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L'orchestra di Auschwitz: Inchiesta su Alma Rosé
L'orchestra di Auschwitz: Inchiesta su Alma Rosé
L'orchestra di Auschwitz: Inchiesta su Alma Rosé
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L'orchestra di Auschwitz: Inchiesta su Alma Rosé

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Auschwitz, 20 luglio 1943.
Il treno in cui è rinchiusa Alma arriva puntuale, nel tardo pomeriggio. Quella sera l’atmosfera cupa del Block 10 – l’area del lager destinata agli esperimenti medici – sarà spezzata dal suono di un violino.
Un mese più tardi, la giovane musicista è già direttrice dell’orchestra femminile costituita nel campo di Birkenau da Maria Mandel, spietata ausiliaria delle SS. Meno di un anno dopo, il suo corpo senza vita giace nell’infermeria del lager: la diagnosi ufficiale di meningitis, formulata dal dottor Mengele, sembra incompatibile con le circostanze del decesso.

Dario Oliveri torna in libreria con una nuova inchiesta, dedicata questa volta al caso di Alma Rosé (1906-1944), nipote di Gustav Mahler e violinista di successo, la cui morte ad Auschwitz, il 4 aprile 1944, rimane avvolta nel mistero. Passando al vaglio le diverse ipotesi investigative – suicidio, omicidio, avvelenamento accidentale – si ricostruisce la parabola di un destino tragico che affonda le sue radici nella Vienna sfavillante del primo Novecento: è il romanzo di due famiglie, i Mahler e i Rosenblum (in arte Rosé), ma anche l’affresco di un’epoca straordinaria, percorsa da irripetibili fermenti culturali, e del suo precipitarsi rovinoso nelle tenebre della follia.

Dario Oliveri (Palermo, 1963) insegna Storia della Musica Moderna e Contemporanea all’Università di Palermo, è stato per vent’anni il direttore artistico dell’Associazione Siciliana Amici della Musica e cura attualmente la programmazione musicale del Festival delle Letterature Migranti. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Hitler regala una città agli ebrei. Musica e cultura nel ghetto di Theresienstadt (2008); Sentieri interrotti. Musicisti europei nel crepuscolo dell’Occidente (2011); In viaggio con Stravinsky. Una suite in cinque movimenti, prefazione di Marcello Panni (2017); Il passeggero sconosciuto. Viktor Ullmann e “L’Imperatore di Atlantide” (1943-44), prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi (2021); Il caso Webern. Ricostruzione di un delitto, prefazione di Roberto Andò (2021). 
LanguageItaliano
Release dateJan 18, 2023
ISBN9788863954258
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    L'orchestra di Auschwitz - Dario Oliveri

    AUSCHWITZ-BIRKENAU 1943-44

    In grandi casse / un imbroglio di capelli rinsecchiti / delle

    giovinette. / E una treccina grigia, / una coda di topo con il fiocco, /

    di quelli che a scuola si divertono a tirare / i bambini monelli.

    (Tadeusz Różewicz)

    L’anima sua si avvicinava alla regione

    abitata dall’immensa folla dei morti.

    (James Joyce, Gente di Dublino, 1914)

    OŚWIĘCIM (in tedesco Auschwitz): città della Polonia meridionale nella regione dell’Alta Slesia; abitanti: 38.893 (nel 2011); distanza ferroviaria da Parigi: 1.224 chilometri; da Berlino 464 chilometri; da Vienna 291 chilometri; da Budapest 283 chilometri. Il 21 dicembre (solstizio d’inverno) il sole sorge alle 7:39 e tramonta alle 15:43. Nel mese di gennaio le temperature oscillano fra 0 e -6 gradi e nel mese di giugno fra 12 e 22 gradi. Il periodo più piovoso è quello estivo. Nel gennaio del 1940 i nazisti decisero di ristrutturare gli edifici di una vecchia caserma a nord della città, nei pressi della stazione ferroviaria, per trasformarla in un lager poi denominato Auschwitz i. Il 20 giugno fu montata sul cancello d’ingresso la scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi), forgiata dal prigioniero polacco Ian Liwacz (numero 1010). Nel marzo 1942 entrò in attività il campo di Auschwitz II-Birkenau. Nell’ottobre dello stesso anno divenne operativo anche Auschwitz III-Monowitz, in cui fu internato Primo Levi e all’interno del quale si trovava la fabbrica Buna, di proprietà della I.G. Farben. Poiché il numero dei deportati aumentava di continuo, nell’autunno 1943 fu deciso di suddividere i campi in tre unità amministrative indipendenti. Nella sua fase di massima espansione la Zona di interesse del lager occupava una superficie di 4.000 ettari. A 30 chilometri dal campo c’era uno chalet, detto Solahütte, in cui le SS e le ausiliarie femminili potevano rilassarsi dopo tanto duro lavoro. Dal 1940 al 1945 affluirono verso le banchine di Auschwitz e di Birkenau centinaia di treni affollati soprattutto di ebrei provenienti dai più diversi luoghi, lager e ghetti d’Europa. Nell’orario a uso interno delle Ferrovie dello Stato tedesche questi convogli erano indicati con la sigla SZ, ossia Sonderzüge, treni speciali.

    L’ARRIVO

    La penultima fermata era la stazione passeggeri di Oświęcim, non molto lontano dal centro abitato. Ne parla, per esempio, l’ex tenente colonnello e giudice delle SS Konrad Morgen, meravigliandosi della vivacità e apparente normalità del contesto:

    Anche senza volerlo, da un luogo nel quale si compiono azioni mostruose, inenarrabili, inimmaginabili, ci si attende che in qualche modo le tracce debbano essere visibili, che ci sia un’atmosfera particolare. Per questo rimasi a lungo nella stazione, per vedere qualcosa. Auschwitz era una cittadina con un’enorme stazione di transito […]. Era continuamente attraversata da treni, trasporti di truppe dirette a est, trasporti di feriti che ne tornavano, treni che trasportavano carbone, minerali metalliferi, treni merci, treni passeggeri. Osservai la gente che scendeva ad Auschwitz, i giovani allegri, gli anziani di pessimo umore, sfiniti dal lavoro. Vidi anche trasporti di detenuti con le casacche a strisce…⁰¹

    Lo racconta anche Elie Wiesel: «Si arrivò a una stazione. Chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome – Auschwitz. Nessuno l’aveva mai sentito dire»⁰². Il treno restava fermo alcune ore, a volte per tutto un pomeriggio, e le guardie, a un certo punto, aprivano lo sportello di un vagone per mandare qualcuno a prendere un po’ d’acqua. Poi ripartiva a marcia indietro, con esasperante lentezza, fino a raggiungere la banchina dello scalo merci, situata all’esterno del campo, a ottocento metri dall’ingresso.

    Attraverso le parole di Tadeusz Borowski, un triangolo rosso (cioè un detenuto politico) che lavorava nel cosiddetto Kanada (i magazzini in cui si accumulavano gli effetti personali dei deportati) ed era stato assegnato al Kommando di sgombero-pulizia dei vagoni, possiamo farci invece un’idea di quanto accadeva sulla banchina del lager mentre i convogli stavano fermi alla stazione passeggeri di Oświęcim. La sua testimonianza si riferisce alla primavera 1943: è importante tenerlo presente, perché il modo in cui era organizzato l’arrivo dei trasporti cambiava – si evolveva – nel corso del tempo, soprattutto nel periodo in cui venne utilizzata la rampa esterna di Birkenau (Judenrampe) e dopo che nel maggio del ’44 entrò in funzione il nuovo raccordo ferroviario che permetteva l’ingresso dei convogli fin dentro il campo (Bahnrampe). Scrive Borowski:

    Ancora poche decine di metri: fra gli alberi, lo scalo. È uno scalo bucolico, come se ne incontrano spesso nelle sperdute stazioni di provincia. La piazzola, contornata dal verde di altri alberi, è cosparsa di ghiaia. Su un lato, presso la strada, sta accoccolato un brutto casotto di legno, più brutto e dozzinale delle più brutte e dozzinali catapecchie di stazione; più in là giacciono grandi mucchi di rotaie, traversine, cataste di tavole, pezzi di baracche, mattoni, pietre, rivestimenti prefabbricati per pozzi. È da qui che caricano le merci per Birkenau: materiale da costruzione per l’ampliamento del campo e gente per le camere a gas. Un normale giorno lavorativo: arrivano autocarri, prendono assi, cemento, gente… Le sentinelle si dispongono sulle rotaie, sulle travi, sotto la verde ombra dei castagni slesiani, circondano lo scalo in uno stretto cerchio […].

    Intanto lo scalo si andava facendo sempre più rumoroso e affollato. I Vorarbeiter [aiutanti dei kapò] si dividevano in gruppi, assegnando gli uni all’apertura e allo scarico dei vagoni che stavano per arrivare, gli altri alle scalette di legno, e spiegavano loro i compiti da eseguire. Erano scalette portatili, ampie e comode, come quelle d’accesso a una tribuna. Stavano arrivando con fracasso le moto con sidecar recanti i sottoufficiali delle SS ricoperti di mostrine d’argento. Alcuni erano venuti con le cartelle, altri avevano flessuosi bastoni di bambù. Conferivano loro un aspetto professionale ed energico. Entravano nello spaccio – quel misero casotto era il loro spaccio – dove d’estate bevevano acqua minerale marca Sudetenquelle e d’inverno si riscaldavano con vino bollente, si salutavano prima statalmente con il braccio proteso alla romana, poi si stringevano calorosamente le destre, si sorridevano cordiali, parlavano delle lettere, delle notizie da casa, dei bambini, si mostravano le fotografie. Alcuni passeggiavano maestosi per il piazzale, la ghiaia scricchiolava, gli stivali scricchiolavano, i rettangolini d’argento luccicavano sui colletti e le piccole verghe di canna sibilavano impazienti.

    La folla variamente vestita a strisce giaceva contro le cataste di rotaie, nelle strette fasce d’ombra sotto le cataste di rotaie col respiro affannoso e irregolare, chiacchierava nelle diverse lingue, guardava pigra e indifferente gli altezzosi uomini in divisa verde, il verde degli alberi, vicino e irraggiungibile […].

    «Arriva il trasporto», disse qualcuno, e tutti si rizzarono in attesa. Da dietro la curva stavano spuntando i vagoni merci; il treno si muoveva a marcia indietro, il ferroviere che era sulla piattaforma si sporse fuori, fece segni con la mano, fischiò. La locomotiva emise di rimando un fischio lacerante, sbuffò, e il treno scivolò lentamente lungo la stazione. Fra le grate dei piccoli finestrini si vedevano facce pallide, sgualcite, come assonnate, scarmigliate – donne terrorizzate, uomini che, per noi fatto esotico, avevano i capelli. Sfilavano lentamente, fissavano lo scalo in silenzio. Allora dentro i vagoni qualcosa cominciò a rimescolarsi e a tambureggiare alle pareti di legno. «Acqua! Aria!» si levarono sorde, disperate le grida.

    Dai finestrini si sporgevano visi, le bocche aspiravano disperatamente aria. Avendone attinto qualche boccata sparivano dal finestrino e se ne incuneavano altre che poi scomparivano nello stesso modo e i rantoli si facevano sempre più forti.

    Un uomo in divisa verde, più degli altri ricoperto d’argento, storse la bocca disgustato⁰³.

    Quel che succede dopo è stato descritto – ma sotto un diverso punto di vista – da Primo Levi, giunto ad Auschwitz («un nome privo di significato, allora per noi»)⁰⁴ nel febbraio del 1944:

    La portiera fu aperta con fragore, l’aria echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina […]. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere con i bagagli, depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce. Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento penetrarono fra noi, e con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. […] «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.

    Tutto era silenzioso come in un acquario, come in certe scene di sogni. […] Qualcuno osò chiedere timidamente dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno […]⁰⁵.

    È singolare che Primo Levi parli di un silenzio paragonabile a quello di un acquario, visto che altri, per esempio Arnold Mostowicz (ma il suo racconto è ambientato nella rampa interna di Birkenau), parlano invece di «un intenso frastuono, dal quale si distinguevano le urla dei soldati e il furioso abbaiare dei cani. Questo frastuono», aggiunge, «lo si udiva ininterrottamente. Ora cresceva, ora si affievoliva, a ondate successive, a seconda della velocità e della destrezza con cui si formava la colonna»⁰⁶. Intanto, però, le donne e gli uomini più giovani, ritenuti abili al lavoro, s’incamminano divisi in due gruppi verso destra, in direzione del lager. Tutti gli altri sono invece stipati sugli autocarri che si allontanano in direzione opposta. Un attimo dopo, scrive Frediano Sessi, «la banchina è già tornata ad essere il regno delle squadre di lavoro di internati e delle SS»⁰⁷. I vagoni sono svuotati e ripuliti, l’enorme quantità di bagagli («valigioni, valige, valigette, zaini, fagotti di ogni genere»)⁰⁸ è caricata sui camion, gli addetti alla schedatura confrontano i documenti di viaggio e i vari conteggi, il treno è pronto a ripartire.

    OCCHIO FOTOGRAFICO 1: JOSEF MENGELE

    Auschwitz, Judenrampe, 1944 (Elie Wiesel)

    Continuammo a marciare fino a un incrocio. Al centro c’era il dottor Mengele, questo famoso dottor Mengele (tipico ufficiale delle SS, volto crudele, non privo d’intelligenza, monocolo), una bacchetta da direttore d’orchestra in mano, in mezzo ad altri ufficiali. La bacchetta si muoveva senza tregua, una volta a destra, una volta a sinistra.

    Già mi trovavo davanti a lui:

    «La tua età?», domandò con un tono che forse voleva essere paterno.

    «Diciotto anni».

    La mia voce tremava.

    «Sano?».

    «Sì».

    «Il tuo mestiere?».

    Dire che ero studente?

    «Contadino», mi sentii rispondere.

    Quella conversazione non era durata più di qualche secondo. A me era sembrata un’eternità.

    La bacchetta verso sinistra. Io feci mezzo passo in avanti. Volevo prima vedere dove avrebbe mandato mio padre. Fosse andato a destra, io l’avrei raggiunto.

    [La notte, 1958]

    Birkenau, lager degli zingari, 1944 (Otto Rosenberg)

    Prima di entrare in infermeria il dottor Mengele indossava sempre il suo camice bianco.

    […] Non so se quello che si dice sia vero, cioè che Mengele uccideva la gente con una puntura letale. Io personalmente non l’ho visto. È una cosa che si dice, però se è vero, questo non saprei dirlo. In ogni modo era un bell’uomo, piazzato, amichevole, sempre con il sorriso sulle labbra, mai arrabbiato. Aveva sempre un’espressione serena, divertita. Poi hanno cominciato a chiamarlo l’angelo della morte di Auschwitz, perché ogni volta che arrivava si portava via qualcuno. Girava tra i prigionieri, se li studiava per bene, li registrava e poi se li portava via, talvolta perché avevano delle malattie infettive, altre invece così, senza un motivo plausibile. I gemelli lo hanno sempre interessato. Per fortuna io non ero tra loro.

    Mengele veniva da noi nella Sauna, si faceva la doccia e si preparava. Io, nel frattempo, gli lucidavo gli stivali e glieli rimettevo a posto, poi si vestiva e si metteva a chiacchierare con il kapò. Parlargli però non gli ho mai parlato. E perché poi? In fondo ero solo un prigioniero, il mio compito era eseguire gli ordini e basta.

    «Z6084! Tutto a posto!».

    «Va bene, va bene».

    Di più non diceva.

    […] Mengele era praticamente la persona da cui dovevano passare tutti. Allora non lo credevo capace di fare del male a qualcuno. Poi più tardi, dopo il ’45, ho cominciato a sentire parlare di lui.

    [La lente focale, 1998]

    RITRATTO CRIMINALE 1

    Il diavolo provvede agli eletti della sua comunità

    meglio di quanto non faccia il cielo per i suoi.

    (Friedrich Dürrenmatt, Il sospetto, 1953)

    Al contrario di quel che si dice – a torto o a ragione – di Adolf Eichmann, il dottor Mengele non era affatto un uomo banale. All’epoca in cui esercitava il suo potere assoluto su migliaia di deportati aveva poco più di trent’anni. In alcune fotografie dell’Höcker-Album (le uniche relative al periodo di Auschwitz) lo vediamo al fianco dei comandanti di quell’arcipelago, Richard Baer, Rudolf Höss e Josef Kramer, in un incontro informale alla Hütte Soletal (o Solahütte), un grande chalet situato a circa trenta chilometri a sud del lager, in un magnifico paesaggio di colline ricoperte da boschi e nei pressi del fiume Sola e del lago di Międzybrodzkie. L’atmosfera è amichevole, ma lui sembra incerto, indeciso se sorridere o no, forse intimidito – nonostante le prestigiose medaglie – dalla presenza dei suoi superiori. In un’altra immagine lo vediamo accanto a un ponte di legno, mentre ascolta un coro di SS accompagnato da una fisarmonica. L’aspetto è quello di un uomo gradevole, compiaciuto di sé stesso, con una fessura fra gli incisivi, gli occhi scuri e i capelli neri lisci pettinati all’indietro, l’attaccatura alta. Non risulta che portasse il monocolo. È vero invece che amava sovrintendere al servizio sulla rampa, alla ricerca o in attesa di soggetti da utilizzare nelle sue ricerche.

    Hütte Soletal (Auschwitz), 15 luglio 1944; da sinistra a destra: Richard Baer, Josef Mengele, Josef Kramer, Rudolf Höss e Anton Thumann. Si tratta delle uniche immagini di Mengele nel periodo trascorso nel lager e in cui si ritrovano insieme i comandanti di Auschwitz I e di Birkenau

    Hütte Soletal (Auschwitz), 15 luglio 1944;

    da sinistra a destra: Josef Mengele, Josef Kramer, Rudolf Höss e Anton Thumann

    Nato a Günzburg (Baviera) il 16 marzo 1911, Josef Mengele proveniva da un’agiata famiglia cattolica. Il padre, Karl, era titolare di un’industria di macchine agricole e non risulta che fosse nazista. Negli anni Venti, il giovane Josef, che in casa chiamavano Beppo, entrò a far parte dello Jungstahlhelm, gli Elmetti d’Acciaio, un’organizzazione ultranazionalista poi confluita nelle SA. Nel ’35 si laurea in antropologia all’Università di Monaco, con una tesi dal titolo Ricerca morfologica sul settore anteriore della mandibola in quattro gruppi di razze. Nel ’37 chiede e ottiene l’iscrizione al partito nazionalsocialista (tessera n. 5574974) e l’anno successivo entra a far parte delle SS. Nel 1939 si laurea in medicina a Francoforte sul Meno (Istituto di Biologia dell’ereditarietà e igiene razziale), con una tesi sull’apparato labbra-palato-mandibola, in cui anticipa alcune delle ricerche poi condotte ad Auschwitz, e collabora con il professor Otmar Freiherr von Verschuer, che lo considera un allievo assai promettente. La guerra mette fine alla sua carriera accademica e nel giugno 1940 è richiamato nella Wehrmacht. Poco dopo chiede il trasferimento nelle SS e nel gennaio 1942 è assegnato come medico militare alla divisione corazzata Wiking, attiva sul fronte francese e poi su quello russo, dove ottiene fra l’altro la Croce di ferro di prima classe. Esentato dalle attività sul fronte a causa di una ferita, torna per un certo periodo a Francoforte e riesce a farsi trasferire come ufficiale medico (Lagerarzt) al campo di Auschwitz, dove giunge il 30 maggio 1943 in sostituzione di un collega malato. Il suo immenso laboratorio di ricerca era Birkenau e i suoi studi si concentravano soprattutto sui gemelli e le persone con particolari anomalie congenite (nanismo, gigantismo, eterocromia), che sottoponeva a varie misurazioni (della larghezza e lunghezza della testa, del naso, dei piedi, ecc.), analisi del sangue, esami radiologici e visite mediche. Alla fine le sue vittime erano quasi sempre eliminate e ciò gli consentiva di passare alla fase successiva, ossia all’analisi dei singoli organi mediante la sezione dei cadaveri. Il 1° settembre 1944 partecipò a un convegno di medici delle SS organizzato ad Auschwitz per l’inaugurazione del nuovo ospedale militare (Feldlazarett). Il titolo del suo intervento era Esempi dal lavoro antropologico e sull’ereditarietà biologica nel KL di Auschwitz.

    Il dottor Mengele rimase nel lager fino al giorno della sua evacuazione, il 17 gennaio 1945, e quando fuggì portò con sé i risultati delle sue ricerche. Tra l’altro, a differenza delle altre SS, era riuscito a non farsi tatuare il gruppo sanguigno e tale circostanza gli permise, dopo la fine della guerra, di passare inosservato fra le migliaia di reduci e prigionieri di guerra tedeschi. Arrestato, con il nome di Fritz Hollmann, dall’esercito americano, fu rimesso quasi subito in libertà e trascorse alcuni anni lavorando in una fattoria nei pressi di Rosenheim (Baviera). L’11 aprile 1948 gli fu rilasciata dal Comune di Termeno una carta d’identità su cui era riportato:

    Cognome: Gregor / Nome: Helmut / Data di nascita: 6 agosto 1911 / Luogo di nascita: Termeno (Alto Adige) / Padre: N.N. / Madre: fu Berta Gregor / Nazionalità di origine: italiana / Attuale: germanica p. opzione / Professione: tecnico-meccanico / Religione: cattolica / Stato di famiglia: celibe.

    Con tale documento Mengele si trasferisce a Genova, dove chiede e ottiene un titolo di viaggio del Comitato Internazionale della Croce Rossa con il quale s’imbarca sulla motonave North King, diretta in Argentina. Poco dopo l’arrivo a Buenos Aires, il 20 giugno 1949, entra in possesso di nuova carta d’identità (cedula), su cui è tuttavia riportato il suo vero nome. Nel 1956, servendosi dell’identità di Helmut Gregor, fa un viaggio in Germania e in Svizzera e, dopo il ritorno in Argentina, acquista (con il suo vero nome) una quota azionaria del laboratorio farmaceutico Fadro Farm. Dopo il rapimento di Adolf Eichmann e il processo di Gerusalemme (11 aprile - 15 dicembre 1961) si accorge tuttavia di essere il criminale nazista più ricercato del mondo e decide di trasferirsi in Paraguay e poi in Brasile, dove assume l’identità di Wolfgang Gerhard: «Cittadinanza: austriaca / Luogo data di nascita: Leibnitz (Austria) 3 settembre 1929». Si fa crescere i baffi e negli ultimi anni della sua vita vive in maniera molto ritirata e discreta nei pressi di San Paolo. Muore d’infarto a Bertioga il 7 febbraio 1979, mentre sta nuotando nell’Atlantico, a pochi metri dalla

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