Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il Modena di un...bastardo gialloblù
Il Modena di un...bastardo gialloblù
Il Modena di un...bastardo gialloblù
Ebook423 pages5 hours

Il Modena di un...bastardo gialloblù

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Gli ultimi cinquant'anni del Modena Calcio vissuti attraverso le emozioni di un tifoso.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 20, 2023
ISBN9791221459111
Il Modena di un...bastardo gialloblù

Related to Il Modena di un...bastardo gialloblù

Related ebooks

Soccer For You

View More

Related articles

Reviews for Il Modena di un...bastardo gialloblù

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il Modena di un...bastardo gialloblù - Roberto Parmeggiani

    Roberto Parmeggiani

    Il Modena di un… bastardo gialloblù

    Gioie e disgrazie dei canarini

    raccontate da un patito

      nato nella culla del tifo rossoblù

    Youcanprint

    Titolo | Il Modena di un...bastardo gialloblù

    Autore | Roberto Parmeggiani

    ISBN | 9791221459111

    © 2019 - Tutti i diritti riservati all'Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100  Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    A mio padre

    Immagine di copertina di mia proprietà

    Prefazione

    Non è più tempo di eroi

    Per favore, ridateci il calcio, quello vero, genuino. E’ un’utopia? Purtroppo sì, però sarebbe davvero bello poter rivivere l’epoca d’oro della Pro Vercelli, del Casale, della Pro Patria, quando ogni squadra era autentica espressione delle realtà locali. Non vi pacerebbe che nel Modena giocassero solo dei modenesi? Non vi farebbe amare di più la nostra squadra? Beh, mi pare innegabile. Tuttavia, dal calcio dei vercellesi è passato ormai un secolo e i giocatori che affrontavano le trasferte in bicicletta o con altri mezzi di fortuna sono ormai soltanto uno sbiadito ricordo. Del resto, quel calcio pioneristico intriso di innegabile romanticismo, oggi, non sarebbe forse più immaginabile. Ai primi del Novecento, i campionati avevano una dimensione regionale, anche perché le vie di comunicazione erano scarse, senza dimenticare che la ricchezza nazionale era assai limitata. Con la fine delle guerre e il graduale miglioramento delle condizioni economiche della popolazione, si poté cominciare a pensare all’osmosi di forze tra nord e sud e, soprattutto, iniziarono a farsi strada le esigenze tipiche di un mondo benestante. Diversi maggiorenti, alcuni spinti dalla passione, altri pronti a cogliere al volo le opportunità offerte da questo nuovo giocattolo, iniziarono a trasformarlo in una macchina per far soldi, avendo compreso che la partecipazione e la passione della popolazione anche nei periodi della miseria più cupa poteva rendere il calcio il secondo oppio del popolo, dopo la religione. E così, con l’andar del tempo, cominciò a farsi strada la triste pratica della compravendita dei calciatori, che fu alla fin fine l’anticamera del professionismo, sviluppo dettato dall’esigenza di offrire al pubblico uno spettacolo sempre più accattivante.

    Fu in questo modo che ebbe inizio la progressiva corruzione di questo meraviglioso sport, che, gradualmente, si è trasformato in una vera e propria industria.

    Comunque, almeno fino agli anni Settanta-Ottanta, rimasero tracce dell’iniziale romanticismo, rappresentate soprattutto da ancora tanti giocatori che erano vere e proprie bandiere delle diverse squadre, simboleggiando il sano attaccamento alla maglia. Parlo dei vari Rivera, Mazzola, Riva, Facchetti, Antognoni, Scirea, Gentile, Bettega, che legarono la loro carriera ad un’unica squadra.

    Poi, una dopo l’altra, si verificarono situazioni e fatti che dettero il definitivo colpo di grazia ad un calcio già malato.

    Intanto, a fine anni Settanta, iniziò la contaminazione col mondo delle scommesse clandestine, che finì per ingolosire anche molti calciatori, i quali, poi, ne furono travolti.

    Verso la metà degli anni Ottanta, poi venne eliminata la limitazione all’ingaggio di giocatori stranieri, che, se contribuì, in parte, ad aumentare lo spettacolo sui campi, portò però in Italia molti semplici mercenari, infliggendo, inoltre, un duro colpo ai nostri vivai e, di conseguenza, alla Nazionale. Due importanti risorse, queste, che subirono un colpo letale, a metà anni Novanta, inferto loro dalla cosiddetta sentenza Bosman, la quale, sancendo la libera circolazione dei calciatori nell’ambito dell’Unione Europea, portò alla definitiva rovina del nostro football. Sua indiretta conseguenza fu poi l’ingresso nel calcio italiano ed europeo di grandi e potenti gruppi stranieri, che intravidero in questa nuova situazione la possibilità di espandere i loro miliardari interessi e, in parte, anche quella di trovare preziose ‘lavatrici’ dei denari guadagnati chissà come.

    Poi, ecco avventarsi sul mondo del calcio lo strapotere dei media, con l’immenso business dei diritti televisivi a farla da padrona, fino a relegare gli incassi al botteghino ad un ruolo marginale nei bilanci delle società, ingigantendo così la forbice fra grandi e piccoli club. E così ora ci troviamo costretti ad assistere a noiosi campionati nei quali sono sempre le stesse, poche, squadre a contendersi il titolo e le posizioni che contano, con tutte le altre ineluttabilmente ridotte a semplici e magari anche poco graditi (come disse Lotito) sparring partners. Sembra davvero difficile che si possano rivedere scudetti vinti da Cagliari, Fiorentina, Verona o Sampdoria. Al momento, solo la ‘piccola’ Atalanta riesce a mantenersi nel club delle nobili, ma si tratta di un caso molto particolare. E comunque, quando il presidente Percassi deciderà di staccare la spina, cosa succederà? Quasi certamente, anche il sodalizio orobico rientrerà nei ranghi, risucchiato nella schiera della plebe calcistica.

    L’ultimo, più recente, cancro del calcio è stata, infine, l’invenzione della figura dei procuratori, nata probabilmente con le più buone intenzioni di difendere gli interessi dei calciatori, ma poi pian piano divenuta un elemento di estremo parassitismo, volta più che altro a lucrare commissioni milionarie succhiando il sangue alle società.

    E allora, cosa ci rimane oggi che ci consenta di conservare ancora l’attaccamento alla nostra squadra?

    Beh, forse dovremo accontentarci di una società e di un presidente che siano espressione della realtà locale, come, per nostra fortuna, sta avvenendo ora a Modena. Oppure, chi ha a che fare con una proprietà ‘forestiera’, o addirittura straniera, dovrà essere contento che quel tale magnate abbia deciso di investire proprio sulla sua squadra per renderla grande. E’ poco? E’ così.

    La costante di questo calcio, comunque, rimangono e rimarranno sempre i tifosi, l’elemento senza il quale il giocattolo non starebbe più in piedi. Attenzione, però, signori del calcio, a non disgustare troppo il popolo calciofilo, perché la misura è quasi colma.

    Per il momento, almeno le curve sono ancora piene e al Braglia si canta e si grida la modenesità: per un pir un pam un persegh, per na brogna e na rumleina, nueter a sam d’la Ghirlandeina, nueter a sam da rispeter!

    E allora, sempre e nonostante tutto, forza Modena!

    Roberto Parmeggiani

    Immagine su licenza Creative Commons. Autore F.C. Modena.

    https://sr.wikipedia.org/wiki/%D0%94%D0%B0%D1%82%D0%BE%D1%82%D0%B5%D0%BA%D0%B0:Modena_FC_logo.svg.png#filelinks.

    Introduzione

    Voglio rassicurare tutti, o, se preferite, chiarire subito una cosa. Quella che, ahi voi, andrete a leggere, non è la storia del Modena Calcio, della quale sono già state scritte e pubblicate diverse versioni esaustive. Si tratta, più semplicemente, di un racconto delle vicende dei canarini per come le ho vissute io. La narrazione parte dal lontano 1969, cioè da quando cominciai ad accostarmi alla galassia gialloblù, iniziando, allora ero un bimbetto, un ‘cinno’, a frequentare lo stadio Braglia, prendendo pian piano coscienza di cosa fosse il Modena.

    Dal mio debutto sui gradoni del Braglia fino ad oggi, avrò visto complessivamente 150/200 partite, non tantissime, in verità, un po’ perché, da ragazzo, mi mancava ovviamente un mezzo di locomozione che mi consentisse di muovermi autonomamente, ma anche perché, in seguito, le troppe delusioni mi hanno spesso fatto perdere entusiasmo, tenendomi quindi lontano dallo stadio.

    Tutto quanto riportato in questo libercolo è quindi frutto di varie fonti: in primis, ovviamente la mia esperienza diretta al Braglia, poi i racconti dettagliati che, quando ero ragazzo, mi faceva mio padre di ritorno dallo stadio, le cronache delle partite che ho spesso letto sui giornali, unitamente alla ricerca dei resoconti delle varie epoche, nonché la visione degli incontri alla Tv. Del resto, ammetto che, per vari motivi, negli anni più recenti mi sono anche un po’ imborghesito, per cui spesso ho preferito tifare Modena stando comodamente seduto davanti al teleschermo, tanto che, ormai, il numero delle partite viste in Tv è circa pari a quello delle mie presenze allo stadio.

    A prescindere, comunque, dall’origine dei racconti, non leggerete delle semplici cronache; spero, anzi che potrete apprezzare le palpitazioni, le gioie e le delusioni di un tifoso sfegatato che mi auguro trapelino da queste pagine.

    Buona lettura.

    Come nasce un … bastardo

    Io sono un bastardo. È questo un termine che può anche indicare una persona di poca moralità, insomma, un figlio di buona donna, uno stronzo, se vogliamo dirla all'inglese. Io, invece, mi sento un bastardo in quanto ibrido, meticcio. Mi spiego subito, per evitare il rischio che si pensi che mi disprezzo troppo.

    Sono nato, ormai tanti, troppi anni fa, a Castelfranco Emilia, dall'unione dei miei genitori, che ho sempre adorato e considerato persone bellissime: soprattutto belle dentro, capitemi. Mia madre era una castelfranchese purosangue, mentre mio padre è nato a Modena ed emigrò a Castelfranco con la famiglia all'età di 14 anni. Dunque, chi vive o è vissuto in Castello conosce ovviamente bene le caratteristiche del paese. Castelfranco, nei secoli addietro, ha fatto parte dello Stato Pontificio restando comunque sempre sotto il controllo di Bologna e, soltanto nel 1929, meno di cento anni orsono, è passato alla provincia di Modena. Tuttora, la diocesi di riferimento è quella bolognese. Si capirà bene, dunque, che i paesani, o i cittadini se preferite, si sono sempre sentiti bolognesi fino all'osso, anche se l’aumentata mobilità delle persone negli ultimi decenni ha cambiato un po' il sentire dei più giovani. Comunque, insomma, a Castello anche i sassi si sentono felsinei. Ovviamente, questo generale sentimento ha sempre influenzato anche le simpatie a livello calcistico.

    I più antichi bar lungo i portici della via Emilia, il Caffè Grande e il Caffè Piccolo, sono da sempre stati ritrovi di tifosissimi rossoblù. Di covi di aficionados modenesi, mai sentito parlare. Anche perché, in Castello, i culi gialli, così amichevolmente ribattezzati dai bolognesi, soprattutto quando io ero un ragazzo, bisognava cercarli con il lumicino. Erano un po' dei massoni, dei carbonari. Tutti i miei amici conoscevano i nomi dei giocatori del Bologna, magari indossavano la maglietta rossoblù e cominciavano a frequentare il Dall'Ara (che allora era semplicemente lo stadio comunale).

    Il mio destino, invece, era già segnato, forse dalla nascita. Non avrei mai potuto condividere con gli altri ragazzi l'amore per la squadra del dottor Balanzone.

    Pensiamoci un attimo: da un lato, per mia madre e i miei nonni, tutti castelfranchesi doc, il football è sempre stato un oggetto misterioso; dall’altro, mio padre, che sin da piccolo ha sempre avuto un pallone tra i piedi (magari anche di pezza), è nato a Modena in via Bertolda, una delle strade più antiche del centro storico.

    Mi raccontò che già all’età di cinque anni cominciò a frequentare lo stadio, accompagnato dal nonno Roberto, grandissimo tifoso che, dopo la guerra, fu tra coloro che si offrirono volontari per andare a collocare sotto il terreno di gioco dell’allora ‘stadio comunale’ delle fascine che dovevano favorire il drenaggio dell’acqua piovana.

    Da ragazzo, mio padre entrò a far parte delle giovanili del Modena e, ovviamente, tutti i ragazzini della sua età tifavano gialloblù. In casa mia, quindi, in fatto di calcio, si è sempre respirato un attaccamento totale a Sandrone. Dottor Balanzone? Chi era costui?

    Ed è così che, sia detto scherzosamente, sono diventato un bastardo, una persona cresciuta respirando sentimento e atmosfera di amore verso la Dotta, ma che non ha potuto resistere alla forza maggiore dell'ambiente familiare che gli ha trasmesso la febbre cronica per i colori gialloblù.

    Da ragazzo, gli sfottò degli amici rossoblù mi davano assai fastidio, ma l'amicizia non ne ha comunque mai sofferto. Poiché qualcuno mi aveva affibbiato il soprannome Budino, o anche solo Bud, i bolognesi cantavano: Budino, sporco canarino. Io ci ridevo sopra.

    Quando, poi, ci si ritrovava tutti insieme al bar, le discussioni  sulle partite (poche, in verità) fra Modena e Bologna duravano sempre parecchio ed erano lotte impari, ma finivano amichevolmente.

    Comunque, l’importante è che si scherzava sempre molto. Ricordo che, un sabato, d’estate, ci incontrammo, verso mezzogiorno, per stabilire il programma per il pomeriggio. Io proposi una spedizione alla piscina di Montombraro, nostra meta abituale, ma un amico disse che lui ed alcuni altri sarebbero andati a vedere una partita di allenamento del Bologna, che era in ritiro a Sestola. Dopo pranzo, però, sentii suonare il campanello di casa. Era quell’amico, che mi diceva che il programma era cambiato e che, se mi andava ancora, saremmo andati tutti a Montombraro. Allora scesi le scale e salii in auto con gli altri. Dopo alcuni chilometri, però, mi accorsi che non si stava percorrendo la strada giusta per Montombraro, perciò chiesi chiarimenti. A quel punto, notai dei sorrisini sui volti dei miei amici e… capii. Tradimento! Mi avevano teso una trappola. Mi stavano portando a Sestola a vedere il Bologna. Comunque, non me la presi più di tanto. Alla fine, trascorsi un pomeriggio in allegria.

    Più di recente, un caro amico dal cuore rossoblù ha avuto la bella iniziativa di organizzare ogni anno, sotto il gazebo di casa sua, una simpatica cena, a cui invita regolarmente diversi amici, tutti tifosi bolognesi, oltre a me, unico canarino. Apparecchia la tavola con tanti piatti rigorosamente rossi abbinati a bicchieri blu e un unico piatto giallo, il mio. Io mi presento sempre con maglietta gialla e pantaloncini blu (e, ultimamente, mascherina del Modena), mentre gli altri indossano quasi tutti la casacca del Bologna. Al di là di qualche logico sfottò, si tratta di serate piacevolissime tra vecchi amici che, tra una pizza e un bicchiere di vino, si divertono parlando di calcio, ma, soprattutto, dei vecchi tempi trascorsi insieme.

    Io Bologna città la amo, il Bologna calcio, invece, lo detesto... amorevolmente. E ancora adesso che (non) gioco a carte e bevo vino, come cantava il grande Lucio, quando ci si ritrova coi vecchi amici, da castelfranchese, un po' mi dispiace non poter condividere con loro la passione per gli stessi colori. Ma tant'è. La moglie puoi anche cambiarla, passi. La fede calcistica mai!

    Rubens Merighi, Jorge Toro e Gianfranco ‘Caco’ Borsari’. Foto di pubblico dominio.

    https://it.wikipedia.org/wiki/Rub%C3%A9n_Merighi#/media/File:Rubens_Merighi.JPG

    https://it.wikipedia.org/wiki/Jorge_Toro#/media/File:Jorge_Toro.jpg

    https://it.wikipedia.org/wiki/Gianfranco_Borsari#/media/File:Gianfranco_Borsari.jpg

    1968-69: i primi passi verso la…salvezza.

    Il mio destino fu definitivamente segnato il 13 aprile 1969, quando non avevo ancora compiuto otto anni.

    Mio padre Giampiero, Giampi per gli amici, assiduo frequentatore dello stadio Braglia, mi portò per la prima volta con sé allo stadio, in gradinata centrale.

    Per me, già incuriosito dalla descrizione delle gesta dei canarini che sentivo sempre in casa, fu il definitivo amore totale, che, si capisce poi col tempo, pian piano tende a diventare quasi una malattia, un attaccamento morboso, quasi una droga di cui non si riesce più a fare a meno.

    Ricordo che, praticamente tutti i giorni, giocavo al pallone da solo nel cortile di casa mia o sul terrazzo, oppure, quando si poteva, nello spiazzo dietro la casa dei miei nonni insieme agli amichetti, coi quali ci divertivamo ad organizzare piccoli tornei simulando partitelle fra le squadre più famose di serie A e anche di serie B, di cui sapevamo ormai i nomi a memoria, avendolo imparato a conoscerli attraverso la Tv e dai discorsi che si facevano in casa.

    Intendiamoci, non è che io seguissi già il campionato, tuttavia, sentivo dire da mio padre che il Modena non vinceva mai e le cose andavano malissimo. Una domenica pomeriggio di metà novembre, uscendo dal cinema Corso, dove ero andato accompagnato da mio nonno Renzo (un giovanissimo nonno di soli 54 anni), sentii dire da qualcuno che, finalmente, il Modena aveva vinto la prima partita dell’anno, battendo il Livorno per 2 a 0. Mi fece davvero piacere. Gradualmente, cominciai ad interessarmi un po’ alle vicende dei canarini, chiedendo ogni tanto qualche informazione a mio padre, che, però mi rispondeva sempre a monosillabi, da cui capivo che c’era poco da stare allegri.

    Comunque, passato il rigido inverno, viste le mie insistenze, quella domenica 13 aprile di 53 anni fa, mio padre decise finalmente di accontentarmi, portandomi con sé allo stadio. Ebbene, quando mi sedetti sui gradoni del Braglia e cominciò la partita, sentii subito che sarei stato felice se i gialli avessero segnato un gol in più degli avversari. E per fortuna così avvenne. La squadra ospite, ricordo bene, era il Catanzaro, che indossava una bella divisa giallorossa. Il Modena vinse solo 1 a 0, ma andò bene così. I nostri giocatori non li conoscevo ancora: mio padre mi disse che aveva segnato       il cileno Jorge Toro, il calciatore più dotato tecnicamente della squadra. L'altro asso era invece un argentino, Rubens Merighi. Entrambi erano centrocampisti ed erano ormai fra gli ultimi stranieri rimasti soprattutto in serie B, perché dal 1966, l'annus horribilis del disastro della nazionale con la Corea del Nord del dentista Pak Doo Ik, le società italiane non potevano più tesserarne.

    Comunque, quella partita mi era piaciuta molto: avevamo vinto (sì, ho scritto avevamo, perché mi sentivo già anch'io parte di quella squadra e di quel successo), vedevo mio padre contento e poi mi aveva colpito l'entusiasmo del bel pubblico sugli spalti.

    E così, la domenica seguente, ero di nuovo in gradinata con papà. Avversaria era un'altra formazione del profondo Sud, il Catania, dalle divise a righe rossoazzurre (si badi bene, non rossoblù come il Bologna). Il solito Toro realizzò la rete che sembrava poter regalare ai gialli un'altra vittoria, ma poi il portiere siciliano, che ricordo benissimo che si chiamava Rado, parò tutto e alla fine il Catania pareggiò. Rimasi un po' deluso, ma Giampi mi spiegò che avrei dovuto abituarmi al fatto che non si può sempre vincere, anzi, tutt'altro.

    Sette giorni dopo, fui contento di seguire mio padre addirittura a Brescia. In quella città, risiedevano dei nostri parenti, per l'esattezza la famiglia di un cugino di mio padre, trapiantato lì da molti anni. Si stabilì che io, mio padre, mia madre e mia sorella saremmo andati in visita ai parenti bresciani, piuttosto simpatici in verità, che ci avrebbero ospitato a pranzo. E così fu. Nel primo pomeriggio, poi, io, Giampi e il cugino Lilli ci spostammo allo stadio Rigamonti (intitolato al giocatore del grande Torino, ma con un passato al Brescia, perito nella tragedia di Superga), dove, ahimè, assistei ad una totale disfatta dei canarini. Il risultato fu un secco 3 a 0 che non ammetteva repliche. Mi fece un po' impressione il fatto di dover subire passivamente gli schiamazzi di gioia dei tifosi della leonessa. Per la cronaca, una delle reti biancazzurre fu realizzata da tale Gigi Simoni. . . Partita a parte, il resto della giornata fu comunque divertente assieme ai miei cugini.

    Il mio entusiasmo, in ogni caso, restò ben vivo per quel nuovo mondo con cui ero entrato da poco in contatto. Tant'è che, quindici giorni dopo, quando Giampi e altri amici si organizzarono per la trasferta di Mantova, chiesi subito di poter essere anche io della compagnia. Detto e fatto, si allestì una pool car e si partì alla volta della città dei Gonzaga. Al Martelli di Mantova ci accomodammo in tribuna, molto confortevole, anche perché si era all'11 di maggio e al sole faceva parecchio caldo. Fu in occasione di quella partita che cominciai davvero a conoscere meglio i nomi dei vari giocatori. Ricordo infatti che il primo tempo fu negativo per i nostri colori. Io non ci capivo un granché, ma vidi che i biancorossi mantovani ci fecero quasi subito un gol, dopodiché mio padre e i suoi amici iniziarono a commentare in modo negativo le giocate di vari calciatori canarini: ce l'avevano un po’ con tutti: con i difensori Vellani e Borsari che non ‘marcavano’, con il 'rosso' Franzini che, a loro dire, aveva la lingua fuori, con Barucco, che non azzeccava un intervento, con Console e Iseppi, che non avrebbero segnato nemmeno con la matita, nonché coi due stranieri, che pareva non sapessero più illuminare il gioco, infine col portiere Colombo, detto 'tenaia' (per il modo particolare con cui agguantava la palla in uscita), reo di aver fatto una brutta ‘cappella’ in occasione del gol degli avversari. E, almeno riguardo al portiere, i nostri tifosi videro le loro critiche soddisfatte. Infatti, al posto del malcapitato Colombo, l'allenatore fece entrare il portiere di riserva Ciceri. A proposito dell'allenatore, mi fu detto che era un modenese, Leandro Remondini. Pare che fosse il terzo tecnico quell'anno a sedersi sulla panchina del Modena, in quanto, se le cose andavano male, da sempre il presidente di ogni squadra non trovava soluzione migliore che sostituire il coach. Prima di Remondini, c'era stato Vittorio Malagoli, altro modenese, e prima ancora Laszlo Szekely, nome e cognome quasi impronunciabili: si trattava di un ungherese, assunto dall'allora presidente Ferdinando Corradini, un industriale della nostra zona, che si era fatto un po' trascinare dalla moda di puntare molto sui tecnici magiari, all'epoca molto in voga, come lo era stata alcuni anni prima anche la nazionale ungherese. Si diceva fosse un mezzo mago, ma si vide poi la sorte che gli toccò.

    Torniamo al pomeriggio virgiliano. Nell’intervallo, leggevo negli occhi di mio padre e degli amici l'ansia e il timore di assistere a uno sfacelo, dopo il triste spettacolo del primo tempo. Ma la ripresa ebbe il potere di trasformare quei musi lunghi in espressioni gioiose ed entusiastiche. I nostri sembravano rigenerati. I due stranieri ricominciarono a regalare belle giocate e, in men che non si dica, prima Iseppi pareggiò, poi Merighi realizzò la rete del sorpasso, dopodiché l’esperto portiere Ciceri si guadagnò la pagnotta alla grande. E così si portò a casa una importante quanto insperata vittoria. Il viaggio di ritorno fu piacevolissimo: in auto si respirava un'atmosfera carica di entusiasmo; insomma, ottimismo alle stelle.

    La domenica seguente era in programma al Braglia il derbyssimo con i cugini reggiani, ma mio padre decise di non portarmi con sé perché, mi spiegò, in quelle occasioni c'è sempre il rischio che sugli spalti gli animi si surriscaldino e succedano cose poco gradevoli. Di ritorno dallo stadio, mi raccontò che i gialli avevano stritolato i granata con un netto 3 a 0. Dopo un primo tempo equilibrato, nella ripresa avevano segnato i due sudamericani e Marcioni, un giovane che, se non ricordo male, scomparve poi in età ancor giovane.

    Tornai al Braglia per la partita contro la Spal. Quel giorno, ricordo bene, salimmo in tribuna, sotto la quale notai che esisteva un settore, denominato parterre, gremito di spettatori che seguivano l’incontro in piedi. Quel giorno, giunti allo stadio, ci accorgemmo che le due squadre stavano già giocando, anzi si era già quasi alla fine del primo tempo. Capii che mio padre pensava che la partita iniziasse alle 15:30, invece era cominciata un'ora prima. Il risultato era ancora a reti bianche. Ma nella ripresa ci potemmo gustare il bel gol di Braglia che ci regalò i due punti. Cominciavo a credere di portare fortuna a questo Modena: si vinceva quasi sempre!

    E allora, eccomi di nuovo in tribuna centrale con papà la domenica successiva, il primo giugno 1969. Allo stadio c'era il pienone. Mi spiegarono che l'avversario del giorno, in maglia celeste, era la Lazio, capolista della serie B, che infatti ci rifilò quasi subito un gol. Ma i nostri non si demoralizzarono e in chiusura del primo tempo il solito Rubens Merighi realizzò la rete del pareggio. Il secondo tempo fu poi qualcosa di surreale. Mio padre giurò di aver visto un giocatore gialloblù fare un segno d'intesa ad un laziale. Fatto sta che assistemmo ad una stucchevole melina da parte di entrambe le squadre, all'insegna del volemose bene. Il pubblico fischiava. In tribuna, però, tutti spiegavano che, d'altra parte, il pareggio faceva comodo a tutti, alla Lazio per conservare saldamente il primo posto in classifica, al Modena per guadagnare un prezioso punto in ottica salvezza.

    E così, nei giorni successivi mi venne la curiosità di andarmi a leggere la classifica di serie B pubblicata dal giornale Stadio, che mio padre acquistava regolarmente ogni lunedì. Accidenti, eravamo proprio messi male, quasi sul fondo della classifica. C’era una cosa, però, che non mi era chiara. Nella pagina delle statistiche, leggevo: Modena: gol fatti 22 sùbiti 30. Insomma, mi sembrava di capire che i gol fatti diventassero ‘subito’ 30, meglio anche di altre squadre assai più quotate. Mio padre, però, mi spiegò che la parola ‘subiti’ non era un improbabile plurale di ‘sùbito’, ma faceva riferimento alle reti subìte dal Modena, cioè quelle che le avversarie gli avevano segnato. Ci rimasi male, ma ora le cifre avevano un loro logica.

    Comunque, vista l’evidente gravità della situazione, quindici giorni dopo la farsa con la Lazio, bisognava assolutamente essere presenti per la sfida casalinga con il Foggia, che si diceva essere pressoché decisiva per i nostri colori.

    Anche stavolta, in quella bella domenica di sole, gli spalti erano gremiti dai tifosi modenesi, che si godettero quello che fu un vero monologo gialloblù: si vinse addirittura 4 a 0, con ben tre gol di Braglia, che segnò già in apertura, incanalando la gara nel binario giusto. Console completò poi la quaterna.

    A me parve che tutti i nostri avessero giocato benissimo. Ricordo che si mise particolarmente in mostra un altro Merighi, Gianni (che chiamavano Merighi II, per distinguerlo dall’argentino Rubens), uno spilungone comunque piuttosto veloce. Ebbi poi l'occasione di conoscerlo anche personalmente qualche anno fa, quando, a ormai settant’anni suonati, aveva preso in gestione il Caffè Concerto in Piazza Grande. Un po’ grezzo, se vogliamo, ma tutto sommato piuttosto simpatico.

    Bene. Quel campionato si chiuse con una sconfitta a Terni (2 a 0), contro  forse la peggior bestia nera per i gialloblù.

    Per fortuna, grazie alla combinazione degli altri risultati, a noi favorevole, ci salvammo, a scapito del Lecco, che retrocesse in serie C insieme a Spal e Padova.

    Siccome, come ho già detto, avevo cominciato ogni tanto a leggere Stadio, seguivo talvolta i risultati della formazione De Martino del Modena, che partecipava allo speciale campionato riserve.

    E notavo che si faceva

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1