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Nemesi
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Nemesi

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About this ebook

Erik inizia ad avere strani sintomi: vede immagini dove tenebra e luce sembrano combattere tra loro, sente delle voci che lo chiamano, rumori di esplosioni, di grida, di morte. Si troverà a dover lottare contro misteriosi personaggi che si fanno chiamare Guardiani, e a dover sventare una minaccia nucleare.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateJan 30, 2023
ISBN9791254582640
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    Nemesi - Paolo Bertelli

    ©Copyright Monna Lisa Edizioni 

    Prima edizione gennaio 2023 

    Editing e Grafica Cover Monna Lisa Edizioni

    Impaginazione: Paoletta Maizza

    NEMESI

    Paolo Bertelli

    PROLOGO

    È assurdo… Come siamo arrivati a questo?

    Ci stiamo autodistruggendo.

    Mi viene in mente quel motivo di tanto tempo fa: Time is ticking out.

    Di continuo, insistente, il tempo sta finendo.

    La storia si ripete: ciclica, brutale, senza memoria.

    Nel 1914, si lottava nelle trincee; nel 1939, con carri armati e aerei.

    La chiamavano guerra di movimento e adesso questa, iniziata come finì l’altra.

    La radioattività sta aumentando, per quanto le maschere riusciranno a salvare i miei compagni. La gente.

    Ho paura, ma non per me. È un timore che ormai mi accompagna da così tanto tempo… il vedere morire gli altri.

    Le comunicazioni sono sempre più disturbate.

    Cosa starà succedendo in Europa e nel resto del mondo?

    Quanto ancora sarà rimasto di ciò che conoscevo?

    Nella memoria, appaiono nitide le foto di questo posto negli anni. Com’è cambiato… La tecnologia che ci doveva aiutare, la nostra millantata intelligenza che ha dato voce e coscienza a droni, che ha trasformato sogni e pensieri in acciaio in movimento, alberi e foreste diventati oggetti di design. Adesso, davanti a me: macerie.

    Questa fotografia per quanto tempo rimarrà impressa nella mia memoria?

    La notte è sconquassata da esplosioni assordanti e sibili paurosi coprono le grida delle persone, dei soldati. Che guerra strana… com’è diversa dalle altre che ho combattuto… non so nemmeno come siano fatti i volti dei miei nemici!

    Vedo solo schianti al suolo lontani e lampi accecanti.

    Mi sento impotente: sto aspettando… o forse sono impazzito?

    Mi sono solo immaginato tutto, avvolto nell’orrore di queste notti per darmi un filo di speranza. Ho costruito la mia memoria, sognato persone ed edificato un muro immaginario su cui aggrapparmi. Basta solo che uno di questi lampi si schianti vicino, poi sempre più vicino e… finirà tutto, allora? È così?

    Sono come il ratto che ho davanti: occhi dilatati, impauriti dai rumori, in cerca di nascondiglio, inconsapevole del futuro. Solo istinto di sopravvivenza.

    Eppure, non è così.

    La storia si ripete sempre, come nel 1914, e ugualmente nel 1939…

    Mi guarda con occhi vitrei, due punte di spillo. Ormai, anche lui non c’è più.

    Piccolo compagno senza scampo.

    Sono rimasto solo. Lo spettro di New York attorno a me, fumo che si alza da Central Park, fiamme divoranti e affamate.

    Mi guardo attorno, cercando un qualsiasi segno di vita: vi è una strana calma, un silenzio più assordante di tutte le bombe e le esplosioni a cui ho assistito in questi giorni. Zombie… e ancora, palazzi sventrati ridotti a scheletri grigi di cemento, non vedevo più le figure imperiose dell’Empire State e del Chrysler Building.

    Solo fumo, macerie, silenzio.

    È così che deve finire?

    Lo urlo al cielo, alla polvere, al nulla.

    È veramente così? Non capisco… nessuna comunicazione, nessuna notizia.

    Il vortice dei miei pensieri è ormai senza logica.

    Cosa c’è di diverso, questa volta?

    Di uguale solo la pazzia dell’uomo.

    Ancora esplosioni… Ma cosa c’è ancora da distruggere?

    Deflagrazioni, sibili, sempre più vicini. Un lampo accecante.  Volo nel vuoto… finalmente!

    Mi chiamo Erik Low.

    La mia vita cambiò nel 1914. Ero un uomo di quarant’anni, alla continua ricerca di qualcosa che potesse fare la differenza. Quando alla fine arrivò, lo fece così velocemente che non potei far altro che farmi trascinare da quel che successe.

    Rischiai d’impazzire, di diventare come quelle anime perse che fissano il vuoto, mormorando frasi sconnesse. È questo quello che succede, quando la logica in cui hai sempre creduto, come fosse un mantra, viene meno, fagocitata da una realtà di cui non conosci l’esistenza.

    È vero. Noi umani siamo egoisti. Crediamo di essere al centro dell’universo.

    Ci inventiamo Dei e Santi al nostro servizio, per convenienza e necessità.

    Preghiamo e imprechiamo, pensando di avere un canale telepatico privilegiato con qualcuno o qualcosa più grande di noi che ci ascolta.

    Nella nostra ipocrisia, ci sentiamo meglio quando crediamo di aver espiato tutti i nostri peccati, aiutando chi è meno fortunato di noi, liberandoci dal peso di una coscienza ormai muta e indifferente.

    Spesso, ci crediamo intelligenti, al di sopra di tutti gli esseri viventi di questa Terra.

    Perché siamo consapevoli, abbiamo fantasia e creatività.

    Ma qualcuno di voi si è mai chiesto da dove provenga il nostro talento?

    Non sono l’unico, ormai è chiaro.

    Ma fatevi una domanda: tutti quei romanzi fantasy così reali, scritti in passato, le menti geniali che hanno creato invenzioni futuristiche, forse non sono racconti di ciò che è stato vissuto?

    Mi chiamo Erik Low, sono nato a Londra, nel 1874…

    CAP 1 − GENESI

    1.1 − giugno 1914

    Nei primi del ’900, Londra veniva considerata una delle metropoli più importanti e all’avanguardia del periodo. La popolazione continuava a crescere, la gente veniva in cerca di nuove opportunità, nel centro del fervore scientifico e tecnologico, dove tutto appariva possibile e le porte si aprivano a ogni accenno d’idea.

    Città oculata e visionaria, incrementò i trasporti pubblici, costruendo una fitta rete di tram dal London County Council, contemporaneamente alle prime linee di bus.

    Venne poi ampliata e rimodernata la rete di metropolitana, sia sotterranea che di superficie.

    In quel periodo, facevo parte di un gruppo scientifico, che lavorava sulle nuove tecnologie nucleari. Un progetto segreto, sovvenzionato totalmente dallo Stato, in risposta alle prime scoperte di Einstein, che fu il primo a intuire la possibilità di ricavare energia dall’atomo. Il fatto che uno scienziato tedesco fosse pioniere di una possibile nuova forma d’energia dai risvolti imprevedibili mise in allarme i servizi segreti inglesi. A capo del progetto, c’era Amanda, donna di straordinaria intelligenza, mia coetanea e compagna di studi all’università.

    Einstein fu il padre del nucleare. Ma nessuno sapeva che, grazie ad Amanda, fu il nostro gruppo scientifico il primo che intuì che questo tipo d’energia poteva essere sfruttata sia per scopi civili che bellici.

    Dai piani alti, complice anche l’atmosfera di tensione che stava vivendo l’Europa in quel momento, venivamo di continuo pressati a continuare le ricerche e a sviluppare i principi del nucleare sulle armi. Ma Amanda non ne voleva sapere.

    Da politica consumata, appariva accondiscendente alle richieste che le facevano con insistenza; ma, in realtà, tutti i nostri sforzi erano concentrati sui possibili sviluppi civili. Alcune volte, ero presente anche io a quelle riunioni che si tenevano nel suo ufficio, anche se cercavo sempre di evitarle. Non era semplice sforzarsi di non ridere nel sentire il tono così entusiasta, che assumeva in risposta alle loro richieste, sempre possibilista e collaborativo, sapendo che, poi, avrebbe fatto come le pareva.

    Più di una volta, cercai di parlarle per convincerla a ripensare al suo atteggiamento nei confronti di quei personaggi.

    Amanda, io non ti capisco… Anche a me non stanno simpatici, ma non penso che il tuo teatrino reggerà ancora per molto…

    Non perdere tempo a pensare cose che non ti riguardano, Erik. Mi sembra che ci sia abbastanza materiale da tenere il tuo cervellino occupato per i prossimi vent’anni… se ancora ti funzionerà!

    La dote migliore di Amanda: quella pungente e sottile ironia, che mi lasciava senza risposta per circa dieci secondi. In quel lasso di tempo, usciva puntuale di scena, senza darmi il tempo di ribattere.

    Con un po’ di allenamento, ero riuscito a dimezzare lo scatto alla risposta e lei, ovviamente, era riuscita a dimezzare il tempo d’uscita. Alcune volte, pensavo che, prima di farmi una battuta delle sue, scegliesse con cura le vie di fuga e si mettesse nei pressi per sparire nel più breve tempo possibile. Anche stavolta, ero riuscito a proferire solo un inutile ma

    Ancora non sappiamo come controllare la reazione e renderla utilizzabile e tu ti preoccupi di quei burocrati guerrafondai, che sperano in un utilizzo bellico sul cui comunque brancoliamo nel buio!

    Beh, è normale che brancoliamo nel buio, noi non…

    Tu non capisci, Erik…

    Ma…

    E smettila di utilizzare sempre il solito monosillabo, che diventi monotono!

    Poi, parlando più a se stessa che a me, continuò borbottando:

    Dobbiamo anche pensare a come risolvere il problema della radioattività… Dov’è Alice?

    Sentii sbattere la porta e sorrisi seguendo con lo sguardo le sottili crepe irregolari che, come tante piccole ragnatele, si erano formate in alcuni punti della parete.

    In realtà, non ci siamo mai preoccupati nemmeno di prenderlo in considerazione l’utilizzo bellico, Amanda! le urlai, mentre stava scendendo le scale.

    E continueremo a non preoccuparcene!

    Il fatto di esserci frequentati molti anni fa aveva lasciato un po’ di ruggine tra noi. D’altronde, tutta la colpa era come sempre ricaduta su di me, visto che mi arruolai nell’esercito allontanandomi da lei.

    La recente separazione, associato al fatto che io fossi tornato da poco a vivere da solo, non faceva altro che attirare tra noi come calamità battute ed ironie.

    In fondo, ero sicuro che ci volevamo ancora bene.

    Da parte mia, non avevo mai smesso di pensare a lei, ed ero sicuro che questo aveva influito nelle mie relazioni successive. Ma ero anche consapevole che il nostro attuale impegno ci impediva altre distrazioni.

    Eravamo in sintonia sull’obiettivo che volevamo raggiungere.

    Ogni volta, era una piacevole sfida provare a ribattere alle sue argomentazioni, sapendo che comunque l’ultima parola l’avrebbe avuta lei. A ben pensarci, anche divertente.

    1.2

    Il laboratorio era situato nei sotterranei di un anonimo edificio che si affacciava sul Tamigi. Nessuno avrebbe sospettato che lì ci fosse uno dei progetti più importanti messo in piedi dal Governo inglese, un progetto che, oltre a noi, coinvolgeva migliaia di persone. Il palazzo, ormai disabitato, era stato comprato e ristrutturato, utilizzando false compagnie di copertura.

    La porta d’entrata era stata ricostruita in maniera economica, per passare inosservata tra le decine di portoni degli edifici attigui, e si apriva su un pianerottolo piastrellato in marmo grigio. Le scale, anch’esse in marmo, per dare una certa continuità architettonica (almeno secondo chi le aveva progettate), portavano sia ai piani superiori, sia agli scantinati sotterranei, dov’era situato il laboratorio.

    I cinque piani di sopra erano stati adibiti quasi tutti a uffici, anche se, per confondere le acque, alcuni dei tecnici del progetto ci abitavano con le loro famiglie.

    Tutto doveva apparire nella normalità più assoluta.

    Al Centro di Ricerca, si accedeva scendendo qualche rampa di scale ed era privo di qualsiasi altro passaggio verso l’esterno. Chi vi entrava avrebbe trovato dei normalissimi uffici, illuminati in malo modo da asettiche lampade sfrigolanti.

    Ma era questa la prima postazione di lavoro, dove io e altri due giovani e più stretti collaboratori, Mick e Alice, ci riunivamo assieme ad Amanda.

    Una porta in legno e a vetro opaco separava questa stanza dal suo ufficio personale.

    Al cuore del laboratorio, dove ogni giorno lavoravano decine di brillanti tecnici, si accedeva passando dal bagno, dove un finto specchio codificato spalancava le porte a scale in cemento grezzo, che scendevano ancora verso il basso per parecchi metri.

    Si aveva così l’accesso a un ambiente ermetico e isolato, adibito alle sperimentazioni più pericolose che avrebbero riguardato l’innesco della reazione di fissione nucleare.

    Sapevamo come fare la fissione, ma non sapevamo come controllarla.

    Io mi stavo occupando, quasi a tempo pieno, di questa parte del progetto, mentre Mick coordinava un gruppo di persone che lavoravano sulla problematica dell’arricchimento dell’uranio.

    In natura, l’uranio si trova sotto forma di due isotopi, ma l’Uranio235, l’unico fissile, è in concentrazione di solo lo 0,7%; il restante, invece, è sotto forma di Uranio238, non fissile. Il processo di arricchimento consiste nell’aumentare la percentuale di Uranio235 fino ad un 3-5% del totale, che eravamo abbastanza sicuri fosse sufficiente per far funzionare un ipotetico reattore nucleare.

    Insieme a Mick, ci stavamo anche occupando di costruire in piccolo un reattore pilota, avente un nucleo di uranio arricchito, che chiamavamo Pila.

    Il nome era frutto dell’innata ironia di Mick, perché pensavamo che l’energia elettrica che si sarebbe sviluppata dalla reazione non sarebbe stata poi molta: appunto, più o meno quella di una pila.

    Le dimensioni, però, sarebbero state molto più grandi. Avevo calcolato alcuni metri di base e di altezza, quindi avevo preteso che la stanza sotterranea fosse alta almeno sette metri, oltre che di lunghezza e larghezza adeguate.

    Inoltre, avevo indicato che le pareti di calcestruzzo fossero di due metri di spessore per schermarci contro le eventuali radiazioni.

    La tematica delle radiazioni e il problema dello smaltimento delle scorie radioattive, che si sarebbero formate durante la reazione e che dovevamo ancora capire come gestire, invece, era di pertinenza di Alice e del suo staff.

    Alice era laureata in biologia e aveva scritto un’interessante tesi sul decadimento radioattivo di alcuni atomi. Il suo strabiliante lavoro aveva strappato l’applauso accademico della commissione.

    Non avevamo ancora un’idea precisa di cosa potesse provocare sull’essere umano un’esposizione più o meno prolungata.

    Le nostre discussioni a quattro, erano molto utili per schiarirci le idee su tutte le tematiche che avevamo di fronte. Un classico era l’incipit che ci dava Mick, che partiva sempre alla solita maniera: Ammettendo che il nostro amato governo riesca a rifornirci di barre di uranio arricchito…

    Già vedevo gli sguardi tra il divertito e il preoccupato di Amanda e Alice.

    Mick ci portava sempre a riflettere in modo intelligente su come risolvere i problemi; ma, quando iniziava a parlare in questo modo, non sapevi mai né dove ti avrebbe condotto, né quando avrebbe smesso.

    "… e, ammettendo che quel mostro che vuoi costruire funzioni…"

    Pila lo corressi.

    "Se quella è una pila, io sono Cartesio. Ma, ammettendo che la tua… pila funzioni… Ok…" sibilai paziente, aspettando la conclusione.

    … e, ammettendo che si liberi una sorta d’energia dalla fissione dei nuclei, come pensi di poterla trasformare in energia elettrica?

    Il dubbio su come raffreddare una reazione (che si sarebbe spinta a temperature di milioni di gradi per ottenere l’energia elettrica) era uno dei tanti interrogativi che ci attanagliavano. Ma sapevamo di essere sulla giusta strada: ottenere energia elettrica senza l’utilizzo di carbone o petrolio.

    Questo era lo scopo finale di Amanda. Anzi, direi l’unico. Sognava una forma d’energia alternativa, che potesse essere illimitata e usufruibile per tutti.

    Ma non si rendeva conto di quanto il suo sogno potesse diventare pericoloso.

    1.3

    Non vedeva falle nel suo piano. Suo fratello era isolato. Aveva lasciato molte vittime per strada, ma… c’era sempre un prezzo da pagare per raggiungere i propri scopi.

    E il suo andava ben oltre qualche vita!

    Chi non capiva la grandezza del suo disegno e chi non vedeva al di là della propria immaginazione non meritava di vivere.

    Loro erano una razza superiore. Come tale, doveva comandare e dominare, non insegnare. Tutte quelle persone che camminavano vicino a lui non meritavano nessuna considerazione da parte sua. Li osservava con disprezzo: erano semplicemente piccoli insetti da calpestare.

    Suo fratello aveva cercato di insegnargli il rispetto verso quella gente, ma aveva ottenuto l’effetto contrario. Con il passare del tempo, il suo odio nei loro confronti era cresciuto. Li odiava per quello che erano, per i loro istinti primordiali, per quell’effimero desiderio di prevalere l’uno sull’altro… che si sarebbe consumato veloce come la fiammella di un cerino. Era stato anche sin troppo diplomatico, finora.

    Debole. Era stato senz’altro debole.

    Aveva avuto paura di agire, ma si era mosso con astuzia. Questo se lo concedeva.

    Ogni volta che ci pensava, una smorfia di soddisfazione compariva sul suo volto.

    Adesso il tempo era scaduto.

    Avrebbe mosso l’ultima pedina della sua personale scacchiera, che avrebbe creato le premesse di dare Scacco matto. Già, il gioco degli scacchi… una delle poche cose che concedeva a quella razza inferiore. Strategia, astuzia, conoscenza dell’avversario e del gioco. Pazienza. Una virtù che aveva avuto, per molti… forse troppi anni.

    La pazienza si trasforma in stupidità e debolezza, se poi non si dà seguito a ciò che ci siamo prefissi, pensò. E questo non lo avrebbe permesso.

    Sapeva cosa doveva fare. Aveva creato così tante piccole tensioni tra le Nazioni europee, che sarebbe bastata una piccola scintilla per far esplodere il caos.

    Era stato un colpo d’astuzia mettere un suo fedelissimo al comando della Germania.

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