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Nocturnales: Le ultime giacobine
Nocturnales: Le ultime giacobine
Nocturnales: Le ultime giacobine
Ebook530 pages7 hours

Nocturnales: Le ultime giacobine

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About this ebook

Parigi, inverno 1795.
Dopo l’esecuzione dei robespierristi e la sconfitta dei Giacobini, la Repubblica è nel caos della reazione termidoriana; gli ideali di uguaglianza, libertà e fraternità sembrano solo un lontano ricordo e professarli è diventato pericoloso. Quattro donne molto diverse tra loro, ma che hanno condiviso le stesse battaglie e gli stessi affetti, si trovano a vivere in un mondo ormai a loro ostile dopo aver perso i loro affetti più cari. La giovane Élisabeth, vedova di uno dei robespierristi, fa la lavandaia per mantenere il figlio di pochi mesi. Henriette, amante di Saint-Just, dopo essersi rifugiata dai propri genitori, è costretta a sposare François, un medico privo di fascino e che lei non riesce ad amare. Charlotte, sorella di Robespierre, subisce il ricatto di un funzionario corrotto e senza scrupoli che minaccia la sua vita e quella di chi le sta vicino. Éléonore, sorella di Élisabeth e compagna dell’Incorruttibile, langue in carcere fra violenze e angherie perché non intende rinunciare ai propri valori.
Il destino fa rincontrare le quattro donne a Parigi, là dove erano state felici: scoprono così che il loro legame è ancora forte e che nessuna di loro ha abbandonato il sogno di un mondo migliore. E se proprio il ricordo del passato e l’amicizia, che le lega, fossero la chiave per continuare a lottare?
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2018
ISBN9788893124539
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    Nocturnales - Beatrice da Vela

    1

    Parigi, frimaio anno III (novembre-dicembre 1794)


    Due guardie giunsero per prelevarla. Ebbe giusto il tempo di ravviarsi i capelli e stringere il piccolo Philippe tra le braccia. Camminando scortata per i corridoi ammuffiti, sentiva su di sé gli sguardi delle altre detenute della prigione Lazare, mentre sussurravano pettegolezzi o offese. La sua era diventata la storiella più commovente (o più divertente, a seconda della bocca che la raccontava) di tutto il carcere: la ventiduenne madre e vedova, che a ogni costo rifiutava di dissociarsi dal nome infame del marito. Una piccola cittadina Capeto dei poveri!

    Cosa voleva ancora l’accusatore pubblico? Non avrebbe rinnegato nulla del suo passato, neppure se glielo avessero chiesto altre mille volte. I suoi ricordi e il suo nome erano gli unici beni che possedeva.

    Forse mi condanneranno a morte, pensò quando la fecero salire su un carro. Morire non la spaventava, ma non poteva lasciare solo il suo bambino. E non avrebbe mai avuto il coraggio di ucciderlo con le sue stesse mani.

    D’altronde, era probabile che il nuovo governo (manipolo di cani!) non avesse intenzione di giustiziarla, la sua vita non era poi così interessante agli occhi dei suoi aguzzini. Come le avevano detto più volte, era solo una sfortunata ragazzina che aveva sposato un traditore di second’ordine.

    Quanto le faceva male attraversare da prigioniera le strade del Faubourg Denis, sapendo che ogni metro l’avvicinava sempre di più a quella che un tempo era stata la sua casa.

    Faubourg Honoré, Sezione des Piques. Ebbe un tuffo al cuore riconoscendo le finestre del suo quartiere, i tetti spioventi così familiari: sembrava che il battito volesse fermarsi.

    La carretta infine raggiunse la Senna, la nebbia si fece più fitta e le colpì il viso. Strinse addosso a sé e al figlio lo scialle, unica protezione contro il freddo invernale. Davanti a lei si ergeva la struttura imponente e spaventosa della Conciergerie e del Tribunale rivoluzionario.

    Era insolito che l’avessero portata sin là. Quando volevano qualcosa da lei, un ufficiale le poneva le solite domande di rito alla Lazare. In quel posto, invece, era stata trascinata solo nel giorno disgraziato quando era stata arrestata, l’estate precedente. Le avevano lasciato solo tre giorni per il lutto e il dolore.

    Due guardie la fecero scendere, prendendola per le braccia, a gomiti alzati. Non le avevano legato le mani, per permetterle di stringere Philippe al petto. Pregò che suo figlio non si mettesse a piangere. Guardò in alto le colonne della Cour de Mai, da dove partivano le carrette dei condannati alla pena capitale. Nei giorni di esecuzione, si ammassava il popolo ai cancelli ferrati, gridando insulti e spesso lanciando frutta marcia ai disgraziati che attendevano la ghigliottina.

    Tremò entrando in quei corridoi bui, maleodoranti di sporcizia e di escrementi. Si udivano qua e là i lamenti dei prigionieri. Sì, era peggio che alla Lazare. Passare solo qualche ora là dentro, pensò, faceva diventare la prospettiva del patibolo migliore. Chissà che orrore, quale disperazione dovevano aver provato i suoi amici nelle ultime ore spese là dentro.

    Si fece coraggio, scacciò quel pensiero dalla testa: non voleva immaginare, non voleva ricordarli così.

    Con malagrazia, i due soldati la fecero entrare in una stanza più illuminata e pulita delle altre. Di fronte a lei stava seduto un funzionario sulla quarantina, con un vestito che un tempo doveva essere stato elegante, ma che adesso appariva logoro. La fece accomodare e allungò una mano per fare una carezza al bambino. Quell’improvvisa dimostrazione di umanità non le piacque.

    «Cittadina, ti devo interrogare,» asserì l’uomo con voce grave e impostata. Per tutta risposta lei fece cenno di sì con la testa.

    «Confermi di essere la cittadina Élisabeth Le Bas, nata Duplay?»

    «Sì, lo confermo, cittadino.» Sospirò.

    «Rinneghi,» le chiese spazientito, scribacchiando pochi appunti su delle carte ingiallite, «il nome di tuo marito, condannato a morte per aver partecipato all’orribile cospirazione del defunto tiranno Robespierre?»

    «Non rinnego niente e non lo farò finché sarò viva. E tale cospirazione non è mai esistita.» Nonostante Élisabeth avesse ripetuto quella stessa frase innumerevoli volte, si curò che il suo tono non perdesse di intensità e suonasse grave e solenne.

    «È tutto quello che mi occorreva sapere, cittadina,» concluse l’accusatore con sguardo torvo, annotando ancora alcune frasi. Lei ne osservò i lineamenti, cercando di intuire quale sarebbe stato il suo destino.

    «Sei libera, Élisabeth Le Bas. Prendi tuo figlio e vattene; qualcuno alla Convention National si ricorda di te. Ma poiché non ti penti, sappi che lo Stato non potrà aiutarti in alcun modo.» Era davvero libera? Non era piuttosto uno scherzo crudele?

    «Accompagnate la cittadina alla porta,» ordinò il magistrato, tornando a lavorare alle sue carte.

    Élisabeth si lasciò alle spalle il tribunale, scese in strada tremando. Baciò suo figlio sulle guance e il bimbo le rispose con un gorgoglìo.

    Il suo bambino non avrebbe trascorso il suo primo compleanno in carcere! Corse fino alla spalletta della Senna. Libertà, libertà! Pensava che non avrebbe mai vissuto quel giorno. Guardò il cielo plumbeo e le venne quasi da pregare.

    Dove andare adesso? Cosa fare? Nessuno della sua famiglia, almeno credeva, era stato ancora liberato. Aveva fame, era stanca, aveva bisogno di un bagno e di un cambio. Poteva tornare nell’ultimo appartamento in cui aveva vissuto con suo marito (ci avevano abitato così poco che non riusciva a considerarlo proprio), ma il pensiero di trovarsi nei luoghi dove erano stati insieme per un’ultima volta le riempì il cuore di morte. Sarebbe andata a casa dei suoi genitori, che sentiva fosse l’unico posto sicuro. Sì, lì avrebbe trovato un riparo, dei vestiti e forse qualche faccia amica.

    Sfidando il freddo con una ritrovata allegria, serrò ancora più stretto il piccolo al petto e si incamminò lungo il Pont Neuf. A passo svelto, senza fermarsi a riflettere, svoltò alla destra di quella che un tempo era stata la chiesa di Saint-Jacques, e tirò dritto verso il Palais Egalité. Evitò di passare per Les Tuileries: sarebbe stato troppo per il suo spirito stanco, troppe memorie felici erano rimaste là. Le voci della gente, il fango delle strade, persino le carrozze che rischiavano di travolgerla le sembravano un ritrovato paradiso. Ogni passo l’avvicinava nel luogo in cui era cresciuta.

    «Stiamo andando a casa, piccino mio,» sussurrava a ogni respiro della sua creatura. Nulla sembrava essere cambiato da quando aveva lasciato quella via.

    E perché avrebbe dovuto cambiare?, si chiese con amarezza. La maggioranza della gente, com’era stato dimostrato nel più feroce dei modi, non era molto interessata a chi la governava.

    A mano a mano che camminava, le sembrava che nella penombra dei tetti e delle piccole traverse un’amichevole folla di fantasmi le si facesse incontro infondendole coraggio. Sembrava che la chiamassero, poteva sentire le voci gentili dei suoi cari dirle: Bentornata a casa, piccola Babette.

    Si ritrovò inebetita davanti alla porta carraia che conduceva all’abitazione. Per un attimo, le sembrò che suo marito fosse accanto a lei, le toccasse con delicatezza la spalla e la baciasse sulla guancia, sussurrandole: "Mon amour".

    Con un movimento del corpo scacciò quelle visioni di un tempo più felice e varcò l’ingresso, mormorando a suo figlio: «Siamo soli, io e te, piccolo mio. Ma ce la faremo.» Senza l’andirivieni degli operai, senza più fiori nelle aiuole, senza rumore di attrezzi e di gente, la corte era spettrale. Sospirò.

    «Chi cerchi, cittadina?» Un uomo anziano, col cranio pelato e gli occhi miopi, la apostrofò con voce dura. «Che vuoi? Non c’è più nessuno qui, vattene!»

    «Ma sono io...»

    «Babette? Babette, sei tu?» L’uomo si avvicinò e la guardò ancora. «Félicité! Félicité, vieni fuori!» esclamò, chiamando la moglie con voce rauca.

    «Che vuoi, Charles? Lo sai che ho da fare... e tu sempre fuori a non far nulla! Oh, cuore di Marat, la piccolina!» gridò un’anziana signora dalle braccia robuste, il petto e la vita coperti da un grembiule liso e pieno di macchie. «E levati, Charles.»

    In un attimo Babette fu sommersa dal calore e dai baci della donna che le asciugò le lacrime con la manica della sua camicia. «Vieni, bambina, vieni dentro. Ma che bella creaturina che è diventato Philippe. Su, Charles, aprici la porta.» Entrarono dentro la casetta laboratorio. La fecero accomodare a un tavolo di legno, vicino all’unica stufa.

    «Hai le mani gelate! Aspetta, lo so io quel che ci vuole.» Félicité si allontanò per servirle un bicchiere di vino corposo e le prese il bimbo tra le braccia, cullandolo.

    «Temevamo di non rivederti più, piccolina.»

    «Non capisco. Ci hanno liberati stamattina. Io non ho rinnegato niente, niente!» precisò. Charles si accomodò a sedere.

    «Anche se tu lo avessi fatto, ne sarebbe valsa la pena, per salvare il tuo bambino,» la rassicurò.

    «Via, via, non son discorsi da fare questi. Ma dov’è tuo padre? E i tuoi fratelli?» la incalzò Félicité. Babette si coprì il viso con una mano e le lacrime ricominciarono a scendere.

    «Non lo so,» singhiozzò. "Ci hanno separate, a me e a Éléonore. Di lei non ho più notizie. Come di nessuno.»

    «Chissà quello che hai patito, piccina.» Le carezzò i capelli. «Hai fame? Hai mangiato?»

    «Non c’è molto cibo nelle prigioni.»

    «Neanche in città,» si lamentò Félicité. «C’è cibo solo per chi può comprarlo. Però forse qualcosa lo troviamo. Charles, metti su una pentola d’acqua.» La donna si alzò di nuovo, incapace di stare ferma, dalla madia prese un pezzo di pane rinsecchito e lo mise davanti alla sua ospite.

    «In che condizioni è la casa?» chiese ansiosa Babette, guardando Philippe che pareva inquieto.

    «Domani, quando si farà giorno, possiamo andare a vedere, se vuoi. Alcuni uomini della Sezione hanno inchiodato la porta con delle assi pesanti, per paura che qualcuno entrasse dentro a rubare. Dopo il vostro arresto gli scagnozzi del Comitato sono rimasti giorni a frugare dappertutto, non so cosa stessero cercando. Hanno perquisito anche casa nostra... che speravano di trovare? Noi non abbiamo nulla. Non abbiamo mai avuto nulla,» si lamentò Félicité, con le mani sui fianchi.

    «Prove che non esistono. Documenti. Lettere private,» borbottò Babette, pensando con tristezza che le guardie dovevano aver preso tutte le lettere che suo marito le aveva spedito quando erano ancora fidanzati. «Io e mio figlio abbiamo bisogno di un posto dove stare.»

    «Potete rimanere qui da noi, almeno finché la situazione non sarà un po’ migliorata. Almeno finché tuo padre non sarà libero.» Eventualità che sarebbe potuta accadere di lì a due giorni, un anno o mai, pensò lei. E se fosse già morto?

    «Vedrai, le cose dovranno cambiare in meglio.»

    «Mi è arrivato all’orecchio che hanno chiuso i Giacobini,» mormorò ancora Babette.

    «Sì, lo scorso autunno. Ma, sai com’è, non si può cambiare il cuore della gente con un decreto.» Félicité ammiccò, facendole capire a gesti che sì, potevano aver chiuso il club dei Giacobini, ma la gente in qualche modo continuava a riunirsi.

    «Avrò bisogno di un lavoro... come sfamerò Philippe?» continuò Élisabeth. Non era sicura di sentirsi ancora pronta per la politica. La giovane si afflosciò sulla sedia, sfinita: adesso che l’allegria per la libertà era passata, vedeva il futuro nero. Era una donna giovane, vedova, con un figlio a carico, i parenti e gli amici o morti o in galera. Era sola.

    «Ce la caveremo, come sempre,» borbottò Charles. «Anche se questa donna qua mi fa sentire inutile.»

    «Se fosse per te, camperemmo tutti di stenti! Sei vecchio e ci vedi sempre meno, chi vuoi che ti chieda aiuto per i mobili?»

    «Il problema è chi ha i soldi per pagare mobili nuovi o riparazioni, non la mia vista,» brontolò Charles, biascicando.

    «Io la mattina scendo alla Senna a lavare i panni dei ricchi. Ma oggi è decadì e non si lavora.»

    «Posso venire con te domani? Ci sarà qualcosa da lavare anche per me.» Félicité la guardò con un misto di scetticismo e compassione.

    «Vediamo come stai. Ai lavatoi c’è un umido che ti mangia le ossa e l’aria è una merda. Per Philippe non è un toccasana.» Babette sapeva che non era quella l’unica preoccupazione della donna. Félicité la conosceva da quando era in fasce, sapeva che, essendo la piccola di casa, era sempre stata trattata con la massima cura. Mentre sua sorella Éléonore dava una mano in bottega, lei non aveva mai lavorato se non in casa. E tutti la prendevano in giro per la sua salute cagionevole.

    «Il fiume non può essere più pericoloso del carcere.»

    «Povera piccolina... Vieni, ti ho scaldato un po’ d’acqua per sciacquare te e il bambino.» Félicité la invitò a seguirla in una camera buia. L’anziana versò l’acqua in un bacile e invitò la giovane a darsi una ripulita, mentre dall’armadio tirava fuori alcuni vecchi vestiti per avvolgere Philippe. «Al bambino ci penso io,» aggiunse. Babette tremò: non era abituata al fatto che altri si prendessero cura di suo figlio.

    «Non ho più tanto latte,» commentò. «È sparito quasi tutto quando...» Tirò su col naso per frenare le lacrime. Era riuscita ad allattare senza problemi fino al giorno seguente la morte del marito, ma quando aveva saputo che anche sua madre era stata assassinata, non aveva retto. I seni si erano come seccati, le facevano sempre male e, quando il latte ne usciva, non era più consistente come prima. Per settimane aveva avuto paura di far morire di fame il suo bambino.

    «Le donne che allattano non le dovrebbero mai subire, le paure forti.» Babette si tolse il vestito di dosso: erano mesi che non poteva lavarsi con un po’ d’agio. La stanza era fredda, ma non così gelida come la sua cella. Nel toglierlo, il vestito si strappò, tanto era consumato. L’acqua calda sulla pelle le fece piacere.

    «Sai cos’è che mi fa proprio infuriare? Che fino alla primavera scorsa la fila per il pane era lunga, mancava tutto e non si sapeva come tirare avanti. Però c’avevi la speranza. E poi vedevi che s’era tutti uguali: chi decideva, soffriva come noi. E se ne interessava, anche. Che se c’era un boccone in più, si divideva fra tutti. Ora invece il governo ci odia, a noi poveri diavoli. Hanno scatenato bande di perdigiorno che vanno in giro bastonando la gente onesta. E intanto i signori del nuovo governo vivono nell’agio e non manca loro niente, teste di cani!» Félicité dovette notare che si era intristita, perché rimase in silenzio, finendo di cambiare il piccolino. Che carattere dolce che aveva quel bambino! Fino a quel momento non aveva mai pianto, e anche con Félicité si era dimostrato socievole. Aveva davvero preso il meglio del padre.

    «Su, piccina, su. Mettiti uno dei vestiti di mia figlia, ti dovrebbero andare bene,» le disse la donna alla fine, accennando con il capo a un vestito verde chiaro che aveva lasciato sul letto.

    «Lei dov’è?» le chiese Élisabeth, mentre si metteva l’abito pulito. Che bella sensazione potersi lavare con acqua non gelida e vestire in modo decente.

    «La morte se l’è presa il mese scorso,» la informò Félicité. «Suo marito è morto al fronte, raggiunto da due colpi di baionetta. Lei non ha retto il dolore.»

    «Mi dispiace moltissimo,» si rammaricò Élisabeth, posando lo sguardo sul pavimento.

    «È stata egoista, mi ha lasciato con quei due poveri bambini. Io e Charles siamo troppo vecchi per star loro dietro,» sospirò Félicité. «Per fortuna Liberté è una ragazzina responsabile.»

    2

    Henriette sedeva nervosa al suo tavolo da toilette, pettinando i lunghi capelli biondo rame. Quante volte sua madre le aveva suggerito di tagliarli, di cambiare acconciatura, ché la sua era così antiquata. Una volta, stanca delle sue insistenze, le aveva risposto con una certa acidità se non avesse preferito che li portasse corti, à la guillotine , secondo la nuova macabra moda. Sua madre non aveva più toccato l’argomento per qualche giorno, ma, passato l’effetto della freddura, aveva ricominciato a insistere.

    Si guardò allo specchio, passandosi un po’ di acqua fredda sulle guance rosate e sugli occhi per rimuovere ogni traccia di emozione: qualche metro più in là, nello studio di suo padre, si stava decidendo, o si era forse già concordato, del suo prossimo futuro.

    François Cattant, il medico della città, si era recato in casa loro, quel pomeriggio, con l’intenzione di chiederla in sposa. Il dottore aveva quindici anni più di lei, ma non si era mai sposato perché, come sua madre non mancava di ripeterle, era stato impegnato prima negli studi e poi in una brillante carriera, dove per brillante si intendeva una lenta ascesa a una buona posizione sociale, senza mai esporsi troppo in politica. Henriette non lo trovava attraente con quei capelli sottilissimi e castani che già si ingrigivano, occhi grandi e miopi, sorriso timido sulle labbra sottili. E soprattutto, nessuna luce su quel viso, nessuna traccia di eroismo. Dove le altre donne di Frévent vedevano bellezza, lei vedeva a malapena decenza. Che ne sapevano loro della bellezza, loro che non avevano mai camminato per le strade di Parigi?

    Henriette sospirò: sapeva che non avrebbe potuto rifiutare quell’offerta. Nelle lunghe serate invernali l’unica consolazione di sua madre, che ancora vestiva di nero e portava il lutto per la morte del figlio maggiore, era stata quella di intrattenerla sulle virtù del suo corteggiatore.

    In ognuna di quelle lunghe serate, sua madre si sedeva vicino al camino, sulla propria poltrona, accarezzando la gatta Blanche; masticava tabacco, dava un colpetto lezioso di tosse ed esordiva dicendole quanto François fosse pieno di virtù: bello, buono, rispettoso, dotato di talento. Henriette ogni volta faticava a trattenere un risolino, quando la sentiva usare il termine virtù in un contesto così triviale, perché era abituata a sentir parlare di Vertu come senso civico, sacrificio, rettitudine morale e politica. Quanto erano diverse le serate passate al camino ad ascoltare sua madre dalle serate consumate fino a notte fonda in casa Duplay, discorrendo di politica, filosofia e letteratura!

    Henriette non voleva fidanzarsi, figuriamoci sposarsi! Non lo aveva mai desiderato. Se da figlia cadetta aveva sperato di rimanere zitella (sarebbe stato Philippe a tramandare il nome di famiglia), adesso per lei procreare era diventato un obbligo nei confronti della sua famiglia e della società. Tanto più che su Nicolas il matto, il fratello che le era rimasto, i suoi non facevano il minimo affidamento.

    Suo padre e sua madre non le avrebbero perdonato quella fortuna mandata dal Cielo: si era mai sentito di un uomo onesto, un uomo così dabbene che voglia in moglie una ragazza con una dote non ricca e l’onta di essere sorella di un condannato a morte? Quando suo padre aveva usato quell’espressione, condannato, Henriette era andata su tutte le furie. Martire era un termine che rendeva più giustizia alla vita di suo fratello.

    E poi c’era l’altra questione, quella che forse più di ogni altra cosa pesava sul cuore dei suoi genitori: chi avrebbe mai chiesto in moglie una donna che era già stata fidanzata con un altro? E che aveva vissuto con lui quasi come una moglie? E se forse, per un estremo atto di clemenza o piuttosto per le follie d’amore, un altro uomo fosse stato così generoso da chiederla in moglie, non avrebbe poi ritirato la parola data scoprendo che l’uomo al quale Henriette si era promessa era stato ghigliottinato come uno degli uomini più sanguinari sul suolo di Francia?

    Quei vili argomenti, che per prima cosa sminuivano lei come donna, mettevano in dubbio i suoi costumi e non ultimo compivano un affronto alla memoria di Antoine, la disgustavano.

    Quante volte aveva ripetuto ai suoi genitori che lei e Antoine non erano mai stati fidanzati? Ma no, le rispondevano, era lei che si sbagliava o rinnegava per la vergogna, perché suo fratello Philippe aveva loro assicurato più volte che sì, erano promessi sposi. La parola di una donna, anche se viva, vale niente al confronto di quella di un uomo, anche se morto.

    Era consapevole che la maggior parte delle donne, specie in una città di provincia come Frévent, erano dedite soltanto al pettegolezzo, essendo poi fornite di una certa fantasia, ma che sua madre credesse a quelle voci invece che a lei era un affronto e un dolore. Non aveva mai vissuto more uxorio con lui – così si figurava che le avrebbe detto Antoine con una risata cristallina, alzando un sopracciglio – e non aveva neanche mai vissuto con lui in senso stretto, perché anche le poche volte che si erano ritrovati sotto lo stesso tetto per una notte, l’una aveva dormito nella camera di Cornélie o di Babette, l’altro in camera di Robespierre, in camera sua o più probabilmente su un divano o una sedia in salotto. Insinuare che tra loro ci fosse stato un contatto più intimo di un baciamano formale o di un abbraccio voleva dire capire ben poco di entrambi.

    Due colpi secchi alla porta la destarono dai suoi pensieri.

    «Avanti,» rispose, cercando di sembrare ancora impegnata nella sua toilette.

    «Bambina mia.» Sua madre entrò, un fazzoletto ricamato stretto nella mano destra, il viso segnato da grosse lacrime rotonde. «François Cattant è appena uscito dallo studio di tuo padre, ha formalmente chiesto la tua mano e aspetta una tua risposta. Tuo padre gli ha detto che ha la nostra benevolenza.» Sua madre le andò vicina, senza toccarla. «Che giorno felice! Non credevo che nella nostra casa ne avremmo mai più visto uno!» Henriette sospirò, non riusciva più a stupirsi della completa indifferenza della madre ai suoi sentimenti. «Un uomo così affascinante e con una posizione così buona!»

    «Posso vederlo adesso?» chiese la giovane, senza riuscire a mimare il dovuto entusiasmo.

    «Certo, Henriette. Vieni in salotto.» Henriette si alzò e sua madre la squadrò da capo a piedi, per giudicare che fosse in ordine. La giovane sistemò le pieghe del vestito e seguì l’altra per il corridoio.

    François si era vestito come per le occasioni importanti: indossava una redingote color porpora, con un gilet ricamato e una camicia immacolata, pantaloni di camoscio e stivali lucidati. Unici ornamenti: la coccarda tricolore – François era suo malgrado membro dell’Hôtel de Ville – e una cravatta bianca annodata al collo. Col permesso dei genitori, l’uomo si avvicinò a Henriette e le baciò la mano.

    «Mademoiselle, sono venuto a chiedervi in sposa, col vostro consenso,» le disse, mentre un’incrinatura nella voce tradiva l’emozione.

    «E io sarò onorata di accettare,» rispose Henriette, con una voce graziosa, imitando alla perfezione un gesto che aveva letto più volte nei romanzi.

    «Voi mi rendete l’uomo più felice del mondo, mia diletta.» Le baciò la mano, le sue labbra erano calde e tremanti. «Purtroppo non posso trattenermi molto a lungo con voi, mia amata, impegni precedenti me lo impediscono. Sarei ben lieto di intrattenervi domani pomeriggio, col permesso dei vostri genitori, naturalmente.» Quelle formalità le tornavano strane: sembrava che a Frévent tutto fosse rimasto immutato da quando era partita, tre anni prima. Come se la Rivoluzione lassù al nord non fosse arrivata. A Henriette sembrò inusuale che lui avesse preso impegni per quella stessa sera... forse si aspettava un rifiuto?

    «Rimanete almeno il tempo di un caffè,» lo invitò Monsieur Le Bas.

    «Lo faccio subito portare,» si agitò Madame Le Bas, chiamando la cameriera. François fece finta di rifiutare, poi si rimise a sedere. Davvero bastava così poco a convincerlo?

    «Quando vorreste celebrare la cerimonia?» gli domandò Madame Le Bas.

    «Al più presto possibile.» François cercò gli occhi di Henriette. «Ovviamente nel rispetto dei tempi necessari affinché Henriette e voi abbiate il tempo di prepararvi e di decidere che cerimonia vogliate avere.»

    «Non ho grandi pretese, François.» Si rifiutava di chiamarlo Monsieur, tanto più che adesso erano fidanzati. «Mi dovreste conoscere abbastanza.»

    «Vedete, mia figlia è sempre stata una donna modesta,» la complimentò monsieur Le Bas. «Tuttavia per la nostra unica figlia, tanto più che va in sposa a un uomo del vostro valore, mia moglie e io vogliamo solo il meglio.» Henriette si perse quando sua madre, con ritrovata allegria, cominciò a parlare di vestiti, cerimonia e ricevimento. Lei si concentrò sulla cravatta à la Brute del fidanzato. Non gli aveva mai visto un accessorio così alla moda e, a dirla tutta, su un uomo tarchiato e col collo corto come lui, non stava neppure bene.

    «L’avete notata, mia cara,» le sussurrò François quando l’ebbe vicina. «Spero che questa piccola vanità vi abbia fatto piacere.» Le sembrò che gli fosse tremata la voce mentre parlava. Di sicuro, era arrossito. Fece del suo meglio per restituire un sorriso non troppo imbarazzato. «Sono sicuro,» continuò lui, «che saprete consigliare a questo povero provinciale come vestirsi un po’ più alla moda.» Detto da un’altra persona, sarebbe potuta essere una frecciatina, ma Henriette sapeva che François intendeva davvero farle un complimento. Eppure non riusciva a esserne contenta: perché le donne dovevano occuparsi solo di vestiti e frivolezze?


    Qualche giorno dopo Henriette accettò l’invito del fidanzato a uscire. «Forse non è stata una buona idea portarvi a passeggiare, Henriette.» François le serrò la mano guantata ancora più stretta. «Sono uno sciocco ad amare tanto la neve. Ma ho visto un po’ di sole... non vedete quanto siano stupendi i colori che si riflettono sul ghiaccio? È l’effetto del prisma, che ci fa vedere i colori di cui è fatta la luce,» le spiegò con entusiasmo. Lei, invece, vedeva i soliti alberi coperti di neve, il solito argine regolare, le solite case di arenaria rossastra col tetto a punta.

    «Vi piace sempre analizzare ogni cosa, vero?»

    «È questo che fa la scienza. Analizzare, scomporre, comprendere. Anche il nostro corpo, che per secoli ci è apparso così intero, altro non è che un insieme di parti che funzionano in armonia. E queste parti sono a loro volta un insieme di reazioni chimiche... Ma voi avete freddo e io vi sto annoiando, facendovi camminare nella neve.»

    «Non mi fa paura il gelo. E per favore, diamoci del tu. Questo voi mi imbarazza.» Si strinse di più al fidanzato. François le ispirava tenerezza, ma a lui non avrebbe fatto piacere sentirselo dire.

    «Siete... sei una donna molto forte. Per questo mi piaci molto,» la complimentò. «So che hai viaggiato e questo è raro in una donna di Frévent. Mi racconterai tutto quello che hai visto. E spero che un giorno non troppo lontano viaggeremo insieme.»

    «Allora stanca anche te questa provincia immobile,» si sorprese. «Io vorrei andarmene.» All’improvviso Parigi le mancò tanto che il respiro rimase a metà, poi si trasformò in un lamento: «Qui non cambia mai nulla.»

    «Ai tuoi genitori si spezzerebbe il cuore.»

    «I miei sono abituati a vedermi andare via. Siamo partiti tutti, prima o dopo. Loro, invece, sono troppo legati a questo posto. Per paura del viaggio non hanno mai conosciuto mia cognata né il loro primo nipote.»

    «Non ne conoscevo neppure l’esistenza.» Era vero, da quando era tornata a casa i suoi sembravano aver rimosso l’esistenza di Babette e del piccolo Philippe. Per la prima volta le si insinuò il dubbio che forse quel matrimonio combinato in fretta e furia ai suoi genitori non fosse poi andato tanto bene. Che suo fratello, avvocato, deputato, avesse sposato la figlia di una famiglia di origini umili. Poi era successo quello che era successo e forse il dolore aveva preso il sopravvento sui legami di sangue.

    «Mia cognata abita a Parigi, ma sono mesi che non ho sue notizie. So che è stata imprigionata. Le scrivo spesso, aspettandomi sempre una risposta. Per me è un’amica, una sorella. L’anno scorso da lei e mio fratello è nato un bambino. Anche di lui non so più nulla.» François si era fatto scuro.

    «Non oso pensare alla tua preoccupazione, al dolore che hai passato.»

    «Mi manca una parte della mia famiglia. E trovo innaturale che a mancare siano le persone più giovani. Non che voglia male ai miei genitori, non fraintendermi...»

    «Non è naturale che i giovani se ne vadano prima dei vecchi.» François le accarezzò la treccia. Henriette cominciò a tremare, invasa da una tristezza profonda che per troppo tempo aveva cercato di scacciare. E se si fosse inventata tutto? Se la Rivoluzione fosse stata solo un immenso sogno, stroncato la scorsa estate dalla lama della ghigliottina? In fondo lei era scappata da Parigi poche ore prima del disastro. Poteva ignorare la materialità di quelle morti: non le avevano riportato il cadavere del fratello, né lei aveva visto le teste degli altri. Poteva immaginare che in realtà non fossero morti, ma che tutti loro fossero ascesi al cielo, non solo in animo, ma anche in corpo. E poi l’animo era immortale, no? Sì, forse era stata tutta un’illusione mistica: la Rivoluzione, la guerra, la libertà e l’uguaglianza. C’era qualcosa di diverso in Frévent, dov’era nata e cresciuta?

    No. La Canche scorreva ancora verso il mare, l’inverno era rigido e nevoso... e le giovani donne come lei erano ancora costrette a sposarsi con un buon partito.

    «Non volevo intristirti. Vieni.» L’uomo la condusse fuori dal giardino. Varcarono la cancellata di ferro battuta, da cui pendevano due bande tricolori ormai scolorite dalle intemperie. «Andiamo a scaldarci con una cioccolata,» aggiunse, e le baciò una guancia. «Sei congelata.»

    «Non è colpa tua, François.» Attraversarono la piazza principale, al cui centro svettava un albero della libertà che pareva farsi beffe di quella che un tempo era stata la chiesa.

    «Come posso aiutarti?»

    Henriette ci pensò un po’, poi disse: «Vorrei che al nostro matrimonio ci fosse mio fratello Nicolas.»

    «Certo. Penso che, se gli scrivi subito, ce la possa fare a venire da Parigi.»

    «Mio fratello non è più a Parigi,» rispose secca. «Nostro padre l’ha mandato in campagna per curarsi.» François fu come percosso da una scossa elettrica.

    «Curarsi? Di cosa soffre? Perché tuo padre non mi ha mai accennato nulla? Eppure sa benissimo che me ne sarei occupato io volentieri e senza chiedere un soldo.»

    «La malattia di Nicolas è la Rivoluzione. Dopo che mio fratello è morto, anche Nicolas è stata arrestato, mentre si trovava in missione qui nel Pas-de-Calais. Mio padre, grazie a dei suoi amici, è riuscito a evitargli il carcere, con la promessa di allontanarlo dalla vita pubblica. Lo ha obbligato a una sorta di esilio da alcuni lontani parenti in campagna. E lì è caduto in una sorta di apatia. I miei mi danno il permesso di scrivergli, ma non di andarlo a trovare. Ogni tanto lo chiamano matto

    «Con me non avranno scuse. Andremo a trovarlo il prossimo decadì, diremo ai tuoi che lo voglio visitare.» Henriette abbracciò François e per la prima volta le sembrò di vederlo sotto una luce differente.

    3

    «T i trovo bene, cittadina Carraut.» Morel la salutò, offrendole il braccio. L’uomo, alto e robusto, era sempre di bella presenza, nonostante le ultimi vicissitudini gli avessero regalato vistose rughe attorno alla bocca e agli occhi. Di sicuro, non aveva perso l’impudenza: non si vergognò di squadrarla. Charlotte si sentì violata nelle sue mille identità: la zitella nipote di un povero birraio fiandrino, l’orgogliosa sorella di due convenzionali, l’innocente e patriottica sorella del Tiranno, costretta a usare il cognome della madre e non il proprio. Nessuna di quelle donne era per lei una maschera: si sentiva tutte quante.

    «Buonasera a te, cittadino Morel,» rispose con un tono secco e perentorio. Prese il braccio dell’uomo con riluttanza, ma quando questi accelerò il passo fu costretta a sorreggersi a lui per non cadere. Morel rise sotto i baffi folti, una risata cattiva e di scherno.

    «Lo vedi come hai sempre bisogno di me, Charlotte?» Lei serrò le labbra, sentiva la rabbia montare. Allo stesso tempo, tuttavia, sapeva di non poter fare altro che subire. Era così facile prendersela con una donna sola e senza protezioni!

    «Dammi quello per cui ci siamo incontrati.»

    «Con calma, cittadina. Direi che prima possiamo concederci una passeggiata insieme, no? Come due buoni amici.»

    «Noi non siamo amici.»

    «Hai ragione. Non potrei mai essere davvero amico di una donnetta che ha paura del proprio nome, no?» Le infilò le dita tra i capelli raccolti. Sentirsi toccare la faceva sentire ancora più sporca delle accuse. Si fermarono dal venditore ambulante, lui le acquistò una limonata. Charlotte non aveva voglia di berla, esitò.

    «Preferivi forse le arance come quel tiranno di tuo fratello?» le domandò il suo aguzzino con tono cattivo. A sentire quel dettaglio il cuore cominciò a batterle forte, così si guardò intorno. A nulla valeva ripetersi che non aveva pronunciato a voce alta il suo cognome. Nessuno avrebbe potuto riconoscerla per una battuta. Ma il suo aspetto... si strinse nelle spalle e si costrinse a bere la bibita acida. Lui la guardava con voluttà maligna. Non stava bene per una signorina essere guardata a quel modo!

    «Adesso potrei gridare il tuo nome a voce alta,» le urlò all’improvviso. Charlotte ebbe un sussulto e una parte del liquido colò dal bicchiere e finì sulla gonna. Non ebbe il coraggio di guardare Jacques negli occhi.

    «Comunque, per fortuna tua, non ho troppo tempo da perdere oggi con te.» Rise. «Cose ben più importanti mi attendono.» Le allungò una busta stropicciata con fare losco. Charlotte la aprì strappandone i bordi, poi lesse quel che c’era scritto non senza fatica.

    «Ma è pochissimo!»

    «Sono due mesi dello stipendio di tuo fratello. Non avrai pensato di riavere tutto e subito... La Repubblica è già troppo generosa a concederti qualcosa. Puoi sempre rinunciarci, se vuoi, sono convinto che la sua vedova accetterebbe senza troppe pretese.»

    «I miei fratelli sono entrambi morti celibi. Io sono la loro parente più stretta.» Si sentì avvampare. Ancora quel ridicolo pettegolezzo!

    «Mi risulta che una certa donna in carcere racconti una cosa diversa,» la aizzò ancora una volta Morel. L’antica gelosia l’aveva di nuovo invasa; Charlotte sapeva che la sua reazione era stata uno dei pettegolezzi più gustosi dell’anno II, tutta la Convenzione conosceva bene i suoi clamorosi dissapori con Françoise Duplay, presso la cui famiglia Maximilien alloggiava. Più volte i vicini avevano sentito le due donne litigare a voce così alta che dalla strada si potevano sentire le urla e le recriminazioni. E che cosa potevano mai contendersi le due megere se non l’onore di ospitare e prendersi cura dell’Incorruttibile? Come se non fosse bastato già quel dongiovanni di Augustin con le sue avventure romantiche a darle motivo di preoccupazione.

    «Éléonore Duplay può sostenere quello che vuole, ma sono solo le fantasie di una povera ragazza. Non c’è mai stato alcun fidanzamento, figuriamoci un matrimonio, poi!» esclamò infervorata. «È tutta colpa di quell’intrigante di Françoise Duplay, pace all’anima sua naturalmente, che andava in giro a diffondere queste calunnie e a metter strane idee in testa alla sua povera figlia,» continuò Charlotte con la ferocia di chi infierisce sul nemico ormai prostrato a terra. Morel scoppiò in una risata.

    «Quanto astio contro la povera ‘Cornelia Truciolo’. Riesco sempre a farti raccontare storie molto succulente.» Charlotte si morse le labbra. Ogni volta cadeva in quella trappola. E sapeva bene che ogni più piccola informazione che si fosse lasciata scappare sarebbe stata usata a discredito della sua famiglia. Morel la congedò baciandole le mani e incamminandosi veloce verso l’Assemblea Nazionale.

    Rimasta sola in mezzo ai giardini, si sentì soffocare. Doveva arrivare al ponte più vicino, attraversare, tornare a casa. Per uscire, la via più diretta sarebbe stata attraversare il vasto spazio aperto di fronte a lei.

    No, troppo pericoloso. Si sentiva osservata, spiata, aveva paura di ogni faccia le si facesse incontro. Si portava continuamente la mano destra alla testa, con uno scatto, come se qualcuno le stesse tirando i capelli. Sobbalzava a ogni rumore.

    Quelle sensazioni non l’avevano abbandonata più, da quella notte di Termidoro, e ora aveva timore che qualcuno la riconoscesse e l’aggredisse. Aveva paura che qualcuno si scagliasse contro di lei con sputi e con insulti, che una folla inferocita la travolgesse e la facesse a pezzi. Non era quello che era successo alla sua vecchia nemica Françoise Duplay? Trucidata in carcere dalle altre detenute perché amica del Tiranno. Svestita, oltraggiata, picchiata e graffiata finché non aveva smesso di respirare. E poi, per sommo spregio, il cadavere impiccato a una corda di stracci appesa alle inferriate, lasciato lì in bella mostra per due giorni finché le guardie non l’avevano tirato giù e buttato in una fossa comune.

    Perché lei avrebbe dovuto aspettarsi un trattamento diverso?

    Per quello quando i soldati erano venuti a prenderla l’estate precedente, quando l’accusatore pubblico le aveva chiesto di rinnegare la propria famiglia in cambio della libertà e di denaro, aveva detto sì. Senza esitazioni, per uscire fuori da quell’inferno prima di uscirne cadavere. Sapeva che non avrebbe resistito un solo giorno alla vita in prigione. Sapeva anche che i suoi fratelli, che Dio li abbia in gloria!, non sarebbero venuti a saperlo. E poi, trattandosi della sua sopravvivenza, l’avrebbero di sicuro perdonata.

    E certo quella scelta, adesso lo capiva, l’aveva esposta a un nuovo pericolo. Era stata ingenua a pensare che ottenere l’eredità che le spettava (gli stipendi che Maxime non aveva mai ritirato) sarebbe stato semplice. Era caduta dritta nelle mani dei nemici dei suoi fratelli, che potevano ricattarla minacciando di rivelare la sua vera identità o costringerla a dire quello che non voleva per infangare la memoria dei suoi cari. Così non solo i nemici la taglieggiavano, ma i pochi amici rimasti fedeli la guardavano con odio. Per il momento poteva ritenersi fortunata che, a quanto riportavano le voci di quartiere sempre ben informate su tutto, quella furia incarnata di Éléonore fosse ancora in carcere; se si fossero incrociate per strada, la giovane sarebbe stata la prima a cavarle gli occhi.

    Eppure lei di quei soldi non poteva fare a meno.

    Le mancò il respiro, sentiva la gola stringersi in un nodo. Fu costretta a fermarsi. Quando la notte era assalita da quegli attacchi, recitava le preghiere che aveva imparato da bambina finché non si addormentava, ma adesso era così confusa che non riusciva a cominciarne nessuna. Era come se potesse sentire i rimproveri duri di Maxime, con la voce sciupata che aveva suo fratello nelle ultime settimane di vita: «Charlotte, mi hai deluso anche stavolta, non riesci mai a imparare niente.» La stessa frase che lui le rivolgeva anni prima, quando le correggeva i compiti o la rimbrottava per aver sbagliato a coniugare un verbo.

    Lasciò andare la testa in basso, respirando forte. Guardò le ombre delle foglie sul selciato

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