Una goccia nel mare
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Info su questo ebook
Michela Signorini è nata a Parigi nel 1954, dove ha vissuto parte della sua infanzia. Rientrata a Roma, si è laureata in giurisprudenza. Dopo un breve periodo all’Alitalia, ha iniziato la sua carriera presso il Ministero dell’Interno, come funzionario prefettizio fino al 2019, rivestendo incarichi diversificati in Polizia e nel settore dell’Immigrazione.
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Anteprima del libro
Una goccia nel mare - Michela Signorini
Michela Signorini
UNA GOCCIA NEL MARE
© 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-2821-6
I edizione ottobre 2022
Finito di stampare nel mese di settembre 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Foto copertina: Palmarola 2020- di Michela Signorini.
UNA GOCCIA NEL MARE
Ai miei genitori
mio padre, un mito
mia madre, una guida
Viaggiate…
Viaggiate
che sennò poi
diventate razzisti
e finite per credere
che la vostra pelle è l’unica
ad avere ragione,
che la vostra lingua
è la più romantica
e che siete stati i primi
ad essere i primi
Viaggiate
che se non viaggiate poi
non vi si fortificano i pensieri
non vi riempite di idee
vi nascono sogni con le gambe fragili
e poi finite per credere alle televisioni
e a quelli che inventano nemici
che calzano a pennello con i vostri incubi
per farvi vivere di terrore
senza più saluti
né grazie
né prego
né si figuri
Viaggiate
che viaggiare insegna
a dare il buongiorno a tutti
a prescindere
da quale sole proveniamo,
che viaggiare insegna
a dare la buonanotte a tutti
a prescindere
dalle tenebre che ci portiamo dentro
Viaggiate
che viaggiare insegna a resistere
a non dipendere
ad accettare gli altri non solo per quello che sono
ma anche per quello che non potranno mai essere,
a conoscere di cosa siamo capaci
a sentirsi parte di una famiglia
oltre frontiere, oltre confini,
oltre tradizioni e cultura,
viaggiare insegna a essere oltre
Viaggiate
che sennò poi finite per credere
che siete fatti solo per un panorama
e invece dentro voi
esistono paesaggi meravigliosi
ancora da visitare.
Testo di Giò Evan (Giovanni Giancaspro, Molfetta 1988 ), poeta, scrittore, umorista, cantautore, artista di strada .
PREMESSA
una goccia nel mare...
Non ha la pretesa di essere la storia della mia vita nè di un trattato sul diritto d’asilo. Già fatto da altri, e bene.
Sono memorie ritrovate che senza soluzione di continuità hanno iniziato ad affollare la mia mente una dopo l’altra, sovrapponendosi, a volte, come foto sbiadite di cui non ricordi la data, ma che evocano un momento o un’ emozione ancora nitida.
Non c’è mai abbastanza tempo per fermarsi.
Una opportunità, forse una consapevolezza tardiva nell’ambito della quale ho voluto mettere ordine partendo dalle mie radici .
Prima di tutto per me stessa.
Con tutti i limiti inevitabili quando ci si confronta con tematiche così vaste, orizzonti lontani e sconosciuti, vite spezzate da ricostruire... veramente troppo per chi ha una vita ‘normale’.
Sopra tutto questo, il mare.
La goccia - evidentemente - è Madre Teresa quando parla di oceano. Il mare, il nostro mare, è invece il Mediterraneo, è Lampedusa, è la tartaruga di Alda Merini che accoglie, traghetta, protegge e mette in salvo, a volte.
Spesso inghiotte, travolge, cancella.
‘Sul mare si fugge, o si rincorre qualcosa’, scriveva Joseph Conrad, perchè il mare è profondo, freddo, buio, si agita e non ti avverte...
e ‘loro’, quasi tutti, non sanno nuotare.
Michela
capitolo 1
parisina
Le mie radici
Mi dovevo chiamare Federico. Dopo due figlie femmine, la famiglia confidava in un maschietto.
Paola era un’adolescente di quattordici anni e la piccola Gaia aveva vissuto solo otto ore di vita. Contro ogni aspettativa, sono arrivata io: Michela, Parisina.
È stato mio padre a scegliere entrambi i nomi, il secondo racconta la mia appartenenza con un evidente ius soli: sono nata a Parigi.
Le mie radici partono dal lontano continente africano e sono segnate dalla guerra e dal dolore di una separazione familiare lunga e difficile.
Nel 1936 a seguito della conquista dell’Etiopia, nota come Abissinia, i territori coloniali italiani nel Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia ed Oltre Giuba) furono unificati nell’Africa Orientale Italiana (a.o.i.).
Il Ministero dell’Africa Italiana governava questa nuova regione del mitologico
Impero Fascista, la cui costituzione era costata sessant’anni di guerra e migliaia di vite umane.
Mio padre Giorgio nel 1939 era un giovane funzionario del Ministero, inviato in missione ad Addis Abeba in un contesto territoriale molto complesso, che sarebbe poi degenerato fino alle estreme conseguenze.
Durante una breve licenza a Roma, nel 1940 aveva sposato mia madre Anna Maria e finalmente insieme, dopo un lungo periodo di separazione, progettavano la loro vita futura in una nuova terra colma di speranze.
Mentre erano in viaggio sulla nave diretta ad Addis Abeba, li raggiunse la notizia dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
Probabilmente i contemporanei di questi eventi clamorosi non ne percepirono subito la portata distruttiva ed innovativa, da cui emersero una nuova società ed una cartina geografica del mondo rivoluzionata.
Nel marzo del 1940 l’Etiopia fu conquistata dagli inglesi, mentre nell’ottobre dello stesso anno nasceva mia sorella Paola, primogenita ignara e sorridente di una coppia che, nel giro di un anno, vide stravolgere la sua esistenza.
Infatti, dopo una fase iniziale di calma apparente nel 1941 mio padre venne fatto prigioniero dagli inglesi e inviato in un campo di prigionia in Kenya, dove rimase cinque interminabili anni.
L’esordio del nostro nucleo familiare si è costituito sui pochi mesi di vita comune per i miei genitori, prima di un distacco improvviso e violento, dalla durata ignota.
Mia madre e mia sorella furono rimpatriate nell’ambito della prima grande missione umanitaria speciale¹ che mise in salvo circa trentamila persone fra donne, bambini ed anziani, mettendo fine definitivamente al periodo coloniale.
Le Navi bianche
, così dipinte per essere riconoscibili a distanza e segnate anche da grandi croci rosse sui lati, partirono per la prima volta dal porto di Massaua nell’aprile del 1942, la seconda nel settembre del 1942 e l’ultima nel gennaio del 1943.
La mia famiglia partì con il primo blocco.
Il Governo Italiano aveva messo a disposizione quattro vecchi transatlantici riconvertiti in navi ospedale, un viaggio lungo e pericoloso.
Cinquanta giorni di mare per coprire oltre diecimila miglia, in quanto gli accordi internazionali imponevano per motivi di sicurezza che le navi circumnavigassero l’Africa, passando dal Capo di Buona Speranza e poi fino a Gibilterra.
Su ogni imbarcazione si trovavano i rifugiati nazionali
, così vennero chiamati, circa duemilacinquecento persone.
A bordo il cibo scarseggiava e mia madre spesso barattava la sua razione quotidiana con un poco di latte in polvere per mia sorella, ancora molto piccola e sempre affamata.
Eppure, nei suoi ricordi ormai così lontani, lei mi parlava dell’Africa che aveva vissuto come di un tempo magico.
Il Mal d’Africa non è un mito, ma una condizione dell’essere.
I momenti belli vissuti in quella fase della sua vita si mescolavano ai colori ed ai profumi della natura incontaminata di quel Paese.
Raccontava delle donne etiopi con le quali era entrata in contatto, belle e determinate, la cui generosità era stata incredibile nell’aiutarla durante il periodo della gravidanza, nonostante le barriere linguistiche e culturali.
Non a caso, parecchi anni dopo gli eventi che raccontano l’esordio della nostra famiglia, io e mia madre abbiamo trascorso il primo Natale da sole in Libia e Tunisia.
Ho ancora negli occhi i colori del tramonto di Leptis Magna, il lungomare di Tripoli, che proprio nel mese di dicembre festeggiava la liberazione dagli invasori italiani
.
Strano essere considerati da quella parte della barricata!
L’amore dei miei genitori è un caleidoscopio di eventi in uno stralcio di calendario.
Poco meno di un anno per intrecciare: matrimonio, Africa, guerra, prima figlia, separazione, disperazione, rientro in Patria, solitudine, attesa, speranza.
Mio padre tornò a casa dalle sue donne dopo cinque anni di buio totale: per mia sorella era un perfetto estraneo e con mia madre doveva ricominciare da dove si erano lasciati, ricucendo dolore ed assenza.
Un ricongiungimento familiare a lieto fine, fortunatamente.
La sua prigionia rimane tuttavia uno stigma difficile da superare.
Ed è troppo tardi per poter porre delle domande e sperare in una risposta.
Prigioniero in Kenya.
Come è riuscito a sopravvivere mio padre, prigioniero di guerra, sospeso in un’eternità senza diritti?
Se sei detenuto per motivi politici o per una guerra, la tua dead line dipende da eventi esterni, non prevedibili: un conflitto armato può durare settimane, mesi, anni.
L’attesa di mio padre è durata cinque lunghi anni.
A volte capita che le risposte arrivino all’improvviso, per una combinazione di eventi imprevedibili.