Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il corpo che indosso
Il corpo che indosso
Il corpo che indosso
Ebook342 pages4 hours

Il corpo che indosso

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Elia, undici anni, non ha un posto nel mondo e non si sente a proprio agio nel suo corpo. Criticato dai genitori per non essere il perfetto figlio maschio che si aspettavano e affascinato dai vestiti di sua sorella, diventa facile vittima dei bulli.
Solo Gio, un compagno di scuola selvaggio e ribelle, trova il coraggio di difenderlo e lo invita a casa sua: un appartamento pieno di stoffe e ricordi, in cui l’aria è pervasa dal profumo di lavanda degli abiti di Libera, l’amorevole nonna del ragazzo. L’appartamento diventa ben presto un rifugio per Elia, in cui trova l’affetto e la comprensione che altrove gli vengono negati.
Passano gli anni, il rapporto tra Elia e Gio si evolve. I due ragazzi diventano uno l’estensione dell’altro, si alimentano del loro legame simbiotico, si indossano a vicenda come i vestiti che Elia tanto ama e con cui esprime se stesso.
Quello che li unisce tuttavia non basta. Il mondo preme sulle pareti dell’appartamento e reclama attenzione, mescolando ciò che si trova dentro con ciò che c’è fuori, tanto che i due giovani prendono strade diverse e la separazione sembra inevitabile. Elia tiene così traccia del tempo, chiedendosi se sarà possibile sopravvivere a quel tipo d’amore.
LanguageItaliano
Release dateOct 25, 2022
ISBN9791220704311
Il corpo che indosso

Related to Il corpo che indosso

Related ebooks

Related articles

Reviews for Il corpo che indosso

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il corpo che indosso - Donatella Ceglia

    PARTE I

    UOVO

    1

    DA FUORI A DENTRO: GIO

    Venni al mondo la seconda volta per colpa di un colore e pensai che i colori non si potevano neanche toccare.

    L’aria era calda, appesantiva la pelle e i polmoni. La maglietta rosa, tesa sopra le ossa delle spalle, era diventata una prigione, scura dove il sudore si era allargato nel cotone.

    «Toglitela.»

    Avevano un paio d’anni più di me, pantaloni larghi e magliette dai loghi appariscenti sul petto. Mi avevano spintonato in un angolo, separandomi dalla folla che si stava riversando fuori dal cancello per abbandonare la scuola un’intera estate. E in quell’angolo d’ombra, con i suoi radi fili d’erba secca e la terra battuta dalle suole fino a perdere vita, con i suoi muri scrostati dalla mancanza di fondi e d’interesse, capii che quello che indossavamo io e quei ragazzi diceva qualcosa di noi.

    La mia maglietta rosa diceva qualcosa di me.

    Era di Eleonora, e l’avevo presa in prestito perché lei aveva scelto quella gialla. Mi aveva chiesto un parere, le mani sui fianchi e le due magliette stese sul suo letto, e poi aveva ignorato il mio consiglio come sempre. Ma la maglietta rosa era bella. Mi piaceva. Così gliel’avevo chiesta. Eleonora si era stretta nelle spalle in un silenzioso fa’ come vuoi.

    Forse neanche lei sapeva che diceva qualcosa, la maglietta.

    «Toglitela.»

    Quella parola era più spaventosa degli spintoni, del modo in cui mi avevano strappato lo zaino dalle spalle, della cerniera che mi aveva graffiato la guancia e del bruciore che si era lasciata dietro. Era più terrificante della prospettiva di soffrire, del dolore fisico. Io, che neanche per le ore di ginnastica mi cambiavo davanti agli altri, che mi chiudevo in bagno e ne uscivo con la tuta addosso e i vestiti appallottolati sotto il braccio, sarei dovuto restare nudo davanti a quei tre ragazzi.

    E, sempre io che non parlavo quasi mai, parlai.

    «No.»

    «Cos’hai detto, frocio

    Per la prima volta, a undici anni, la domanda che aveva abitato una parte segreta della mia mente si prese spazio. Si spinse lungo i percorsi del cervello e arrivò davanti, prima di ogni altro pensiero.

    Cosa c’era di sbagliato, in me?

    Era la prima volta che qualcuno mi insultava in quel modo, e non ero sicuro di capire che lingua stessero parlando loro e che lingua avessi sempre parlato io. Quello che indossavo, il suo colore e la sua forma, erano per loro un indizio che non riuscivo a cogliere, denso di significati proibiti. Mi tennero fermo, mi strapparono di dosso la maglietta, la buttarono a terra, la calpestarono, risero. Quei tre ragazzi, di cui ancora oggi ricordo le facce e le voci, mi insegnarono una fede fatta di assoluti e di opposti che avrei impiegato tempo ad abbandonare. Mi avrebbero contagiato con la loro visione semplicistica del mondo: il rosa era un colore da ragazze, alle ragazze piacevano i ragazzi. Un mondo senza sfumature, in cui tutto quello che non era blu doveva essere per forza rosa. Mi strapparono una verginità fatta d’ingenuità, ma mi insegnarono anche che indossare un abito era fare una dichiarazione che poteva essere rivoluzionaria.

    E mi diedero Gio, in qualche modo.

    Mentre calpestavano la maglietta mi uscì quel pensiero goffo, scoordinato come il mio corpo appena adolescente: I colori non si possono neanche toccare.

    Mi piaceva sfiorare i tessuti, le stoffe impalpabili degli abiti di mia madre e quelle ruvide, più decise, dei completi di mio padre. Mi piaceva la sensazione delle lenzuola sulla pelle quando andavo a letto e il tappeto della sala da pranzo sotto i piedi mentre cenavamo.

    Ma i colori, quelli non avevano consistenza.

    «Che cazzo fate?»

    La voce arrivò oltre le spalle dei ragazzi, da sotto i pochi alberi che gettavano le loro ombre sottili nel cortile della scuola. In piedi, dritto e deciso, stava un ragazzino come me. Sembrava uscito da una leggenda su un bambino selvaggio cresciuto nella natura, con i suoi capelli castani sparati in tutte le direzioni, i pantaloni sporchi di terra all’altezza delle ginocchia, la pelle olivastra scurita dal sole.

    Pareva pronto all’attacco.

    «Che vuoi?»

    «Smettetela,» disse.

    «Non sono affari tuoi.»

    «Ora sì.»

    Fece un passo, proiettandosi in avanti quanto bastava a renderlo una minaccia. Non capivo cosa facesse lì e restai immobile a osservare la scena. Non metterti nei guai, diceva la voce di mia madre nella mia mente, ronzando nelle orecchie insieme al panico. Non mi aveva mai spiegato cos’avrei dovuto fare se i guai avessero trovato me, né aveva mai considerato l’idea di prendere parte ai guai di qualcun altro. Di immischiarsi e difendere, come stava facendo quello sconosciuto.

    I ragazzi resistettero solo per qualche secondo, poi sputarono sulla maglietta rosa e si allontanarono. Così, come se io non mi fossi preparato al peggio e loro non fossero stati pronti a una piccola guerra personale. Non capii subito perché – erano più grandi ed erano più di noi –, ma quando il ragazzo selvaggio si avvicinò, vidi il sasso che stringeva in pugno.

    «Stai bene?» chiese, facendosi scivolare la pietra in tasca.

    Restai immobile perché non sapevo quali fossero le sue intenzioni, e tenni le braccia strette sul petto per difendere la mia nudità ossuta, la pelle chiara arrossata dal caldo e dall’imbarazzo.

    «Sono Gio,» continuò lui, incurante del mio silenzio. Si chinò ai miei piedi, spostandosi fra le gambe lo zaino che gli era penzolato dalla spalla fino a quel momento. Frugò e ne tirò fuori una felpa. «Libera me la fa portare. Non le interessa se è estate,» dichiarò, come se sapessi di cosa stesse parlando.

    Ma il problema da risolvere prima di ogni altro era la mia nudità, non c’era tempo per pensare all’assurdità di quella situazione: allungai le dita, sfiorai le sue e sfilai la felpa dalla sua presa. Era morbida, calda e si lasciò dietro un profumo di lavanda quando la indossai.

    Coprirmi mi riempì di fiato i polmoni.

    «Grazie,» mormorai.

    «Sei… Elio? Giri sempre con Eleonora?»

    «Elia,» lo corressi. «Eleonora è mia sorella.»

    «Ma dai?» chiese.

    Sembrò fingersi sorpreso, così lo osservai per capire se mi stesse prendendo in giro. Da vicino, i suoi occhi erano profondi, scuri e grandi, messi in ombra dalle spesse sopracciglia e incorniciati da ciglia lunghe e folte.

    «Intendo che si vede. Siete identici. Siete gemelli, no?» continuò.

    «Sì.»

    «Ecco.» Gio raccolse fra l’indice e il pollice la maglietta rosa e si rimise dritto. «Che ci vuoi fare?» chiese.

    Spostai lo sguardo dal suo viso alla maglietta – un ammasso informe, sporco di terra e umido di saliva – e una nuova paura mi scivolò addosso, penetrando fino allo stomaco: avrei dovuto dire tutto a Eleonora. Si sarebbe arrabbiata, forse più per la maglietta che per i ragazzi, e avrebbe capito che qualcosa in me non andava. Avrebbe capito che la maglietta significava più di quanto non avessimo creduto quella mattina, quando io l’avevo scelta e lei si era stretta nelle spalle.

    Quei pensieri però non ebbero spazio per moltiplicarsi fino a soffocarmi. Gio mi costrinse a voltare il viso, il mento stretto fra le sue dita, e gettò uno sguardo alla guancia. Aveva mani calde e ruvide, e continuai a sentire il fantasma di quel contatto anche quando mi lasciò andare.

    «C’è un graffio,» valutò. «Perché non vieni a casa mia? Libera te lo disinfetta e magari lava la maglietta e tutto.»

    Lo disse come se la domanda non avesse peso, come se fosse normale invitare un ragazzino spaventato e silenzioso a seguirlo. Come se sapessi chi fosse Libera, dove fosse casa sua.

    Come se ci conoscessimo.

    «Devo… devo dirlo a mia sorella e chiederlo a mia mamma.»

    «Va bene,» rispose, infilandosi la maglietta nello zaino.

    Quando alzò lo sguardo, sorrise come avrebbe sorriso per tutti gli anni dopo quel primo incontro. Sorrise felice, fino in fondo, con la bocca e gli occhi, abbagliandomi. E per tutto il tempo, mentre raggiungevo mia sorella che mi aspettava oltre il cancello e mentre le spiegavo che sarei andato a casa con qualcuno che non era lei, Gio restò al mio fianco. La sua spalla sfiorava la mia, le nostre braccia vicine fino a toccarsi. Ignorai il sospetto di Eleonora – non avevo mai avuto un amico, prima – e mi lasciai cullare dal profumo di lavanda.

    Dal modo in cui quella felpa, come la maglietta rosa, poteva essere tutt’altro: un’armatura.

    2

    OGGI

    L’anima di quello che è stato non se n’è andata. Impregna l’aria insieme al profumo delle foglie di tè, si posa sugli oggetti come polvere. Altri dettagli, quelli sì che sono cambiati. Colpa del tempo, avrebbe detto Libera, che non è una linea ma un’onda che si allarga e si ritira, corrode e trascina via frammenti che credevamo indispensabili, rallenta, sembra pronta a fermarsi, e poi scorre veloce, inafferrabile.

    Parlava del tempo delle persone, certo, non di quello della Storia.

    Il divano è un nuovo modello, forse in grado di diventare letto con pochi gesti decisi e meccanismi segreti nascosti sotto i tessuti. Il mobile contro il muro non è più fatto del legno liscio e caldo che rifletteva la luce della porta-finestra: è laccato e nero, immediato proprio come chi l’ha comprato.

    Da piccolo seguivo le venature del legno con il dito e ascoltavo. C’era il rumore della TV a tubo catodico che ingombrava il mobile e che ronzava anche da spenta. C’era la voce di Libera, dolce nella sua decisione. «Sparecchiate,» diceva, «andate a letto.» Noi ridevamo delle nostre battute silenziose, tutte racchiuse in uno sguardo complice, ma obbedivamo sempre. Libera non aveva bisogno di ripetersi, le bastava guardarci in attesa che la sua richiesta venisse accolta.

    Ascoltavo Gio, poi, la sua voce sempre un po’ rauca anche da bambino, cambiata ora in quella di un uomo che ha passato la vita a smettere di fumare.

    «Sono contento. Che sei qui, intendo,» dice con quella voce.

    Ha aperto la porta indossando un sorriso cauto e gira per casa con dei jeans scuri che aderiscono perfettamente alla linea delle cosce e una felpa sformata che nasconde tutto il resto. Immagino il contrasto dei tessuti, il cotone abusato che cade dalle spalle e la ruvida consistenza dei pantaloni. I polpastrelli prudono di desiderio tattile, ma tengo le mani giù, le braccia lungo i fianchi.

    Qui.

    Una sola parola per un intero universo. L’appartamento che è stato il mio rifugio e che, con il tempo – quello delle persone, quello nostro – è diventato giustificazione per non uscire nel mondo, per non esistere oltre i confini di queste pareti oggi dipinte di grigio chiaro.

    Non è il colore che abbiamo scelto noi. Non è rimasto molto, di noi, e bisogna cercare bene per trovarci. Siamo sottovetro sul mobile, abbracciati da una cornice antiquata che abbiamo scelto insieme per Libera, un Natale. Sempre lì, siamo cristallizzati in una decina di altre foto, immobili dentro piccoli momenti, a intervalli regolari di anni. Fra il passato stampato su carta lucida c’è anche il viso sorridente di una donna bruna. È la prima volta che vedo quelle foto esposte alla luce dell’appartamento, in mostra come se a Gio non facesse più male guardarle.

    «È cambiato,» dico, e sto riempiendo il silenzio.

    «Quando ha iniziato a rompersi tutto ho capito che dovevo decidermi a comprare roba nuova.»

    Sta mentendo e forse neanche lo sa. Ha comprato questa roba – mobili e cuscini e tende dai colori neutri – pensando di poter buttare via l’anima che si era appiccicata a quella vecchia. Ma è nell’aria, pulviscolo sottile. E poi avrebbe dovuto disfarsi delle foto, ma stiamo sorridendo da quelle immagini sbiadite e buttarle significherebbe disfarsi della prova che un tempo siamo stati felici.

    Lo fisso e nel mio sguardo dev’esserci incredulità. Gio sembra coglierla, sorride e si porta una mano alla nuca, dove i capelli sono corti e solleticano il palmo. Quel gesto è Gio. È tutto lì: il movimento del braccio, la testa che si abbassa, l’imbarazzo così raro da trovare fra le linee della sua espressione. Lo ha sempre fatto, anche quando era poco più di un bambino. Si è trascinato dietro quell’istinto, mentre io mi sono educato a dimenticarne tanti, forse troppi. Niente più gesti rituali per scacciare l’angoscia, nessun piccolo dolore da infliggermi per non pensare, nulla che possa sporcare la grazia che impongo ai miei movimenti, quella che ho impiegato anni a imparare. Costringo le braccia a stare ferme, le ossa delle dita immobili qualsiasi sia la loro posizione.

    «Ho messo su il tè,» dice.

    La cucina è moderna, con le stesse lisce superfici laccate che occupano il resto della casa, la loro forma tutta spigoli e precisione. Però i fornelli hanno ancora la fiamma, e il fuoco mi strappa un sorriso dopo anni in cui ho vissuto di induzione.

    «Non dirmi che hai perso l’abitudine?» chiede Gio, che forse crede di leggere qualcosa nella mia espressione, le ultime sillabe coperte dal fischio insistente del vecchio bollitore di Libera.

    «Cosa?»

    «Il tè.»

    «No, no, ne bevo ancora troppo.»

    «Brutto segno,» scherza.

    E lo è, ma è anche solo e soltanto un’abitudine. Due tazze sul vecchio tavolino di fronte al divano significavano una giornata pesante alle spalle, qualche tragedia da elaborare, discorsi da affrontare che avrebbero ferito tanto quanto prendersi a pugni e lasciarsi a sanguinare sul parquet. Erano la cura di Libera a ogni male e a quei mali ormai le associo in modo spontaneo.

    Il tavolino è cambiato, ovviamente, e al posto delle ingombranti spire di ferro c’è un incastro essenziale di legno e vetro.

    Gio versa il tè nelle tazze e io resto ancora fermo, resisto alla tentazione di riprendere la danza collaudata: io lo zucchero, lui i cucchiaini; lui che versa, io che porto in salotto. Sono ancorato, ho messo radici nel pavimento. Contraggo i piedi per essere certo che esistano ancora e i calzini si tendono sopra le dita e si increspano sotto. Gli stivali sono all’ingresso, dove Libera ci ha abituati a lasciare le scarpe prima di avventurarci per l’appartamento. «Non voglio immaginare cosa vi portate dentro da fuori,» diceva. E poi l’appartamento era pieno di tappeti, una volta.

    Quando mi decido, un piede davanti all’altro, ancora e ancora, ho già raggiunto il divano.

    «Lo beviamo qui?» chiedo.

    Gio mi rivolge il suo sorriso fatto di denti piccoli e dritti, quello che abbaglia e che mi lascia un po’ stordito. Bere il tè sul divano potrebbe illuderci sul futuro, farci credere che sia possibile prendere il passato e rimescolarlo in qualcosa di nuovo.

    Tornare indietro andando avanti.

    Ma non importa.

    «Come sempre,» dice, sistemando le tazze sul tavolino.

    Dentro il liquido ambrato, piccoli pezzetti di foglia sono scappati al filtro metallico. Immagino la poltiglia appiccicaticcia che questo rituale si lascia dietro, invisibile davanti al risultato finale, e immagino noi ridotti allo stesso modo dalla vita. Quelle piccole foglie che si sono ribellate al loro destino mi illudono più di quanto dovrebbero, visto che interpretarle è una divinazione che non posso permettermi.

    È soltanto il nostro tè, nessun significato nascosto.

    «Te ne ho messo uno,» dice Gio, mentre mi allungo a prendere la tazza ipnotizzato dal modo in cui il fumo sale nell’aria della stanza.

    «Come?»

    «Un cucchiaino di zucchero. Lo prendi ancora così?» chiede.

    «Sì, sì.»

    «Tutto bene, quindi?»

    «Non mi lamento. Il lavoro va bene. L’unica novità è Vivienne, ma questo lo sai.»

    «Potevi portarla.»

    «Ho pensato che fosse meglio restare da soli.»

    L’ho detto. Non c’è più la paura di un tempo, quella che mi bloccava i desideri in gola e mi impediva di trasformarli in realtà grazie alle parole. Alzo gli occhi dalla tazza e Gio mi sta guardando. Ha un’espressione delle sue in viso, quelle concentrate, con le sopracciglia ravvicinate che increspano la pelle sul naso. Gli occhi scuri, quasi neri, hanno lo sguardo che da ragazzino poteva tenermi aggrappato alla realtà anche quando perdermi nella mia mente sarebbe stato più facile, meno doloroso. Uno sguardo potente, ereditato da Libera.

    «Sei cambiato,» dice, come fosse un verdetto, come l’ho detto io per l’appartamento.

    «Tutto cambia. Colpa del tempo.»

    «Il tempo è come un’onda, ragazzi,» recita Gio.

    «Anche qui tutto è cambiato,» ripeto. «Ora c’è una porta.»

    Ho provato a non guardare in quella direzione, a non sbirciare l’arco squadrato che dà sul corridoio, ma le discrepanze così ingombranti sono difficili da ignorare. Prima c’era un mondo di possibilità, un invito a esplorare; ora c’è solo un ostacolo.

    «I sassi non sono cambiati,» dice Gio. «Cioè, sono aumentati ma ci sono ancora.»

    E mi dà una scusa per smettere di fissare la porta bianca e tornare ai soprammobili che sono sopravvissuti allo sterminio. Dopo le foto, vicino alla finestra, ci sono i sassi. Sono racchiusi in un grosso contenitore dagli angoli stondati, fatto di vetro spesso, con il tappo tondo in sughero. Ci si può infilare l’intera mano, lì, e rigirare i piccoli sassi dalle forme banali fra le dita. A pennarello, sulle superfici grigie, ci sono le date.

    «Hai continuato a farlo,» dico.

    «Perché smettere?»

    Sorrido.

    È vero.

    Perché smettere?

    3

    DENTRO

    C’è stato un momento, nella nostra storia, in cui tutto quello che possedevo era migrato dalla nostra camera da letto alla vecchia stanza di Gio. Eravamo vicini alla fine, e le mie notti le passavo nel letto che lui aveva occupato da ragazzino, rigirandomi sul materasso, le lenzuola impigliate ai piedi. Sognavo la sua schiena, la linea decisa delle sue spalle, la sua nuca con i fitti capelli corti e scuri. La mia mano si muoveva nel buio, si posava su di lui, lo invitava a girarsi. Quando lui lo faceva, però, c’erano un’altra nuca e un’altra schiena. A quel punto del sogno sentivo il panico – una sensazione familiare, probabilmente venuta al mondo con me, cucita dentro le mie viscere quando ero stato messo insieme – e continuavo a girare e rigirare Gio perché mi guardasse, sempre più in fretta, con sempre più violenza.

    Guardami, ti prego, guardami.

    Ma lo sguardo scuro di Gio, quello in grado di calmarmi, di salvarmi e ancorarmi alla realtà, non era lì. Continuava a darmi le spalle. E c’ero solo io, che mi svegliavo dal mio incubo, dentro un letto, dentro una stanza, dentro un appartamento.

    Solo.

    L’appartamento di Libera.

    Così l’aveva chiamato Gio dopo il nostro primo incontro e così avrei continuato a chiamarlo io negli anni. Spalancata la porta al terzo piano, si entrava in un luogo caldo, fatto di legni e tessuti che stimolavano il mio desiderio di sfiorare il mondo. C’erano cuscini e tappeti, tende e tovaglie. C’erano colori, esplosi quasi per caso sulle stoffe in disegni ipnotici.

    C’era, sull’appendiabiti sotto cui buttammo gli zaini, una bandiera della pace agganciata come un mantello.

    «Togli le scarpe,» disse Gio.

    Obbedii, allineando con cura le scarpe da ginnastica nuove vicino a quelle logore in tela che si tolse lui. E, impalato in una felpa per cui faceva troppo caldo, con il disagio di chi si avventurava in un posto nuovo popolato da persone sconosciute, sentii la voce di Libera per la prima volta.

    «Vediamo un po’ chi mi hai portato.»

    Oggi la ricordo come se fosse ancora lì, sotto l’arco squadrato di una porta che era stata rimossa e che si era lasciata dietro, nella sua scomparsa, solo i cardini sporgenti. Quelli erano i denti della creatura, e Libera se ne stava ritta e fiera in mezzo a quella bocca spalancata. Portava un abito lungo, con una striscia di tessuto in vita e orecchini di piume. I capelli grigi erano tagliati corti e lasciavano che gli occhi assorbissero tutta l’attenzione. Grandi e scuri, con folte ciglia, proprio come quelli di Gio. E, proprio come Gio, anche lei era in grado di leggere nell’anima della gente.

    «Elia,» rispose lui al mio posto.

    «Beh, Elia, piacere di conoscerti,» disse la donna, concentrandosi su di me. «Io sono Libera.»

    La salutai balbettando un «Salve,» come mi era stato insegnato, continuando a stare fermo vicino all’ingresso. Gio aveva già spalancato il frigorifero: tirò fuori una brocca di vetro piena di tè freddo e spicchi di limone, si alzò sulle punte per recuperare due bicchieri dalla credenza e fece come se la mia presenza lì fosse scontata, quotidiana. Una piccola parte di sempre, abbandonata a pochi passi da lui.

    «Almeno qualcuno è educato, da queste parti.»

    «Sai che mi stai crescendo tu, vero?» s’intromise Gio.

    «Vieni, vieni. Sediamoci. Raccontami un po’ cos’è successo.» Libera mi indicò il tavolo dopo aver lanciato un’occhiata di rimprovero in direzione della cucina.

    La seguii e presi posto su una delle sedie, facendo scricchiolare la paglia della seduta. Mi mettevo sempre sul bordo delle cose, pronto a scivolare giù e scappare, ma quella sedia non l’avrebbe mai permesso: mi risucchiò con il vaporoso spessore del cuscino, e mi ritrovai con i piedi che dondolavano nel vuoto.

    Non capii subito perché Libera pensasse che fosse successo qualcosa, ma ricordai presto che indossavo la felpa di Gio e che sul viso – che Libera voltò proprio come aveva fatto Gio– c’era il graffio lasciato dalla cerniera.

    «Degli stronzi, ecco cos’è successo,» disse lui, rispondendo ancora per me.

    «Le parole,» lo rimproverò Libera.

    Su quella sedia, ad ascoltare quello scambio così assurdo, senza sapere bene chi fosse Libera per Gio e dove fossi finito di preciso, le orecchie ripresero a ronzare a causa del panico. Forse Gio le avrebbe detto cosa credevano quei tre ragazzi. Le avrebbe spiegato che portavo una maglietta che era più di una maglietta, perché era rosa, mi stava stretta e diceva qualcosa di me. Le avrebbe detto che ero sbagliato. E lei magari mi avrebbe cacciato da quella casa piena di tessuti e colori, con la sua bocca interna spalancata sull’ignoto e il tè freddo a coprire di condensa i bicchieri.

    «Vai un po’ a prendere il disinfettante e i cerotti, piuttosto.»

    Le parole di Libera penetrarono le mie paure. Si era voltata verso Gio, i muscoli del collo tesi sotto la pelle ambrata, una catenina dorata che finiva sotto il vestito. Sospirai all’idea di aver guadagnato tempo per trovare una scusa, anche solo qualche minuto. Potevo dire che avevo indossato quella maglietta perché non ne avevo altre. Che mia sorella mi aveva costretto. Che era uno scherzo.

    Mentre elaboravo piani sempre meno credibili – le dita che strizzavano il lobo per esorcizzare la paura con il dolore fisico, fino a far arrossare l’intero orecchio –, Gio tornò con una scatola di plastica e la posò sul tavolo. Con movimenti sicuri, Libera la aprì e si mise al lavoro sulla mia faccia, voltandomi con una delicatezza salda che avrei poi riconosciuto in tutti i suoi gesti e in tutte le sue parole.

    «Hai avvertito i tuoi genitori che sei qui?» chiese, forse per distrarmi dal leggero bruciore del disinfettante.

    «Oh, sì che l’ha fatto. Ha un cellulare,» disse Gio per me.

    E l’avevo. Proprio come avevo tanti altri oggetti invidiabili, molto prima che li avessero i miei compagni di scuola. Come avevo un televisore in camera e una console per farmi battere da Eleonora e scarpe e vestiti e zaini nuovi ogni anno, con nuovi astucci e nuove matite. Su ogni cosa c’era il mio nome, perché quegli oggetti fossero sempre riconducibili al loro proprietario. Ogni matita, ogni quaderno, perfino dentro le scarpe.

    Il primo valore che mi era stato insegnato era il possesso.

    «I miei genitori tornano la sera e… se devono chiamarmi…»

    Strizzai più forte la carne fra le dita, ripiegando il lobo su se stesso per poi tirare e tirare.

    «Vedi?» disse Libera, parlando

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1