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la bella donna
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la bella donna

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About this ebook

    «La vita, dottore» gli chiesero, ricordando una sua frase, «è ancora una puttana?»
    «La morte, è una puttana!» rispose. «Bacia tutti sulla bocca, grandi e piccoli, maschi e femmine, belli e brutti!»

Il romanzo racconta come una giovane ragazza del popolo, costretta per anni a subire violenze di ogni genere da due cugini di buona famiglia, riesca alla fine a vendicarsi con coraggio e determinazione di tutte le offese subite.
LanguageItaliano
PublisherGFE
Release dateJan 17, 2023
ISBN9791222057248
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    la bella donna - Oreste Toma

    CAPITOLO 1

    Alle nove del mattino del primo maggio, una giornata piena di sole e di rondini, don Antonio e suo nipote Giacinto, Gigi, entrambi vestiti di camici bianchi ricamati, uno con l’acquasantiera e l’altro con il cesto delle offerte, uscirono dalla canonica per le prime visite della benedizione pasquale, quell’anno la Pasqua era caduta in ritardo, il 23 aprile. La mattina di quel giorno andavano a benedire le case di don Raffaele, di don Pasqualino e del maresciallo dei Carabinieri sulla caserma. Per le altre avrebbero ripreso nel tardo pomeriggio e continuato poi nei giorni successivi.

    «Ma perché» chiese Giacinto «dobbiamo benedire prima le case dei ricchi?»

    «Così ce le togliamo davanti».

    Don Raffaele, il medico condotto del paese, abitava in un bel palazzo a due piani che si affacciava sulla piazza, a pochi metri di distanza dalla chiesa madre.

    Aveva studiato a Padova e dopo la laurea per un po’ di anni era rimasto nel paese del Santo, si era sposato con una compagna di corso ed entrambi avevano lavorato nell’ospedale della città. Solo una volta, il primo anno dopo le nozze, i compaesani avevano potuto vedere la bella sposa bionda passeggiare per le vie del borgo. Poi non si era più rivista, né al funerale del suocero, né a quello successivo della suocera tre anni dopo.

    Quando se ne tornò definitivamente al paese nella casa dei genitori, don Raffaele aveva quarant’anni. Nessuno sapeva se la Padovana era morta o non lo aveva voluto seguire in quello sperduto paese dell’entroterra salentino.

    La prima persona che curò al suo arrivo fu Margherita, la sorella e perpetua di don Antonio. Quando entrò nella camera della malata in canonica restò fulminato. Nonostante la febbre che la cuoceva, vide nel suo volto la serenità e la tranquillità paesana della vita familiare che avrebbe voluto avere, lontana dalle correnti di alta tensione. Un odore di ginestra riempiva la stanza. La visitò alla presenza del fratello e le toccò con dita morbide la pelle ancora giovane. Mise l’orecchio sulla spalla nuda, le esaminò il palato infiammato e toccò col cucchiaio l’ugola e le tonsille voluttuose. Venne la sera e il mattino dopo, e lo fece per due settimane.

    Si sedeva sulla sedia ai piedi del letto, volto verso la malata, e parlava di sé e della sua vita passata. Chiedeva di lei e della sua. Parlava di Padova e chiedeva di Molfetta. E continuò le visite senza orario anche quando si fu completamente ristabilita.

    «Prendetevi cura di chi ha più bisogno» gli disse infine don Antonio, prendendolo da parte.

    «Guarda, reverendo» gli spiegò il medico «che non avete niente da temere: Margherita potrà continuare a fare tranquillamente quello che fa ora. Diciamo che avrà due case, tra l’altro quasi attaccate, dove potrà abitare».

    «Non dovete convincere me» lo tramortì don Antonio.

    «Vi riportavo le sue parole».

    Don Raffaele non la cercò più, non frequentò più la chiesa madre e guardò sempre con ostilità quel prete che aveva deciso per lei, di questo era sicuro. Ma continuò ad amarla in segreto fino all’ultimo dei suoi giorni.

    Nella grande casa viveva da solo con un figlio di sei anni, Emanuele, ed entrambi si giovavano dell’opera di una giovane vedova, Nunziata, che vi passava l’intera giornata a servizio, fino a sera.

    Venne ad aprire proprio Emanuele e fu in quella occasione che i due bambini, entrambi di sei anni, si incontrarono per la prima volta.

    «Pace a questa casa e ai suoi abitanti» declamò don Antonio entrando nella stanza di ingresso. E mentre Nunziata li portava in giro per tutto il palazzo, continuò con la benedizione:

    «Metti al riparo da ogni rovina, Signore, gli abitanti di questa casa, liberali da ogni freccia che vola di giorno, da ogni molestia che vaga di notte e da ogni sventura del demonio meridiano».

    «Ti sei vestito come una femmina, mona!» bisbigliò Emanuele a Giacinto che seguiva composto lo zio attraverso tutte le stanze, con il secchiello dell’acqua santa.

    Giacinto guardò don Antonio.

    «Toseto» lo ammonì il prete «stai parlando con una bronsa coverta! Devi fare molta attenzione alle scottature».

    «Non essere scostumato!» lo rimproverò la serva, che faceva gli onori di casa in assenza del padrone, in giro per le visite ai malati.

    Per ultimo fu benedetto lo studio, che occupava la prima stanza vicino all’ingresso. C’era un’antica scrivania con una poltrona di pelle, un grande scaffale carico di libri, un lettino e un armadio farmaceutico pieno di medicine e di piccoli attrezzi, laudano, morfina, segale cornuta, digitalina, chinino, scarificatori, bisturi e garze.

    Giacinto guardava curioso tutti quegli oggetti in ordine dentro la vetrina. Emanuele gli stava appiccicato dietro.

    «Il mio papà fa il dottore» mormorò dietro la sua nuca.

    «Non il prete, come il tuo!»

    Il chierichetto gli diede una veloce gomitata nello stomaco.

    «Mi ha dato un pugno!» gridò.

    «È perché tu gli stai attaccato addosso» lo rimproverò il prete. «Non lo ha fatto apposta!»

    Mentre uscivano di casa: «Mangiapolenta!» sussurrò Giacinto a Emanuele, passandogli accanto.

    «Terón!» gli bofonchiò dietro il toseto, quando il chierichetto si fu allontanato.

    Il nuovo maresciallo, arrivato in paese nella primavera dell’anno precedente, abitava nell’alloggio al primo piano della caserma, un antico edificio appartenuto a don Pasqualino. La giovane moglie, Aurora, capelli corti e camicette provocanti, che in chiesa non portava il velo e si sedeva nella navata dei maschi, era oggetto di continue lamentele da parte delle vecchie bizzoche, che rimproveravano al parroco di non prendere i dovuti provvedimenti per impedire quello scandalo.

    Una sera dell’estate scorsa, mentre marito e moglie passeggiavano sottobraccio in piena piazza in occasione della festa patronale, lo scemo del villaggio, un energumeno ventenne, sfuggito alla sorveglianza dei parenti, aveva rincorso la coppia facendosi largo tra i passanti e sulla schiena nuda della bella dama aveva appioppato un pugno che l’aveva fatta svenire.

    «Copriti, puttana!» aveva urlato.

    Successe il finimondo. Il ritmo del Bolero, che la banda inconsapevole suonava in quel momento, favorì l’inseguimento: il maresciallo lo rincorse, travolgendo bancarelle di copete e noccioline, e lo ridusse quasi in fin di vita. Ma il fatto non ebbe strascichi diversi dagli sghignazzi e dalle risate che l’episodio provocò per parecchi anni di seguito.

    Dopo aver benedetto gli uffici e le celle vuote dei detenuti, il maresciallo li accompagnò nell’alloggio del primo piano. Furono accolti dalla giovane moglie, che insieme al figlio Nicola, anche lui di sei anni, li portò in giro per le stanze, ancheggiando.

    «Perché ridi?» disse don Antonio al piccolo Nicola che smorfieggiava alle spalle di Giacinto.

    «È che gli sembra curioso come è vestito!» lo giustificò la signora.

    «Lo sarebbe di più se andasse in giro con la giubba e lo spadino, come vostro figlio» la corresse don Antonio.

    «Non si scaldi, reverendo!» intervenne il maresciallo.

    «Stiamo parlando di bambini!»

    «Che poi diventano grandi!» concluse il parroco avviandosi verso la scala.

    «Perché non li chiudiamo in gattabuia?» chiese Nicola al padre quando furono usciti.

    «Un giorno o l’altro lo faremo» gli promise il maresciallo.

    Mentre attraversavano la strada, Giacinto chiese allo zio:

    «Ma non devono darci qualche cosa per la benedizione? Il cesto è ancora vuoto!»

    «Si riempirà nelle case dei poveri».

    Don Pasqualino abitava, insieme alla moglie donna Tetta e ai tre figli, in una grande casa padronale, circondata da un esteso giardino recintato da alti muri, di fronte alla caserma dei Carabinieri. Fratello minore di don Raffaele, delle cui proprietà si prendeva cura, era il più ricco possidente del paese, grandi masserie e notevoli estensioni di oliveti, frutteti, vigneti e seminativi. Aveva al suo servizio Nino, cocchiere e giardiniere, e sua moglie Rosa, domestica tuttofare, che abitavano con la figlia di tre anni in un casolare all’ingresso della tenuta, accanto alla stalla per i quattro cavalli, i due calessi e la carrozza a quattro ruote delle grandi occasioni che non si presentavano mai.

    A don Antonio quella famiglia piaceva ancora meno delle altre due appena visitate. Durante la processione la statua del patrono doveva fermarsi di fronte al cancello spalancato della tenuta per la sparata dei fuochi pirotecnici che i signori offrivano al popolo compiaciuto. Non

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