situazione e riuscire a chiamarla mamma
. Mi accorsi che mio padre mi osservava di nascosto ed un po’ ansiosamente durante quei primi giorni. Una sera, dopo cena, per aiutarmi a capire mi disse che dopo un anno di lutto voluto dalla tradizione ebraica aveva deciso di trovare qualcuno che potesse aiutarci a crescere e a badare alla casa. Non parlò mai di amore né seppi mai come si conobbero. Di certo la loro unione conveniva ad entrambi poiché venni a sapere più tardi che la mia matrigna non poteva avere figli anche se li avrebbe tanto voluti. Entrare a far parte di una famiglia con tre figli maschi ancora piccoli si rivelò per lei una seconda possibilità che visse ogni giorno con gratitudine, fino a quando venimmo trascinati via dalle sue braccia qualche anno più tardi e non la vedemmo mai più. Ma queste cose le racconterò in seguito.
Agli occhi della mia nuova madre la pulizia rifletteva la sacralità dell’animo ed ogni mattina prima di lasciarci uscire per andare a scuola ci esaminava le mani e le orecchie, si accertava che ci fossimo pettinati i capelli e che i nostri vestiti fossero in ordine. A quel tempo andavo alla scuola pubblica dalle otto del mattino a mezzogiorno e alla scuola ebraica dalle due alle quattro del pomeriggio. Stanley invece frequentava la scuola parrocchiale qualche isolato più a ovest della mia. A scuola ricordo in modo particolare uno dei miei maestri, il maestro Wegersky. Era un uomo molto alto e così magro che le sue costole si intravedevano fin da sotto i vestiti. Aveva orecchie grandi e indossava occhiali dalle lenti spessissime. Si trascinava tra i corridoi senza un filo di vitalità ed era preso di mira da molti dei miei compagni. Un giorno era il mio turno per aiutare con le pulizie del dopo lezione e decisi di parlargli.
Maestro Wegersky
dissi lei sembra sempre così triste. È forse per ciò che le dicono i miei compagni? O è per caso ammalato?
Stava scrivendo alla lavagna con il gesso bianco la lezione per il giorno seguente. Si girò lentamente verso di me con un sorriso quasi impercettibile sulle labbra e gli occhi più gentili che avessi mai visto.
No, non sono ammalato, Mendel, ma mia madre invece si ed è per lei che sono così triste
Se è malata perché non la fa visitare da un medico?
gli chiesi allora ingenuamente.
I suoi occhi si riempirono di lacrime. Sta morendo, Mendel, ed il medico dice che non c’è più nulla da fare.
Sentii il mio cuore fermarsi per un secondo e con voce bassa gli chiesi se avesse una moglie che gli stesse vicino e lo potesse aiutare. Rispose scuotendo la testa. Faticavo a trattenere le lacrime e a non mostrare pietà nei suoi confronti. Quando uscii di scuola quel giorno mi ripromisi che avrei fatto tutto il possibile per far si che le poche ore