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Io & il cane (e poco altro)
Io & il cane (e poco altro)
Io & il cane (e poco altro)
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Io & il cane (e poco altro)

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About this ebook

Una storia di (dis)avventure, complicità, momenti di relax, sfide per gioco e molto altro. In questo racconto fortemente biografico, Dimitri Arzenton narra senza fronzoli ma con dovizia di particolari e una pregevole scrittura la sua esperienza di vita con Lapo, un cane arrivato a casa in una fredda mattina di dicembre. Dimitri non è da subito il suo padrone, anzi lui stesso non è un amante degli animali in genere, né sa come approcciarli. Passo passo però il cane diviene una presenza costante nella vita dell’autore con cui stringe sempre di più i rapporti, a partire dalle belle passeggiate in riva alla spiaggia o dai momenti vissuti accanto a lui al pianoforte. 
Io & il cane (e poco altro) è la storia di un amore unico e divertente, che cambia la routine di vita di uomo e la rende gioiosa e piena di episodi più o meno buffi da raccontare e ricordare. 


Dimitri Arzenton, cinquantaquattro anni, vive a San Giorgio di Nogaro (UD). Ha conseguito la laurea in Lettere moderne e filosofia all’Università di Trieste nel ’93, mantenendo al contempo una grande passione per l’informatica e una certa curiosità per la scienza, la fisica in particolare. Musicista per vocazione ed “eredità” materna, suona il pianoforte dall’età di cinque anni. Ha vissuto con il suo cane, Lapo, dal 2005 al 2022.
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2022
ISBN9788830674028
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    Io & il cane (e poco altro) - Dimitri Arzenton

    Copertina-LQ.jpg

    Dimitri Arzenton

    Io & il cane

    (e poco altro)

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6655-9

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Io & il cane (e poco altro)

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Introduzione   

    Tutti possediamo grandi convinzioni. Ci servono proprio: sono quei riferimenti necessari per navigare a vista nel mare incasinato della nostra vita. Una specie di bussola che ci dà il nord, un manuale di istruzioni per l’uso che in realtà nessuno ci ha mai consegnato. E ci piace esibirle agli altri, ne andiamo fieri perché ci rendono forti e decisi quando le rispettiamo alla lettera. Eppure proprio lì dentro mettiamo in realtà le nostre insicurezze, in un continuo preferire la via vecchia, ché chi la lascia non sa quello che trova.

    Io non ne ho molte di queste convinzioni ma le ho, come tutti.

    Ho sempre saputo, ad esempio, che non mi sarei mai preso la responsabilità e la fatica di avere un cane. Ma non perché non mi piacciano gli animali.

    Se ci fosse un album fotografico, a raccontare la mia esistenza, mi si vedrebbe a tutte le età in compagnia di un animale domestico: i gatti di mia madre, i cani dei miei zii, una papera portata a casa e addomesticata – come nelle peggiori pubblicità di una volta –, un porcellino d’india. Perfino una scimmia, un regalo durato però meno di due settimane, cioè il tempo necessario al quadrumane per riuscire a quasi distruggere due case. Quella della nostra famiglia e quella della famiglia di mia zia, noi al piano sopra loro al piano sotto a condividere una palazzina, un cortile e naturalmente la vita.

    Tutti gli animali di questo album virtuale erano però di qualcun altro. A loro dedicavo il mio tempo e i miei spazi, certo, ma solo quando lo volevo, senza responsabilità né aspettative.

    Il fatto che ora sia qui a scrivere di questi ultimi diciassette anni vissuti con un cane significa che qualcosa è andato storto, o comunque in maniera diversa da come la pensavo. E forse vale la pena raccontarlo, andando indietro con la memoria a fatti, aneddoti scivolati via veloci con la vita di tutti i giorni. Senza troppo ordine né una vera premeditazione. Come quei racconti, anzi quelle chiacchiere da bar dove tra un prosecco, una birra e una tartina, parli di cose serie e di stupidaggini sparse con lo stesso tono: mai troppo serio, mai abbastanza divertito. E alla fine alzi il calice a brindare, comunque felice. In questo caso a un amico che ora, purtroppo, non c’è più.

    L’inizio

    Lapo arrivò a casa in una mattina di dicembre, disteso in una posizione buffa e disordinata sul fondo di una scatola di cartone della grandezza di un vassoio, completamente aperta in alto.

    Fu un’idea di mio fratello, e della sua ragazza dell’epoca, recarsi al canile e innamorarsi di quell’esserino dall’espressione dolce ma decisa, ricoperto da un pelo fulvo già abbastanza folto, interrotto all’altezza del naso da una vistosa chiazza bianca. Erano gli anni in cui il rampollo di casa Elkann balzava alle cronache per l’abuso di cocaina. A mio fratello venne logico associare i due nasi e pensare a voce alta il possibile nome: Lapo. Altrettanto logico fu per il cane rispondere istintivamente all’appello e staccarsi dalla cucciolata.

    E ora era lì, sul pavimento del salotto. A far fronte all’eccesso di attenzioni che umani sconosciuti andavano rivolgendogli.

    Grande quanto il palmo della mia mano, sollevai quel coso e lo rimirai con la dolcezza che ogni gesto indirizzato a un neonato dovrebbe avere. Nello stesso tempo, però, lanciandomi in dichiarazioni sui massimi sistemi tipo guarda che non intendo prendermene cura o ricordati che questo è il TUO cane, rivolte ovviamente a mio fratello noncurante di me e raggiante per il nuovo inquilino di casa. Nei cui occhietti scuri, via via meno spaesati e incerti, sembravano già albergare tutta la dolcezza e l’allegria del mondo.

    Non dirò nulla di nuovo raccontando la sensazione di bello che l’arrivo di un animale può regalare. Qualcosa che trascende l’evento stesso ma diffonde una misteriosa felicità, un’atmosfera natalizia cui non si sfugge.

    Allestimmo velocemente un paio di ciotole per acqua e cibo e il cane fu lasciato libero di muoversi, di esplorare la sua nuova realtà, fuori dalla scatola che fin lì lo aveva ospitato. Ma in effetti ci saremmo aspettati più entusiasmo, visto che dopo una breve e sommaria perlustrazione Lapo puntò deciso al divano, tentando malamente di scalarlo. Troppo piccolo per riuscirci lo aiutai, posandolo nel punto che evidentemente aveva già scelto e che, da lì in poi, sarebbe stato suo. Tanto da costringere mio fratello, che su quel divano era solito addormentarsi guardando la tv, ad assumere per il futuro una posizione più rannicchiata, in linea con la nuova distribuzione degli spazi di pertinenza.

    Se devo essere sincero non ricordo molto di quei primi tempi.

    Il cane trascorreva quasi tutto il suo tempo col padrone e non mi degnava di troppe attenzioni. Ma almeno gli stavo simpatico. Tanto che la sera, mentre il resto della famiglia – padre e fratello – sonnecchiava sul divano, mi cercava per giocare; certo, non prima di essersi prodotto lui stesso in una robusta pennica a recuperare le energie.

    Avevamo un’intera stanza per noi. Pochi anni prima la prematura scomparsa di nostra madre e, un anno più tardi, di nostra nonna avevano lasciato un vuoto enorme tanto nelle nostre anime quanto, fisicamente, in casa. E per un cane tutto quello spazio si trasformava in infinite opportunità di gioco.

    Possedeva, come tutti i cuccioli, un modo stupendamente buffo di muoversi: a scatti imprevedibili, alternando piccoli balzi a ondeggiamenti sparsi, con pause improvvise e successive accelerazioni tanto scoordinate quanto ridicole. Spesso incappando in inciampi e collisioni con ostacoli improvvisati.

    Se poi si metteva a correre era uno spasso: una sorta di palla di pelo a quattro zampe, decisamente scoordinate, tuttavia molto veloce e altrettanto fuori controllo. Pronta alle scivolate più ardite sul pavimento di casa e a testacoda entusiasmanti, ma anche a meno nobili urti contro il battiscopa.

    Già che sto passando in rassegna le abilità motorie del cane va citato il solito, coraggioso tentativo di scalare il divano. Era una vera e propria prova di carattere, una sorta di appuntamento ripetuto col destino al momento contrario: Lapo fissava l’obiettivo con sguardo di sfida da cavaliere medievale pronto alla battaglia, prendeva una breve rincorsa e si lanciava in un balzo maldestro. Destinato al fallimento perché ancora sottodimensionato per quell’impresa.

    Capii che Lapo era cresciuto il giorno in cui lo vidi pigramente ascendere senza sforzo all’amato giaciglio.

    Nelle giornate che passavano veloci non c’era solo il gioco, ovviamente. Cercavamo di educarlo a poche regole essenziali, senza troppi fronzoli: ricompense sotto forma di carezze per i comportamenti corretti, rimproveri per quelli sbagliati. E Lapo sembrava capire, forse anche più e più in fretta del previsto.

    Per evitare di essere sgridato, ad esempio, si era inventato un protocollo di fuga preventiva sotto la sedia del dolore, come l’avremmo chiamata più tardi. Uno sgabello posto vicino alla porta d’ingresso dove il quadrupede, forse, sperava di non essere visto o comunque di non poter essere raggiunto. Mi fa ancora sorridere ripensare a quanto quelle fughe fossero frequenti e spesso immotivate e come le intraprendesse con decisione.

    Una scena tipica prevedeva noi seduti a tavola, magari a pranzo, e il cane sul suo angolo di divano a poca distanza. Mai completamente in relax, ma sempre con almeno un orecchio proteso a captare i nostri discorsi per intuire se parlassimo di lui. In quel caso, nel dubbio di aver combinato qualcosa di sbagliato, la corsa immediata al suo rifugio. Da cui si sarebbe mosso solo dopo opportune assicurazioni, scandite con tono benevolo da imbonitore televisivo e corredate di sorrisi rassicuranti. Alla faccia della presunta, e fin troppo pubblicizzata, fiducia canina.           

    La sedia del dolore divenne, in un secondo tempo, anche il luogo da cui Lapo imparò a manifestare apertamente il proprio dissenso a quelle che erano, secondo lui, decisioni scellerate degli umani. Tipo costringerlo a un bagno saltuario, per ripulirlo una tantum, convincerlo a prendere una pastiglia o semplicemente proporgli una passeggiata al guinzaglio. Ricordo che fu questo il primo punto su cui il cane non accettò compromessi e anzi ci costrinse, tutti, a una sorta di patteggiamento.

    Vale la pena raccontarlo.

    Il primo passo fu fargli accettare un grazioso collarino blu con appesa una medaglietta a forma di cuore recante il suo nome. E la cosa, nonostante qualche rimostranza, andò a buon fine tanto che, poi, arrivò il momento di assicurare al collarino il guinzaglio. Ma nel preciso istante in cui il meccanismo a molla, con un piccolo scatto metallico, andò a fissare il guinzaglio all’anello che sporgeva dal collare, il cane si bloccò.

    Eravamo già scesi in strada e la scena rasentava l’incredibile. Lapo giaceva sdraiato a pancia in giù sull’asfalto, inamovibile, le zampe allargate senza vita apparente, come quelle pelli d’orso distese con studiata eleganza vicino a un camino acceso, centro nodale del tipico cottage montanaro da film.

    Definimmo quella posizione a cane morto, anche se a me ricordava piuttosto Adriano Celentano nella copertina del singolo Yuppi du¹. E a nulla servirono i tentativi di riavviare la bestiola. Provammo con rassicuranti carezze e poi con efferate minacce, perfino lo rimettemmo dritto a

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