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Ducati: Storia di un mito italiano
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Ducati: Storia di un mito italiano

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In Italia esistono due grandi rosse nel mondo dei motori: la Ferrari e la Ducati. La casa di Borgo Panigale è la regina indiscussa delle due ruote, di cui è diventata simbolo di eccellenza, ingegneria e velocità. Un marchio di successo che, dall’Emilia di inizio Novecento, è andato alla conquista del mondo, sia nei mercati che sulle piste. Ma non è stato sempre così. La Ducati, infatti, è la vicenda di una famiglia che, passando tra i turbini della storia, dal nulla inventa qualcosa di imprevisto: una moto che avrebbe fatto correre e sognare milioni di persone. Questo è il racconto di un’azienda italiana, delle sue creazioni e delle sue sfide, tra battaglie, successi e modelli iconici che accendono l’anima e il cuore dei motociclisti sulle strade di tutto il mondo.
 
LanguageItaliano
PublisherDiarkos
Release dateFeb 2, 2023
ISBN9788836162598
Ducati: Storia di un mito italiano

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    Ducati - Alessandro Ruta

    DUCATI_FRONTE.jpg

    Alessandro Ruta

    Ducati

    Storia di un mito italiano

    Rimanere dietro a una Ducati è come stare in discoteca.

    Valentino Rossi

    Quando metti il culo su una Ducati, metti il culo su una leggenda. Se lo metti da un’altra parte lo metti su un pezzo di ferro.

    Federico Minoli, presidente Ducati

    Par cgnósser un Bulgnais, ai vól un an e un mèis; e po quand t’l’hè cgnusó, t’an al cgnóss brisa cum at cgnóss lo.

    Per conoscere un bolognese, ci vuole un anno e un mese; e poi quando l’hai conosciuto, non lo conosci quanto lui conosce te.

    Antico proverbio bolognese

    Prima parte.

    C’erano una volta le onde radio

    Le anguille del sindaco

    Il rosso Ducati colora la storia di una regione: l’Emilia-Romagna. Terra di grandi ingegni, grandi lavoratori, grande cucina e snodo cruciale per quanto riguarda l’Italia in generale, non fosse altro per la sua posizione geografica, che abbraccia la Pianura padana dall’Adriatico agli Appennini, passando attraverso climi e paesaggi diversissimi. Del resto l’avevano intuito già gli antichi romani, tracciando e costruendo la via che da allora prende il nome del console Marco Emilio Lepido, la via Emilia, e quando spostarono, in tarda età, a Ravenna la capitale del loro impero d’occidente.

    La storia della Ducati a Bologna – il cuore di questo mondo fatto di terre pianeggianti, città laboriose e motori che rombano – non è altro che il risultato di una serie di eventi iniziati oltre mille anni fa, quando ci si muoveva solo a cavallo o a piedi, sulle poche strade lastricate, e le due ruote erano ancora di là da venire.

    L’Italia del Centro-Nord era in pieno fermento. Bizantini, veneziani, imperatori e dogi, duchi e soldati, mercenari e combattenti: tutti cercavano il proprio posto al sole in una terra ricchissima di materie prime e di rivali. I fronti erano diversi, ma ce n’era uno in particolare che agitava le acque, letteralmente, visto che il territorio era ricco di fiumi, paludi e lagune, e cioè la zona intorno a Ferrara. Città non ancora gioiello dell’arte mondiale, era di fatto appena sbocciata ma intralciava già i traffici della Repubblica di Venezia, anch’essa non ancora Serenissima.

    Eserciti, assedi, battaglie. Il vero obiettivo delle offensive veneziane era la zona di Comacchio, cittadina-chiave per il commercio del sale, di cui la repubblica dei dogi era gelosissima, al punto da voler annientare i vicini ferraresi considerati pericolosi. Questi ultimi allora chiamarono in soccorso un capitano di ventura, uno di quelli che si guadagnavano da vivere col mestiere della guerra: si chiamava Tommaso Caballeris, e veniva dalla Sardegna.

    Con lui, con questo soldato, si fa cominciare la dinastia della famiglia Cavalieri Ducati, stirpe divenuta poi nobile che ancora oggi, naturalmente, ha i suoi rappresentanti. Un doppio cognome che esiste dal XVI secolo, dopo che Caballeris si era guadagnato il titolo di duca di Castelsaggio, per aver difeso in maniera arcigna Ferrara dagli assalti veneziani. Castelsaggio, da un isolotto dentro il letto del Po, in cui la famiglia Cavalieri avrebbe costruito persino un castello, andato distrutto (si dice) dopo una piena del grande fiume che taglia la pianura.

    «Antica e nobile famiglia romagnola, originaria della Sardegna, patrizia di Ferrara e signora di Castelsaggio. Con patente del 5 aprile 1582, conservata nell’Archivio di Stato a Vienna, la nomina a conte del Sacro romano impero da parte dell’imperatore Rodolfo I d’Austria. Tra i personaggi più illustri il grande scienziato matematico e ottico Bonaventura, fondatore del calcolo sublime. Nobili di Comacchio con Decreto ministeriale di riconoscimento in data 2 agosto 1938 e successivo 23 dicembre 1938».1 Bonaventura Cavalieri, la cui statua troneggia nel cortile dell’Accademia di Brera a Milano, nientemeno. Del resto era nato nel capoluogo lombardo ed era stato uno degli scienziati più importanti della sua epoca, la prima metà del Seicento. Ne racconta la vita e l’opera l’Enciclopedia Treccani:

    Entrato giovanissimo nell’ordine dei gesuati di S. Gerolamo in Milano, si trasferì intorno al 1616 a Pisa, dove poté essere guidato negli studi di matematica da Benedetto Castelli. […] Le premure del Galilei, quelle non meno pressanti del Castelli e le concordi informazioni sul merito di lui mossero i signori del Reggimento della città di Bologna a promuovere il Cavalieri alla cattedra primaria di matematica, che egli occupò a partire dall’inizio dell’anno scolastico 1629 fino al termine della sua vita. […] Questo aspetto della sua attività scientifica si manifesta nelle opere minori, le quali tuttavia sono notevoli, sia per interessanti nuovi sviluppi pertinenti alla trigonometria sferica, sia per le geniali applicazioni della teoria dei logaritmi, che egli per primo ha introdotto in Italia, sia per alcuni ritrovati pertinenti alla meccanica e all’ottica, fra i quali è da ricordare la scoperta delle formule che servono alla determinazione dei fuochi negli specchi e nelle lenti. […] Ma l’opera capitale del Cavalieri, quella per cui egli rimarrà nella storia, è la Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota. Una lettera al Galilei del 15 dicembre 1621 prova che fin da quell’epoca il Cavalieri era in possesso delle idee fondamentali cui si impronta la sua geometria. Nel novembre 1627 l’opera era compiuta, ed egli ne dava notizia al Galilei. […] Come fondamento logico della sua teoria, il Cavalieri aveva posto una genesi delle grandezze geometriche, per cui queste erano rappresentate come totalità di elementi primordiali, che furono detti indivisibili: la linea come totalità di punti, la superficie come totalità di linee, il corpo geometrico come totalità di superficie. Le misure di lunghezze, di aree, di volumi, la determinazione dei centri di gravità, erano così ricondotte alla somma d’infiniti indivisibili, cioè a quella operazione che oggi vien detta integrazione definita.

    Insomma, il discendente del soldato Caballeris fu tra i primissimi a studiare e parlare degli integrali in matematica, un argomento che ancora oggi fa venire il mal di testa a tutti gli studenti del mondo. Un genio della scienza, morto prematuramente a causa di una serie interminabile di guai fisici, a partire dalla gotta. Lo trovate a Brera, appunto, scolpito dall’artista Giovanni Antonio Labus nel 1844, e in diverse vie sparpagliate per la penisola, da Milano a Bologna, le città di nascita e di morte.

    Eppure per trovare un momento-chiave nella storia della Ducati dobbiamo tornare a Comacchio, uno dei punti più belli del Delta del Po, che con il passare dei secoli è diventata un centro di riferimento gastronomico per il sale e per le anguille, una prelibatezza tipica del luogo rinomata in tutte le parti d’Italia. Intorno alla metà del XIX secolo il sindaco di Comacchio è Carlo Cavalieri Ducati, discendente di Bonaventura, ma già col doppio cognome. Suo fratello Giovanni, medico, dopo aver studiato all’università di Montpellier in Francia era stato patriota durante il Risorgimento, con il risultato di finire esiliato a Costantinopoli.

    Carlo trasportava i capitoni, le anguille femmine adulte. Lo faceva con delle imbarcazioni particolari, composte di un legno particolare, bucherellate per consentire all’acqua di entrare senza far affondare la barca e consentendo ai pesci di sopravvivere, e di arrivare freschi, per esempio, fino a Napoli. Perché il capitone va mangiato fresco, altrimenti non vale più nulla, o quasi.

    I capitoni venivano catturati tramite i cosiddetti lavorieri, un sistema costituito da palizzate infisse nella bassa acqua dei canali di Comacchio e dintorni che obbligavano i pesci a prendere un percorso obbligato. Si trattava di una serie di bacini comunicanti, a forma di punta di freccia, un tempo costruiti in grisole (fasce di canna palustre legate da paviera) e pali, mentre in era contemporanea è in cemento e griglie metalliche. Una tradizione secolare che ancora oggi funziona, in quanto è estremamente efficiente per la pesca separata delle anguille rispetto ad altri animali della stessa specie; questo perché sono pesci che in un certo periodo dell’anno, soprattutto in autunno migrano verso il mare, stimolati dall’istinto riproduttivo, salvo poi rientrare alla valle. Il lavoriero fa convergere tutti i pesci in passaggi obbligati e li cattura in blocco nel primo sbarramento, a maglia più larga, tranne l’anguilla, che essendo più sottile riesce ad oltrepassarlo, ma viene bloccata al secondo sbarramento, caratterizzato da maglie più fitte. E da lì non scappa più.

    Trasportare questo pesce prelibato a Napoli era un viaggio lunghissimo: naturalmente era necessario navigare tutto l’Adriatico, lo Ionio e risalire dalla Sicilia. Del resto c’era molta domanda e giravano parecchi soldi, che il sindaco di Comacchio lasciava, almeno i guadagni, nelle casse del Comune. Carlo, insomma, si dedicava al commercio, fino a quando in una classica notte buia e tempestosa, come ce ne possono essere sulla costa adriatica, il bastimento carico di anguille non venne travolto da una tempesta, andando tutto distrutto, comprese le preziosissime barche in legno bucherellate. Cavalieri Ducati si salvò la vita, ma dovette pagare il carico di pesce e venne truffato, perdendo la sua mega-abitazione di Comacchio.

    Debito pagato, quindi, ma senza più una casa né per lui né per la sua famiglia, che comprendeva tra gli altri due figli di Carlo: Antonio e Gaetano. Quest’ultimo si costruirà un’efficientissima carriera come agente delle cartiere Burgo, arrivando a comprarsi una bella tenuta a Marignolle, sulle colline intorno a Firenze, vicino alle meravigliose ville appartenenti ai Medici. Antonio, invece, prenderà tutt’altra strada dopo aver studiato al Politecnico di Milano, foraggiato dal fratello di papà Carlo, lo zio Giovanni, l’ex patriota.

    Di nuovo, nel capoluogo lombardo, i Ducati trovano un pertugio, dopo che il primo lavoro di Antonio era stato in una fabbrica di aghi per cucire a Bologna. Nel 1882 si laurea in Ingegneria industriale e durante quegli anni conosce un suo coetaneo destinato a diventare pure lui un nume tutelare della meccanica: Ernesto Breda. Molto tempo dopo i destini di queste due famiglie, i Breda e i Ducati, torneranno a incrociarsi.

    Una vola laureatosi le maggiori industrie cominciano a litigare per assicurarsi le prestazioni di Antonio, il cui ramo principale sono le costruzioni civili: dighe, acquedotti e ferrovie. In un’Italia unita da poco, dove uno dei peggiori problemi è rappresentato dalle pessime condizioni igieniche delle città, le epidemie di colera si susseguono e bisogna in qualche modo rimediare, a partire dall’approvvigionamento dell’acqua. I vari comuni italiani allora iniziano a investire pesantemente in queste infrastrutture.

    Ed è proprio grazie agli acquedotti che Antonio Cavalieri Ducati diventa un personaggio rinomato nel Regno: per la progettazione e la realizzazione dell’acquedotto di Chieti dal 1887 al 1891 gli viene assegnata la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Utilizzando condotte forzate di tubi metallici porta l’acqua proveniente dalla Maiella fino a una fontana collocata nel centro del capoluogo abruzzese, che si trova su una collinetta a 330 metri sul livello del mare. È un capolavoro di ingegneria, capace di resistere alla fortissima pressione dovuta alla discesa del liquido dalla Maiella, usando tubi di ghisa dello spessore di 6 centimetri, fusi dalle fonderie di Pesaro, per realizzare un grande sifone idraulico a 40 atmosfere. Il giorno dell’inaugurazione dell’acquedotto il duca degli Abruzzi appunta sul petto dell’ingegner Cavalieri Ducati la prestigiosa onorificenza. Non sarà la prima volta per quanto riguarderà la sua famiglia.

    Ma poi lavora a tutto un blocco di opere pubbliche imponenti, come il progetto della ferrovia Codigoro-Mare (Porto Garibaldi), la progettazione e la costruzione dell’acquedotto di Comacchio, sua città natale, in cui si dedica anche alla sistemazione dei Trepponti e alla bonifica delle valli nonché allo studio sul piano regolatore delle case popolari.

    Lavorando per la realizzazione delle condutture idriche di Trieste conosce Lydia, una ragazza del posto – anche se originaria di Graz in Austria – che diventa sua moglie. Non riesce a completare questo lavoro, su cui rimane per cinque anni (dal 1894 al 1899), per motivi politici, visto che all’epoca la città è ancora sotto il dominio austro-ungarico.

    In contemporanea al lavoro di Antonio, infatti, un altro ingegnere, il tedesco Oskar Smreker di Mannheim, aveva presentato un progetto diverso, che prevedeva la trivellazione di alcuni pozzi nella località di Aurisina, con acqua decisamente meno pura rispetto a quella del Timavo. A parità di voti ottenuti dai due studi era stato il podestà di Trieste Carlo Dompieri a decidere, e aveva optato, forse spinto da convenienze politiche, per Smrecker. Per Ducati, comunque, una bocciatura non del tutto priva di risultati, dato che era stato congedato con una modesta somma in denaro, che lo aveva ripagato di parte delle spese effettuate per il progetto. Tuttavia l’acquedotto non verrà mai realizzato.

    Antonio Cavalieri Ducati, assieme alla famiglia, si trasferisce definitivamente a Bologna, che diventa così la sua nuova casa. Il primo alloggio è in Via Saragozza, vicino alla Madonna Grassa lungo il portico di San Luca, dove nasce il primogenito Bruno, che però muore dopo appena quattordici mesi per via di un’infezione intestinale. Decidono allora di spostarsi più in centro, in piazza Maggiore, nel palazzo Re Enzo, dove il Comune di Bologna concede ad Antonio l’uso dei grandi saloni dell’edificio per il suo studio. In quel palazzo vengono al mondo, a distanza di un anno tra il 1903 e il 1905, altri due figli, Adriano e Bruno, che invece sopravvivono. Ne arriverà un terzo, Marcello, nel 1912, quando i Cavalieri Ducati avranno già cambiato casa, di nuovo, in Via Poeti 4: un trasferimento ulteriore dovuto a dei lavori di rifacimento del palazzo, opera dell’architetto Alfonso Rubbiani, e degli affreschi del De Carolis.

    Sarà nell’abitazione di Via Garibaldi 3, dove oggi sorge Palazzo Barbazzi, che la storia della famiglia vedrà l’ennesimo, questa volta cruciale, cambio di prospettiva. I locali diventeranno sede, nel 1925, della Società scientifica radio (Ssr), fondata da Antonio per porre le basi del futuro lavorativo dei tre figli, assieme al loro amico Carlo Crespi. Nella fattispecie uno di questi sarà il più visionario, vero fenomeno di precocità e di genio: Adriano. Il ragazzo all’epoca ha appena ventidue anni, ma già una grande passione, mutuata da un altro grande bolognese dell’epoca, il cui nome, grazie a un’invenzione da lui stesso perfezionata, ha letteralmente ha attraversato il mondo: Guglielmo Marconi.

    Adriano Cavalieri Ducati è un fenomeno per quanto riguarda la radiofonica, e in una stanza di servizio della casa di Via Garibaldi 3 ha cominciato a trafficare con i suoi apparecchi…

    Il genio di Adriano Cavalieri Ducati

    Bologna la rossa, ma anche la grassa. All’inizio del Novecento la città emiliana è ancor di più la dotta, altro suo celebre soprannome. Tutto è in grande fermento, infatti, e mai come in questo caso l’aggettivo elettrizzante calza a pennello. Risulta difficile stare dietro a tutto ciò che succede nell’innovazione scientifica e tecnologica, tra Augusto Righi che si occupa delle ricerche sui fenomeni elettrici seguendo le orme del grande bolognese Luigi Galvani, già autore tempo prima di esperimenti e scoperte sempre nello stesso ambito, e un certo Guglielmo Marconi che inventa la radiotelegrafia senza fili.

    Nel 1922 tocca ad Adriano Cavalieri Ducati prendersi il proscenio. In quell’anno è soltanto un giovane studente di fisica che si sta interessando proprio all’ambito della radio e alle sue applicazioni pratiche. Oltre a essere un allievo promettentissimo, infatti, tra le sue intuizioni possiamo annoverare la costruzione di piccoli trasmettitori con una potenza minima di 50 watt e con l’uso di onde di 100 metri, chiamate onde corte per l’appunto. Una grossa novità, visto che fino ad allora le trasmissioni radio erano compiute con grandi potenze, tra i 2000 e i 3000 kilowatt, e a onde lunghe se non lunghissime, tra i 20 mila e i 30 mila metri.

    Sono esperimenti che diventano sempre più approfonditi, tanto che il 15 gennaio 1924, quando Adriano ha quasi ventuno anni, riesce a collegare Bologna nientemeno che agli Stati Uniti d’America. Si tratta di qualcosa di davvero rivoluzionario, un traguardo storico per la scienza, tanto che le maggiori riviste del settore ne parlano nel dettaglio.

    L’organo ufficiale dei radiantisti Usa, «Qst», nel maggio di quello stesso anno pubblica un lungo articolo con tanto di foto del giovane Cavalieri Ducati. Ecco come descrive quei momenti e quelle prime trasmissioni la rivista:

    Il mattino del 21 gennaio 1924, dopo due minuti di chiamata Adriano Cavalieri Ducati in Italia era in grado di comunicare con IXW segnando così l’inizio delle comunicazioni italo-americane nei due sensi a onda corta. Quattro sere dopo ACD chiamava per cinque minuti le stazioni americane e si metteva subito dopo in comunicazione con 2AGB a Summit, nel New Jersey, riuscendo questa volta a mantenere la comunicazione per oltre due ore. Da quel giorno molte sono state le stazioni degli Stati Uniti cui è toccato il piacere di ricevere i segnali di ACD e di comunicare con lui. Al signor Ducati è riuscito di collegarsi almeno con una stazione americana e canadese ogni notte in cui l’ha tentato. In una occasione, pur avendo la sua potenza di uscita a 45 watt, riuscì a farsi intendere assai bene da IXAR ad Atlantic, nel Massachussetts.

    Adriano opera dal suo studio in Via Garibaldi 3, naturalmente, la sede della società fondata dal papà assieme agli altri due fratelli. Scendendo più nel dettaglio «Qst» aggiunge:

    Non ci si sorprenderà nell’apprendere che il trasmettitore di Adriano Cavalieri Ducati è collegato […] tramite il circuito Hartley con condensatori variabili in serie in antenna e nel contrappeso assai facile da aggiustare per ottimi risultati su lunghezze d’onda prossime alla fondamentale e sulla fondamentale stessa. Il trasmettitore usa due valvole francesi di 50 watt nominali ciascuna ed è alimentato con poco più di 100 milliampère a 2000 volt in corrente alternata, vale a dire con una potenza di alimentazione di 260 watt. L’onda che ha varcato l’Atlantico, di lunghezza 110 metri, ha usato corrente di 3,8 ampère. L’onda, volendo, si può ridurre a 40 metri con 1,5 ampère d’antenna.

    Un trionfo su tutta la linea per il giovane Cavalieri Ducati. Tanto che il suo professore in Geodesia teoretica (scienza che studia il complesso di metodi necessari per misurare e rappresentare la terra, il suo campo di gravità e i suoi movimenti) all’Università di Bologna, Federico Guarducci, pensa ancora più in grande per il giovane. Lo mette in contatto con l’ammiraglio Alberto Alessio, direttore dell’Istituto idrografico della Marina militare. Non c’erano dubbi sulle capacità e sul potenziale di questa scoperta: piuttosto, andava solo applicata con un esperimento. Una stazione sarebbe stata montata su una nave che poi piano piano avrebbe dovuto allontanarsi da una stazione che invece si trovava a terra.

    L’ammiraglio non è la prima volta che ha a che fare con esperimenti del genere, visto che già nel 1898, con gli apparecchi all’epoca ideati da Guglielmo Marconi, ne aveva effettuati su una nave della Marina durante una crociera di Vittorio Emanuele di Savoia, all’epoca principe ereditario e di lì a due anni, dopo l’assassinio di suo padre Umberto a Monza per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, re d’Italia.

    Alessio chiede e ottiene dal ministro della Marina, il duca Paolo Thaon di Revel, di organizzare un’altra crociera radiotelegrafica per testare l’efficacia degli apparecchi costruiti da questo giovanotto bolognese. Li fa quindi installare sull’incrociatore San Marco in procinto, assieme al gemello San Giorgio, di partire per l’Argentina.

    Il viaggio si rivela fin da subito fruttifero. La campagna di esperimenti si basa su costanti trasmissioni tra il San Marco e la base San Paolo della Reale Marina di Roma. L’imbarcazione si allontana di ora in ora e tra le prime scoperte c’è che le trasmissioni girano il globo dalla parte della notte senza affrontare la parte illuminata dal sole. Si riescono a collegare, poi, le isole Canarie e la Nuova Zelanda e in generale l’incrociatore con tutti e cinque i continenti.

    Quando arriva a Buenos Aires, mentre gli strumenti di Adriano Cavalieri Ducati continuano a trasmettere con Roma, il giovane scienziato viene accolto come un eroe. Organizza subito una conferenza stampa all’Accademia tecnico-scientifica della capitale argentina dove racconta i suoi esperimenti, e quando rientra in Italia a La Spezia, assieme al ministro Thaon di Revel, viene nominato cavaliere della Corona d’Italia, quando ancora è sulla tolda della San Marco.

    In fondo, le scoperte di Adriano sono davvero sensazionali. A quei tempi, con le stazioni radio a disco rotante e a scintille, una nave poteva chiedere soccorso solo fino a 30 chilometri di distanza, mentre con le onde corte si aprivano orizzonti impensabili.

    Ducati è il più giovane cavaliere della Corona d’Italia mai visto, con i suoi quasi ventidue anni. Gli viene dato un robusto premio in denaro, ma in particolare la Marina gli mette a disposizione i laboratori tecnici dell’Accademia navale di Livorno, il massimo delle risorse di allora, con l’incarico di studiare la realizzazione di nuove stazioni radio a onde corte per connettere l’Eritrea e la Somalia con l’Italia.

    E intanto scrive, redige e pubblica manuali sulle sue scoperte e sui suoi esperimenti. In particolare un volume di oltre 600 pagine intitolato Le onde corte nelle comunicazioni radioelettriche, che dedica a Sua Altezza Reale il principe di Piemonte, futuro re di maggio Umberto II di Savoia. Dalla prefazione del libro possiamo leggere alcune frasi che inquadrano bene la mentalità di questo giovane genio.

    In un campo in evoluzione come quello trattato riesce arduo lo scrivere poiché il progresso a volte è più rapido del lento accumularsi dei caratteri da stampa. Ho cominciato a scrivere sul finire del 1924 in Oceano (Campagna di S.A.R. il Principe di Piemonte nell’America Latina) durante gli intervalli fra una esperienza e l’altra e oggi ritrovo ben poco di quanto scrissi allora, dopo le modifiche e le aggiunte che mi hanno suggerito esperienze più recenti, delle quali ho tenuto conto fino agli ultimi istanti della stampa. […] Aristotile e Galileo lasciarono una massima che il professore Righi fece incidere sulle pareti della nostra aula di Fisica: «Quello che l’esperienza e il senso ci dimostrano si deve anteporre ad ogni discorso ancorché ne potesse assai fondato» e che mi piace qui ricordare riconoscendola molto appropriata alla nuovissima scienza delle comunicazioni senza filo. L’indole di questo libro è infatti esperimentale e nello scriverlo mi sono proposto di renderlo accessibile al maggior numero di persone. Per questa ragione, se pure spesso con notevoli difficoltà, ho evitato ogni svolgimento matematico, cercando tuttavia che il lettore possa ben rendersi conto dei fenomeni esaminati per poterli poi al caso approfondire con sicurezza. […] Il mio sentimento di riconoscenza per coloro che direttamente o indirettamente contribuirono alla realizzazione di questo lavoro mi rende molto gradita la possibilità di ringraziare qui i professori Sassi e Guarducci ai quali debbo ogni aiuto durante le mie prime esperienze, l’ammiraglio prof. Alberto Alessio, l’ammiraglio conte Attilio Bonaldi e il comandante Giuseppe Pession, che accolsero e propugnarono l’idea delle prime prove oceaniche su onde corte, gli Enti Nazionali ed Esteri che inviarono dati, referenze, ecc., i professori Majorana, Vanni, Alexanderson, Hulbert, Mesny e Taylor che mi fornirono documenti e consigli nei riguardi dello studio esperimentale sulla propagazione ed infine i miei genitori e i miei fratelli che molto mi aiutarono nella compilazione.

    Già, i genitori e i fratelli, che si sono fatti letteralmente in quattro per poter stare dietro alle scoperte mirabolanti del giovane Adriano. Il quale tra il 1925 e il 1926 si dedica allo studio delle onde cortissime, lunghe 5 o 6 metri, assieme al collega americano Bob Phelps, con cui compie esperimenti in grado di scambiarsi segnali radio a distanza di 6000 chilometri.

    Ed è solo un altro piccolo passo verso altre mirabolanti scoperte, visto che Adriano Cavalieri Ducati negli anni successivi concepirà i primi microapparecchi per le radiosonde atmosferiche e poi apparecchi radio ancora più piccoli, che si diffonderanno come portatili. Talmente minuscoli da essere in grado di restare nell’elmetto dei soldati, con alcuni esperimenti effettuati davanti a una commissione nei giardini del Quirinale, davanti al re Vittorio Emanuele III.

    Lontani ormai i tempi in cui Adriano, assieme ai fratelli, con l’aiuto economico del papà e di Carlo Crespi, aveva fondato la Società scientifica radio brevetti Ducati solamente per costruire condensatori destinati agli apparecchi radio.

    Si chiamano Manens, quei condensatori, e sono prodotti a

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