Fuoco nel ghiaccio
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Tormentato da ciò che ha perso in Afghanistan, il capitano Jack Turner si trova a un punto di svolta. Una missione di routine nell’Artico lo strappa dal suo noioso lavoro d’ufficio, ma le cose con il Ranger canadese che dovrebbe guidarlo in quelle terre così ostili e pericolose partono con il piede sbagliato. Jack non sa quale sia il suo posto, ma di certo preferirebbe che non fosse nella stessa tenda del sergente Kin Carsen.
L’Artico scorre nelle vene di Kin, che non riesce a lasciarsi la tundra alle spalle. Vorrebbe poter vivere apertamente la sua omosessualità, ma l’estremo nord non è tollerante come il resto del Canada. Nonostante la solitudine è orgoglioso del suo ruolo di responsabilità di Ranger, incaricato di pattugliare le terre sterminate che conosce così bene. Ma con Jack si trova in un territorio sconosciuto, e quando una tempesta li isola dal mondo, tra di loro si accende un desiderio inatteso. Ben presto si ritrovano a lottare per la sopravvivenza, due sconosciuti che possono contare solo l’uno sull’altro.
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Fuoco nel ghiaccio - Keira Andrews
1
«N unavutmut tunngasugitsi!»
La ghiaia e un sottile strato di neve scricchiolarono sotto gli anfibi di Jack, che imprecò quando mise piede sulla passerella dell’Artic Bay Airport. Aveva completamente dimenticato di imparare le basi della lingua inukitut. Gli avevano detto che la maggior parte della gente nel Nunavut parlava bene l’inglese, ma aveva scoperto che qualche frase nel linguaggio nativo sarebbe potuta tornare molto utile.
Si affrettò a scendere dall’aereo a turboelica per non bloccare la via ai pochi passeggeri dietro di lui. «Grazie,» disse con un sorriso, supponendo che l’anziano uomo inuit lo avesse in qualche modo salutato.
Con la testa alta, l’uomo gli fece il saluto militare. «Benvenuto, capitano Turner. Sono il caporal maggiore Donald Onartok.»
«Piacere di conoscerla.» Rispose al saluto e strinse la mano callosa dell’uomo, rabbrividendo per il vento che sferzava la pista d’atterraggio. Le narici gli formicolavano già per l’aria fredda e secca. «Niente giacca?» Jack indossava il suo parka mimetico, che arrivava fino a metà delle cosce coperte da pantaloni nella stessa tonalità.
Onartok fece un gesto con la mano. «Ci sono solo sette gradi sottozero. Per essere ottobre non fa freddo.» Indossava l’uniforme dei Ranger canadesi: anfibi neri, pantaloni mimetici con la stessa fantasia scura di quelli di Jack, una felpa rossa con il cappuccio e un berretto dello stesso colore, entrambi decorati con uno stemma. S’infilò un paio di guanti e indicò alle sue spalle con il pollice. «Le faccio fare un giro. Non ci vorrà molto.»
Il terminal era un piccolo parallelepipedo a un piano, dipinto di grigio e azzurro. Parabole e antenne puntavano verso il cielo terso, e Jack, tenendo il passo, dovette ripararsi gli occhi con la mano. Il riverbero del sole sulla neve rendeva l’ambiente abbagliante come il deserto fuori Kabul. «Avrei dovuto mettere gli occhiali da sole nel bagaglio da stiva.»
«Il sole tramonterà tra un’oretta, ma può prenderli dalla valigia prima di partire.»
Jack controllò il suo orologio multifunzione. Erano solo le tre di pomeriggio, ma il sole stava già iniziando a calare verso l’orizzonte. Il quadrante indicava -7°C. «Dov’è il sergente Carsen?» Sperava di ricordare correttamente il nome che aveva letto nel fascicolo informativo.
«Ancora a scuola. Insegna.»
«Grazie per essere venuto a prendermi. Cosa fa lei invece?»
«Caccio e pesco.» Quando Onartok sorrise i suoi denti scintillarono e gli occhi ravvicinati si strinsero fin quasi a sparire. «Mi ha dato una scusa per prendere il pomeriggio libero. Mia moglie non si è potuta lamentare visto che dovevo dare il benvenuto a un VIP dell’esercito.»
Jack si sforzò di non sbuffare. VIP, lui? Più che altro un problema che i pezzi grossi non sapevano come gestire. Forse avrebbe dovuto accettare il pensionamento anticipato, a conti fatti. Almeno si sarebbe potuto evitare incarichi ridicoli come quello.
Le poche persone all’interno del terminal non gli offrirono saluti o strette di mano. Prima di salire sul pickup di Onartok, Jack prese gli occhiali da sole e i guanti dal suo borsone e controllò che la custodia delle armi fosse a posto.
«Questa è l’unica autostrada del Nunavut,» fece notare Onartok mentre svoltavano fuori dall’aeroporto.
Jack sbatté le palpebre verso la strada sterrata spolverata di neve; non sembrava proprio un’autostrada. «Porta a Nanisivik?»
«Esatto. È l’unica strada nel Nunavut che connette due comunità. Non che Nanisivik possa essere definita una comunità visto che non ci vive più nessuno. Era una città industriale, quindi tutte le case e gli edifici erano stati costruiti dalla compagnia della miniera. Quando se ne sono andati hanno smantellato tutto.»
Jack sapeva cos’era una città industriale ma non lo disse. «Estraevano piombo, giusto?»
«E anche zinco e argento. La prima miniera a nord del Circolo Polare Artico. Hanno chiuso nel 2002 quando i prezzi del metallo sono crollati. Ora c’è solo il porto. La Marina Militare avrebbe dovuto trasformarlo in una base, ma poi hanno cambiato idea. Tagli ai fondi, ha presente? In teoria sarebbe poi dovuta diventare una stazione di rifornimento per le navi militari in estate, ma non se n’è ancora fatto nulla.» Rise a disagio. «Mi scusi, probabilmente lo sa già.»
«No, no, voglio sentire il suo punto di vista. Da quel che so la Marina punta a farlo diventare un pomposo distributore di benzina.» Anche l’Esercito aveva dei piani su quel posto, ma probabilmente non si sarebbero mai realizzati, proprio come quelli della Marina.
La strada svoltò attorno a una scogliera e sulla sinistra apparve una baia scintillante; sulla destra c’era un cartello in inglese e, sotto, dei simboli inuktitut.
Vietato portare alcolici dopo questo punto senza un permesso.
Jack sospirò internamente. Era in viaggio da dieci ore e gli sarebbe piaciuto potersi bere una birra fredda. Pensò al faldone di informazioni sull’Artic Bay e Nanisivik che il colonnello Fournier gli aveva fornito; sicuramente da qualche parte c’era scritto che la città era forzatamente astemia.
Aveva procrastinato per tutta la settimana e si era ripromesso di leggere il fascicolo in aereo, ma poi si era addormentato. Aveva passato quattro ore a Iqaluit dopo il volo da Ottawa, quindi non aveva scuse. Soprattutto perché aveva trascorso quel tempo giocando sul tablet a uno stupido gioco di pesca che dava dipendenza.
Ma andava bene così. Si sarebbe messo in pari quella sera nella sua camera d’albergo, tanto non avrebbe avuto niente di meglio da fare. «Quante persone vivono qui?» chiese nel tentativo di fare conversazione.
«Ottocentoventitré all’ultimo censimento. Ma forse sono un po’ di più. Almeno una in più, visto che è nato il mio terzo figlio.»
Jack sorrise come ci si aspettava da lui. «Congratulazioni. Come si chiama?»
«Ipiktok. Significa affilato. Cioè, acuto. Intelligente.»
«Un bel nome.»
«Mia moglie ci teneva a dargli un nome tradizionale. Molti bambini di questi tempi hanno nomi tradizionali. Artic Bay in lingua originale si chiama Ikpiarjuk. Significa tasca. Come avrà notato è circondata su tre lati da scogliere.»
Sotto alle chiazze di neve spazzate dal vento il panorama brullo di rocce rosse era collinare e dominato da scogliere dalla sommità piatta. Jack non vide vegetazione e nemmeno traccia di terra. Sembra di essere sulla luna.
Con la comparsa della città la faccenda non migliorò. Artic Bay era un conglomerato di casette prefabbricate a un piano, molte dipinte di azzurro o rosso scuro. Calcolò che dovevano esserci un centinaio di piccoli edifici raggruppati lungo la spiaggia. Percorrere l’intero abitato non avrebbe richiesto più di dieci minuti.
«Eccoci qui,» disse Onartok avvicinandosi all’acqua. Guardò Jack con aria speranzosa.
«È splendido,» mentì Jack.
«La porto in hotel, e presto il sergente Carsen la raggiungerà.»
Jack sorrise e annuì ammirando quella che sarebbe stata la sua casa per i successivi cinque giorni. L’intero viaggio era stata una perdita di tempo, ma almeno lo aveva portato via dalla sua scrivania e dalle inutili scartoffie. Si era detto che sarebbe stato un cambiamento piacevole, per quanto il colonnello Fournier non gli avesse dato molta scelta.
Poteva ancora sentire il sospiro deluso di Etienne, la sua bocca incurvata verso il basso mentre giungeva le mani sulla scrivania.
«Bisogna scendere a compromessi, Jack. Lo so che il cambiamento è difficile, ma qui mi sembri distratto. Penso che ti farà bene tornare sul campo.»
«Andare a fare un tour con i riservisti dell’artico non è tornare sul campo. Non sono neanche un vero esercito.»
«Lassù hanno solo quello, e loro conoscono il territorio. Potresti persino imparare qualcosa. Stiamo lasciando il Medio Oriente, quindi è tempo di tornare a concentrarci su aree più vicine a casa.»
Ma a che pro? Se i russi avessero voluto invadere l’Artico non sarebbero certo bastati quei pochi soldati amatoriali per fermarli. Nonostante l’affascinante luccichio del sole calante sulla baia mezza congelata, quel posto era desolato e per giunta gelido. Già Ottawa non gli era piaciuta, e