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Le ali del peccato (eLit)
Le ali del peccato (eLit)
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Le ali del peccato (eLit)

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About this ebook

Privata dagli arcangeli della capacità di provare emozioni, Amelia non sa nulla di amore e desiderio, di rabbia e di rimpianto. Finché non è costretta a scendere sulla terra per proteggere Gabriel Gunn, l'essere umano che le è stato affidato e nel quale è imprigionata l'anima nera di Lucifero. Perché quell'affascinante cantante rock, con la sua bellezza tormentata e la capacità di farle provare sensazioni deliziosamente conturbanti, risveglia in lei un desiderio carnale che la costringe a mettere in dubbio tutto ciò in cui ha sempre creduto. In una folle corsa contro il tempo, Amelia e Gabriel devono trovare un modo per sfuggire alle opposte fazioni di angeli ribelli che vogliono impadronirsi di lui per i propri scopi. E per salvare il loro amore dalla terribile oscurità che vive nel cuore di Gabriel.

LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2023
ISBN9788830547049
Le ali del peccato (eLit)

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    Le ali del peccato (eLit) - J.K. Coi

    Copertina. «Le ali del peccato» di Coi J.k.

    Immagine di copertina:

    Kharchenko_irina7 / iStock / Getty Images Plus

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Falling Hard

    Carina Press

    © 2011 J.K. Coi

    Traduzione di Monica Raffaele Addamo

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Enterprises ULC.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-305-4704-9

    Frontespizio. «Le ali del peccato» di Coi J.k.

    Nelle migliaia e migliaia di anni in cui il mondo è stato affidato all’umanità, gli angeli hanno vegliato sulla nostra razza violenta e irrazionale, ma non per proteggerci, come vogliono le leggende.

    Questi esseri potenti e senza passioni sono rimasti in attesa...

    In attesa di una nuova possibilità per impadronirsi del paradiso terrestre.

    Ora, quel momento è arrivato.

    1

    La luce calda dei riflettori sospesi sul palco filtrava attraverso le sue lenti scure. Gabriel batté le palpebre, cercando sollievo dal sudore pungente che gli colava giù per la fronte e negli occhi, attraverso uno spesso strato di trucco ed eyeliner.

    Chiuse gli occhi. Così andava meglio. Non sentiva più il bisogno di vedere le ragazzine urlanti saltare su e giù in prima fila. Né la folla che, oscillando ritmicamente, si era fusa in un’unica entità mostruosa e si muoveva davanti a lui come un grande sciame urbano.

    Solo un anno prima si sarebbe inebriato davanti a una moltitudine tanto piena di energia, e avrebbe accettato l’adorazione dei fan come nient’altro che un atto dovuto. Adesso l’unica cosa che lo teneva sul palco era la musica.

    Fece un cenno con la testa, e alle sue spalle Sam attaccò con la batteria. Remmie lo seguì con la chitarra acustica e Jackson s’inserì col basso. Erano in sintonia perfetta. Gabriel non avrebbe potuto desiderare una scaletta migliore, considerando che si trattava dell’ultima tappa del tour.

    Rimase in disparte e lasciò che i tre si godessero quell’ultima possibilità di scatenarsi con gli strumenti. Sentiva la musica battergli forte dentro, vedeva gli accordi ruvidi pulsargli sotto le palpebre, vibranti e colorati, e comporsi vorticando in disegni familiari. A volte si chiedeva se anche gli altri vedessero le note come le vedeva lui, se la musica vivesse per loro come viveva in lui.

    Non sapeva il perché, ma credeva che non fosse così.

    I ragazzi stavano rallentando il ritmo, per rientrare nella coreografia ufficiale del pezzo. Gabriel afferrò la tracolla del basso, se lo mise in spalla e si preparò con le dita sulle corde. La folla urlava il suo nome, incitandolo a unire la sua voce e la sua musica a quelle degli altri, come se solo lui fosse in grado di soddisfare la fame selvaggia delle loro anime disperate.

    Riaprì gli occhi, ma ora che la musica lo aveva in suo potere non vedeva altro che i suoi colori scuri, elettrici. Rispondeva al suo battito possente con tutto il corpo, saltando. Con mano esperta tendeva col plettro le corde metalliche del basso, mentre le dita callose dell’altra mano scivolavano intorno al collo delicato dello strumento.

    Le note gli vibravano dentro, erano parte di lui.

    Si fermò davanti al microfono e attese un istante prima di aprire la bocca e incominciare a cantare.

    You think you know... You think you understand.

    Who I am. What I am.

    Le parole le aveva scritte lui, tutte le canzoni della band erano nate da lui, da quella sua parte oscura e sincera che nessuno vedeva mai se non attraverso le composizioni.

    You can’t. You’ll never know... I pray you’ll never see.

    The real me.

    Gabriel sentiva la forza della musica irradiarsi fino al pubblico. Era un pezzo corrosivo, industrial, con un ritmo pesante che diceva una cosa sola: muoviti o sei morto. Sapeva, senza bisogno di guardare, che una moltitudine di stivali picchiava forte sul cemento, corpi sudati ondeggiavano con forza avanti e indietro, mentre le teste si dimenavano e il sangue pompava rapido nelle vene già sature di eroina e cocaina.

    Ma non era soltanto il battito a penetrare fin nel cuore di ciascuno dei presenti. Era Gabriel a mandarli su di giri. Era lui che dettava l’umore della folla e la controllava con la sua voce. Le sue parole. La sua volontà. Ecco cosa li lasciava eccitati, smaniosi e ogni volta inappagati; ed esattamente così lui voleva lasciarli quella sera, sapendo che non avrebbe rimesso piede su un palco prima di un anno.

    Don’t try to find... Don’t try to see...

    The real me.

    All’improvviso il suono della batteria cessò. Le chitarre si spensero. La folla ammutolì a poco a poco, ma Gabriel sentiva i corpi protendersi verso il palco. Raddrizzò la schiena, strinse il collo del basso e intonò una nota più alta, tenendola. E la tenne. Per un minuto. Due. Sentiva i polmoni espandersi, gli occhi gli lacrimavano. Bruciò fino all’ultima molecola d’aria prima di riportare la nota dentro di sé. Piegandosi sulle ginocchia, tirò un profondo respiro e strappò al basso l’ultimo suono metallico.

    Le luci si smorzarono e il palco fu invaso dal buio mentre il sipario, abbassandosi, separava la band dal pubblico ancora urlante.

    Accanto a lui, Remmie fece una risatina. «Cazzo, Gabe, che finale.»

    Jackson disse qualcosa sullo stesso tono, ma Gabriel lo udì a stento. Il battito del suo cuore sovrastava tutto, fuorché l’eco degli ultimi accordi della canzone.

    Ancora senza fiato si girò e fece un cenno a Sam. Avevano dato tutti il meglio di sé e, a giudicare dai larghi sorrisi scambiati dalla troupe, quella notte avrebbero festeggiato come non mai.

    «Non lo facciamo un bis?» chiese Remmie.

    La folla, ancora su di giri, li chiamava sul palco.

    Phantasm. Phantasm.

    Sam indugiò attorno alla batteria, infilandosi le bacchette nella tasca posteriore dei pantaloni. «Dopo quel finale? Non se ne parla proprio.» Si avvicinò a Gabriel con un sorrisetto. «Nessuno al mondo potrebbe fare di meglio. Mai. Nemmeno tu.»

    Gabriel stava già rimettendosi il basso a tracolla. Lo mise giù piano, appoggiandolo alla chitarra elettrica per lasciarlo alle cure dei roadies.

    Un movimento dietro il palco, a sinistra, catturò la sua attenzione. Scorse per un attimo dei lunghi capelli chiari. Qualcuno aveva appena fatto capolino dietro il pesante sipario.

    Quando Sam gli diede una pacca sulla spalla e lui si voltò con una risata. Scostandosi dal viso i capelli sudati, accettò una bottiglia d’acqua da Remmie. «Hai ragione, Sammy. È stato grande. Una conclusione con i fiocchi per il tour.» Bevve una lunga sorsata d’acqua fredda. «E adesso andiamocene di qui.»

    Lasciò per primo il palco. Mentre attraversava il sipario, il suo sguardo incrociò il più bel paio di occhi azzurri che avesse mai visto. Parte di lui registrò anche una cascata di capelli biondi e serici e delle labbra rosa che, per fortuna, non sembravano avere alcuna intenzione di prorompere in strilli da fan estasiata.

    «Accidenti, Gabriel, è stato stupefacente!» David gli venne incontro sulle scale, con un largo sorriso sulla faccia. Passò accanto alla donna senza degnarla di uno sguardo e porse ai ragazzi delle altre bottiglie d’acqua. «Stasera siete stati grandi, tutti quanti. Penso sia stato il vostro concerto migliore finora, ed è tutto dire, considerando che non c’è stato un concerto peggiore in questo tour – tranne che in quel buco nel Jersey, dove volevano spacciare il loro impianto audio da recita scolastica per qualcosa di serio...»

    David, amico di vecchia data e manager di Gabriel, era anche il suo primo fan. In tour, non c’era compagnia migliore, quando erano costretti a passare otto settimane di fila su un pulmino. Non solo David O’Malley era di compagnia, ma sapeva anche mantenere la pace nel gruppo.

    Dopo quello che era successo l’anno prima, aveva fatto di tutto perché Gabriel si rimettesse in piedi. In quel periodo incerto era stato come un collante per la band, e in tour era l’unico che sapesse tenerli concentrati sulla musica, evitando che andassero fuori di testa per la frustrazione, costretti com’erano ai cibi insipidi, alla costante presenza reciproca e alla vita d’albergo. Se Gabriel dominava il palco, David regnava dietro le quinte, e badava a far filare tutto liscio come in una base militare.

    «Okay ragazzi, sbrighiamoci con la produzione, così possiamo tornarcene a casa dalle nostre famiglie.» David si voltò verso Remmie, aggrottando la fronte «Dico a te, ragazzo. Lo so che Jenny ti aspetta giù in camerino, ma cerca di non diventare uccel di bosco. E puoi prendermi alla lettera. Per prima cosa, ci sono i vincitori del concorso backstage per le foto, poi siamo attesi dall’altra parte della città per l’afterparty dello sponsor. C’è già almeno mezza stampa del cazzo ad aspettarci.»

    Tutto splendido, pensò Gabriel con una smorfia, ma voleva dire che l’altra metà di quelle maledette sanguisughe di giornalisti era appostata proprio fuori dalla sala.

    Mentre Remmie e Jackson scherzavano con David, dandogli dello schiavista e ricordandogli che tutte le rock star facevano quel che volevano, Gabriel si guardava intorno alla ricerca della ragazza dagli incredibili occhi blu. Sembrava che se la fosse svignata.

    «Ehi, David» li interruppe. «Chi era quella ragazza dietro il sipario, un momento fa? Dove è finita?»

    David si voltò. «Quale ragazza? Lo sai che non faccio avvicinare i fan al palco durante lo spettacolo.»

    «Bionda. Occhi blu.»

    Scosse la testa. «Non ne so niente. Non ho dato a nessuno il permesso di entrare, e non ho visto nessuna ragazza...» Si girò di nuovo verso Remmie con una smorfia di impazienza, «... cioè, a parte Jenny. Remmie, amico mio, devi metterle il guinzaglio. La sicurezza l’ha beccata mentre cercava di venire dietro il palco a guardare lo show.»

    «E allora? Dove diavolo sta il problema?»

    «Era senza maglietta.»

    Remmie cercò di giustificare la sua nuova, disinibita ragazza, Sam e Jackson ridevano, prendendo in giro il compagno, ma Gabriel non li ascoltava più. All’improvviso si sentiva esausto. Era stata una lunga tournée, e, ora che era finita, l’adrenalina che lo aveva tenuto in piedi fino all’ultimo concerto stava svanendo in fretta. Fino a qualche anno prima la cosa non lo avrebbe preoccupato, ma ora aveva bisogno di tempo per ricostruire le sue difese ed essere in grado di affrontare i fan e la maledetta stampa.

    «David, se trovi la bionda portamela.» Bevve un altro sorso d’acqua e si diresse verso le scale.

    «Perché?»

    Era incerto. «Non lo so.» Si strinse nelle spalle. «Ma voglio scoprirlo.»

    Due ore dopo il club era deserto, a eccezione del personale notturno di pulizia e del loro capo, pigramente addormentato su una sedia dietro il palco.

    Gabriel strinse qualche mano e firmò alcuni autografi, poi seguì David verso l’ingresso posteriore del locale. Remmie, Jackson e Sam li avevano preceduti all’afterparty nel tentativo di arginare le proteste della stampa per l’ennesima, deliberata assenza dai riflettori del leader dei Phantasm.

    «Allora, che ti prende stasera? Non avevi detto di essere pronto?»

    «Per cosa?»

    «Andiamo, lo sai benissimo. Pronto per ricominciare con tutto: affrontare la stampa, farti vedere, avere a che fare col pubblico.»

    Gabriel inarcò un sopracciglio e rispose all’occhiata penetrante con uno sguardo che sperava sembrasse abbastanza annoiato. «Non so neanche di cosa parli.»

    «Ma fammi il favore. Non è da te dare la caccia per ore a una groupie fantasma. Se vuoi una ragazza, ce ne sono centinaia che mi pregano di portarle da te, e almeno la metà sono maggiorenni, se non proprio sobrie.»

    «Lo sai che non è questo che voglio.» Da un anno quelle scopate anonime e ripetitive non rientravano più tra le sue abitudini. Nemmeno l’alcool e le droghe. Da quando era morta Leanne. «No, quella donna era diversa. E non è una ragazzina. L’ho vista gironzolare attorno al palco dopo il concerto e credo che mi stesse guardando.»

    «Cristo, Gabe. Ti guardano tutti, continuamente. Lo sai.» Tacque per un momento. «Lo sappiamo entrambi che non è della ragazza che si tratta davvero, almeno non di questa.»

    Invece, per la prima volta dopo tanto tempo, le sensazioni di Gabriel non erano più offuscate dal dolore, la rabbia, il senso di colpa o la vergogna, o da tutte queste emozioni insieme. Si trattava soltanto di una misteriosa, bella ragazza.

    Non sapeva come spiegarlo, ma dal momento, sia pur breve, in cui aveva incrociato gli occhi della bionda nel backstage si era sentito come attraversare da una scossa. Era la stessa ondata di energia che provava sul palco, la spinta di una forza esaltante.

    «Ma sì, come vuoi. Ora non ha importanza.» Non voleva parlarne con lui. Avrebbe pensato che stesse scivolando di nuovo nella depressione e nel senso di colpa per l’overdose che aveva ucciso Leanne. «Vediamo solo di far passare questa notte.»

    «Non chiedo altro» disse David sorridendo. «Amico mio, per quanto bene ti voglia, non vedo l’ora di dire addio al tuo brutto muso per un po’ e tornarmene a casa da Lila.»

    Lila, la moglie di David, non li aveva più seguiti in tour dalla nascita del figlio Tony, e né David né Gabriel potevano biasimarla se voleva restare a Chicago, vicino alla famiglia. Il pulmino di una rock band in tournée non era il posto dove far crescere un bambino, di certo non lo era stato l’anno precedente, quando la band viaggiava con un entourage costantemente sballato o strafatto.

    Gabriel ridacchiò. «Non penso che le cose andranno come te le immagini, David. Visto che la tua adorabile moglie ha insistito perché venga a casa con te, a farvi visita.»

    David si fermò sulla porta. Si avvinghiò alla maniglia, costringendo anche l’amico a fermarsi se non voleva cadergli addosso. «Mia moglie cosa? No, non lo farai. Devi prima darmi almeno una settimana da solo con lei. Ho bisogno di tempo per farle ricordare come mai continua a desiderare il vecchio manager noioso, invece del più sentimentale cattivo ragazzo del rock.»

    «E perché mai dovrei torturarmi con cibi da asporto, supercostoso porno televisivo e la compagnia di me stesso quando potrei godermi le dolci lusinghe della cuoca più strepitosa di questa parte dell’Atlantico?» sbuffò Gabriel.

    «Così mi farai morire, lo sai?» David spinse la porta. La luce cruda di una lampada a fluorescenza brillava sopra l’uscita, descrivendo davanti a sé un piccolo cerchio di luce smorta. Un soffio d’aria gelida proveniente dalla baia di San Francisco li investì mentre uscivano nel vicolo buio dietro il locale. «Perché non vai a fa...»

    Whoosh, un sibilo.

    Gabriel diede una rapida occhiata a destra e a sinistra, ma David reagì per primo, gettandosi davanti all’amico. Provò a spingere entrambi di nuovo dentro l’edificio, ma la porta si era già chiusa, bloccata dall’interno.

    La macchina che doveva venirli a prendere era lì, parcheggiata e in attesa, ma il parabrezza era in frantumi e, all’interno, il fidato autista di Gabriel era coperto di sangue, gli occhi spalancati in uno sguardo vuoto.

    «Oh, Dio» gemette David mentre scrutava le ombre scure. «Oh, Dio, no. Gabriel. Larry... è morto.»

    Per un istante vi furono solo oscurità e desolazione, ma un attimo dopo una figura prese corpo dalle ombre. Li assalì tanto rapidamente che Gabriel ebbe a stento il tempo di muoversi.

    Gli arrivò un pugno in pieno viso, che gli fece sbattere la testa sul muro di mattoni del locale. Un’esplosione di stelle sotto le pupille. Con un grugnito di dolore, chiuse gli occhi per scacciarle e afferrò David. Tentò di buttarlo sull’asfalto, in modo che potessero strisciare entrambi dietro la limousine. Ma quell’idiota resisteva, e proprio mentre cercava con ostinazione di spingersi davanti all’amico un sottile raggio di luna si rifletté su una lama d’acciaio puntata contro di loro.

    La lama sibilò nell’aria prima di affondare nella carne. Non la sua.

    Gabriel urlò, mentre David cadeva in avanti, picchiando la testa sul selciato con un colpo secco.

    Sangue. Oh, merda, all’improvviso c’era sangue dappertutto. Sui vestiti e sulla faccia di David. Gli gocciolava da un angolo della bocca, stillava dal taglio profondo che gli attraversava la gola, per terra, sulle schegge luccicanti del parabrezza.

    «Oh, no, David. Oh, Dio.» Gabriel alzò lo sguardo, tentando di individuare chi li aveva aggrediti, ma vedeva solo forme indistinte, come se guardasse attraverso lenti spesse sfumate di rosso e di nero.

    Si scagliò allora contro quella figura sfocata, badando a restare davanti all’amico per proteggerlo col corpo. Nel frattempo imprecava senza sosta e pregava in silenzio, ma disperatamente, per la vita di David. Cercò di guardare il nemico negli occhi, purtroppo il bastardo portava un mantello nero col cappuccio, e, nel buio del vicolo, gli era facile tenere il viso nascosto.

    «Fatti vedere, maledetto bastardo» ringhiò. «Ti uccido, figlio di puttana.»

    «Non ci riuscirai» echeggiò la voce dell’uomo, lenta e profonda. «Prova pure, però.»

    Gabriel scosse la testa come per liberarsi di quella cadenza sgradita, quasi musicale, che gli si dissolveva nel cervello come una nuvola d’hashish. «Vaffanculo» rispose digrignando i denti. Anche se ormai erano trascorsi degli anni, nel suo passato non proprio invidiabile aveva partecipato a ben più di una rissa. Istintivamente serrò il pugno e il suo sinistro secco e deciso andò a segno.

    Colpì un’altra volta, rapidamente, il misterioso aggressore, prima che questo passasse al contrattacco. Il problema era che i suoi pugni sembravano non avere alcun effetto. Il tipo non arretrava. Neanche batteva ciglio.

    Poi, con il colpo successivo, lo mancò.

    Come se fino a quel punto avesse solo giocato, lo spettro senza volto sollevò il braccio libero a difesa e con l’altra mano sferrò la spada insanguinata contro il petto di Gabriel.

    Lui fece appena in tempo a torcersi bruscamente verso destra, ma la spada lo infilzò ugualmente all’altezza dello sterno. Con troppa facilità. Un dolore lancinante gli esplose dentro mentre la lama gli graffiava le costole per poi attraversarlo in tutta la sua lunghezza. Quando l’uomo la estrasse con uno strattone, Gabriel cacciò un urlo.

    Rabbia mista a impotenza gli pulsava nelle vene come una spessa poltiglia. Cadde in ginocchio, ansimante, premendosi il pugno sulla ferita. Il dolore lo tormentava ai fianchi, come se avesse corso una maratona. Sangue rosso scuro gli gocciolò sulla mano, allargandosi sulla camicia bianca. Non riusciva a fermarlo. Caldo e appiccicoso, gli colava dentro la cintura dei jeans.

    Lottò per rimanere in piedi, per proteggere David, mentre puntini neri come l’inchiostro gli tremolavano davanti agli occhi, eppure vedeva ugualmente la figura scura che incombeva su di lui, pronta a sferrare un altro colpo, quello finale.

    Mentre il sangue gli scorreva tra le dita, gli sembrava impossibile che neanche cinque minuti prima stesse ancora prendendo in giro David, e programmando di passare un pigro weekend con lui e Lila, per poi mettersi al lavoro sul nuovo album.

    Oh Dio, David.

    Sentì che gli occhi gli si chiudevano e chiese scusa all’amico in un sussurro, temendo che non potesse più sentirlo.

    Proprio in quel momento udì un fruscio vicino, ma non riuscì a capire da dove provenisse esattamente. Si sforzò di tenere gli occhi aperti e fece appena in tempo a scorgere un’altra figura atterrare tra lui e il suo aggressore, come se arrivasse direttamente dall’alto.

    Qualcosa di caldo gli lambì il viso, e gli occorse un momento a capire che non era sangue. C’era un donna in piedi davanti a lui. Gli dava le spalle e aveva i capelli lunghi e biondi. Pur con la vista annebbiata, Gabriel non poté non riconoscere il chiaro splendore che la circondava, un’aura di luce bianca che le si spandeva intorno, racchiudendolo come in una sfera. Trattenne il respiro, pieno di stupore.

    Lei girò la testa per guardarlo, esaminarlo con i suoi grandi occhi azzurri, taciturni.

    Occhi azzurri. Capelli biondi.

    Gabriel aprì la bocca, poi la richiuse, tentando di gridarle un avvertimento, invece emise solo un rauco rantolo di dolore. Lottando contro la nausea e le vertigini, allungò la mano per afferrarla e tirarla verso di sé. Lei però lo scrollò via come se gli fosse d’impaccio.

    Mentre continuava a sanguinare, le forze lo abbandonarono del tutto. L’ultima immagine che vide prima di perdere conoscenza fu quella di una dea guerriera in armatura d’argento, immersa nella luce. Brandiva una spada luminosa per difenderlo, spiegando le grandi ali bianche che le sporgevano dalle scapole.

    Ali d’angelo.

    Ma era impossibile...

    2

    Gabriel si svegliò sapendo già, prima di aprire gli occhi, che si trovava in un letto d’ospedale. Il ronzio dei monitor, gli odori che lo assalivano facendogli rivoltare lo stomaco, l’ago della flebo infilato nella mano: era tutto inconfondibile.

    Molto lentamente, sollevò le palpebre. Gli ci volle qualche minuto per abituarsi alla penombra della stanza e ricordare quello che era successo.

    Il vicolo. Un aggressore nascosto nell’ombra. Troppo sangue.

    David.

    I ricordi gli piombarono addosso. Rivide il volto del suo migliore amico, esanime e coperto di sangue, e dovette soffocare un grido rauco.

    Spinto dal bisogno di trovarlo, si sforzò di mettersi a sedere e cercò di raggiungere il tasto per le chiamate, ma era più facile a dirsi che a farsi. La testa gli pulsava forte, facendo eco al duro battito del cuore. Gli veniva da vomitare.

    «Non muoverti. Ti strapperai i punti.»

    Credendo di essere solo, trasalì al suono dolce e melodioso di quella voce femminile. Appena si voltò, però, un dolore acuto lo pugnalò al fianco. Ricadde sui cuscini piatti, soffocando una imprecazione.

    La donna era seduta accanto al letto. Nel buio della stanza, Gabriel non riusciva a scorgere i tratti del suo viso, ma distingueva il colore dorato dei capelli che le scendevano sulle spalle. Avrebbe scommesso i suoi tre dischi di platino che sul palco, sotto i riflettori, sarebbero stati di un brillante biondo chiarissimo.

    «Chi...» Sentì le labbra aride spaccarsi, la gola riarsa in fiamme. Deglutì piano e ricominciò: «Chi sei?».

    E cosa ci faceva lì? Puntando i gomiti sul materasso, si raddrizzò e provò di nuovo a sedersi. Il dolore lo investì, facendogli strabuzzare gli occhi. Respirando profondamente, aspettò che passasse, ma sembrava non volersene andare.

    Lei si avvicinò e, mettendogli una mano sulla spalla, si sporse per raggiungere un pannello di pulsanti di fianco al letto.

    Il suo profumo lo colse di sorpresa. Dolce e speziato. Inebriante ma casual al tempo stesso: la donna più pura e tenera e la più desiderata delle vamp, legate insieme in un’ingannevole confezione. Era impossibile, pensò Gabriel, catturare e imbottigliare una fragranza che avesse lo stesso effetto. Era diverso da qualunque altro profumo, richiamava alla mente immagini di calme insenature illuminate dalla luna, giunchi oscillanti nella brezza leggera e milioni di stelle riflesse sull’acqua increspata. Nello stesso tempo, faceva pensare a corpi nudi e luccicanti di sudore che si avvinghiavano, scivolando l’uno sull’altro...

    Mentre lei si sporgeva ancora per schiacciare il pulsante della testiera del letto, Gabriel notò qualcos’altro. La vita sottile che premeva sul materasso, le braccia snelle e muscolose e i polsi minuti. Se fosse stata in piedi

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