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I ricordi della mamma
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I ricordi della mamma

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Ida Maria Manara fa rivivere tra le pagine di questo libro i ricordi della sua infanzia e della prima giovinezza, quelli che hanno definito la sua identità e il mondo che la circondava. La memoria, “come un pozzo”, li riporta a galla, anche se la vita ha condotto l’autrice lontana dalla sua solida terra d’origine, da Figino Serenza (in Brianza), all’affascinante Sicilia (ad Aci Castello). Impossibile dimenticare le proprie radici, gli affetti cari e i luoghi attraversati, le tradizioni e i costumi, gli aneddoti bizzarri e le monellerie, i profumi e i sapori che emergono da racconti dolci, simpatici o che stimolano la riflessione. Impossibile anche cancellare dalla memoria l’orrore della seconda guerra mondiale, la paura, la fame e il freddo. 
Con il cuore colorato dalle sfumature verdi della sua Brianza del passato e da quelle azzurre della Sicilia del presente, l’autrice descrive intensamente ciò che i suoi occhi di bambina hanno osservato, l’amore per i suoi genitori, per un’amica speciale, per la sua “Isola Felice”, per un’epoca in cui si era più ricchi pur essendo poveri e in cui vi era una forte speranza del futuro. L’opera è una preziosa testimonianza per tutti i lettori e un dono speciale per la famiglia di Ida Maria.

Ida Maria (Duccia) Manara è nata a Figino Serenza (Como) nel 1931. Ha trascorso una vita dedita interamente alla famiglia. Ha seguito il marito nei suoi spostamenti di lavoro da Villadossola a Napoli, fino a Catania. Condividendo le stesse passioni per la natura, insieme, hanno educato i figli a rispettarla e amarla. Appassionata delle bellezze e delle ricchezze italiane, ha deciso di scrivere le emozioni e i ricordi che scaturiscono alla loro vista.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9788830672925
I ricordi della mamma

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    I ricordi della mamma - Ida Maria Manara

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Ai miei figli

    La memoria

    La memoria è come un pozzo.

    I ricordi sono gli anelli della catena avvolta all’argano che serve per calare il secchio e attingere l’acqua.

    È sufficiente imprimere movimento al primo anello che la catena si srotola. Ogni anello, un ricordo.

    E giù, e giù, sempre più in profondità va il secchio e più riporta in superficie la tua vita.

    A volte è acqua amara, ma è pur sempre acqua che ti disseta.

    È la vita, è la tua vita che ti si para innanzi...

    Non ci sono ricordi che emergano in ordine cronologico e cerco di trascriverli così come giungono, altrimenti vanno perduti, sicuramente per sempre.

    Forse ci saranno inesattezze, ma sono involontarie, dovute ai tanti anni che sono trascorsi nel frattempo e dalla tenera età in cui i fatti sono avvenuti.

    Alcuni sono sfumati e dolci, come gli affetti per le persone care e il paese natio, altri sono incisi e marchiati nella mia memoria, come la guerra, la paura, la fame, il freddo.

    Non ho lasciato spazio alla fantasia.

    Non ho velleità letterarie ma solo il piacere di scrivere.

    Ho scritto per essere letta dai miei familiari, confidando nella loro curiosità e benevolenza e, rileggendomi, ho trovato me stessa, i lati del mio carattere che credevo incisi nel mio DNA e invece sono scaturiti da quella piccola cellula chiamata Figino Serenza.

    Ho imparato a conoscere i miei limiti, a subire le conseguenze delle mie azioni.

    Ho imparato a rispettare i miei consimili nell’intento di essere rispettata.

    Ho imparato ad amare e rispettare la terra, affinché si possa godere dei suoi preziosi frutti.

    Ho imparato ad amare per essere amata a mia volta dagli animali.

    E non voletemene se metto l’articolo davanti ai nomi propri, come si usa nella mia amata Brianza.

    La vita mi ha portato in Sicilia, in questa terra così antica da dare le vertigini e, in quanto tale, così affascinante da non potersene più staccare.

    Dalle mie finestre vedo il mare e mi incanto quando osservo le onde e quando le nuvole disegnano sulla sua superficie giochi di luci e ombre.

    Vedo il vulcano, l’Etna, sempre così inquieto, volubile e a volte terrificante.

    È inevitabile il confronto tra le due terre così diverse.

    Entrambe ne escono vincitrici: una per la sua staticità che garantisce sicurezza e solidità, l’altra per il suo dinamismo simile all’avventura.

    Poter vivere intensamente il presente e far affiorare i ricordi di un ambiente natio così diverso, con serenità e gioia, la ritengo una grande fortuna e privilegio.

    Amo queste trasparenti e velate ombre di persone e cose del mio passato. Le conservo nel mio cuore come cose preziose.

    Sensazioni d’infanzia

    Evanescenti ombre

    di volti amati

    soffusi di dolcezza,

    sfumati sorrisi e teneri abbracci

    nel mio fluttuante ricordo.

    In un mondo fido

    resta sospeso il tempo

    sull’armonia di flebile canto

    e di sbiaditi magici colori.

    Angelo, mio marito, si è sempre interessato ai miei ricordi di bambina scavezzacollo in quanto, essendo quasi mio coetaneo, erano molto simili a quelli della periferia di Milano, Rogoredo, dove lui è nato.

    Mi ha sempre incoraggiata a scrivere.

    I nostri figli maschi invece non hanno mai avuto nessun interesse o almeno non l’hanno mai dimostrato. Credo che non abbiano nessuna idea di ciò che ho scritto e di come l’ho scritto.

    Andrea è un grande lettore e con lui mi inchino davanti a tutti i più grandi autori del mondo.

    Ma i miei ricordi sono personali e pertanto valgono solo per questo. Una cosa ha fatto che smentisce il suo disinteresse. Sapendo di quanto dolore mi causasse alle dita – afflitte da artrosi – la scrittura a mano, mi ha regalato il computer e grazie alla tastiera dal tocco lievissimo le mani non hanno più sofferto.

    A Paolo puoi chiedere di tutto, ma non di ascoltare la lettura di un mio racconto. A lui piacciono i lavori manuali e pratici, perciò ho desistito dal mio intento pensando che, insistendo, gli avrei inflitto una punizione immeritata ma, forse, non sono stata in grado di interpretare i suoi veri sentimenti. Il contenuto dei miei scritti è come se fosse una eredità che, in quanto tale, è sinonimo di perdita, di dolore che non vorrebbe mai provare in un futuro purtroppo inevitabile. Sono certa che mi... leggerà.

    Luisa. Crescendo ha dimostrato di avere un grande interesse per il passato dei suoi antenati e dei suoi genitori e si è sempre divertita e compiaciuta nell’ascoltare le mie letture che per lei avevano il sapore di favole.

    Capisco la sua passione perché a me è mancato molto il non sapere quasi nulla dei miei avi. Le sono tanto grata per il suo entusiasmo.

    Ringrazio Andrea e Paolo per il loro apporto tecnologico senza il quale non mi avrebbero chiamata, con un pizzico d’ironia, la nonna multimediale.

    Ragazzi, vi voglio bene!

    Mamma

    Gli stivali

    È da tanto che Luisa desidera un bel paio di stivali.

    La spesa è notevole e quindi acconsente che l’accompagni per la scelta. Nella centralissima via Etnea le vetrine brillano di luci. Tutto ciò che è esposto è bello e invitante. C’è prosperità, pare, perché i prezzi sono alti ma la gente compera e non solo l’indispensabile. Luisa ha adocchiato ciò che le piace, entriamo nel negozio e chiede l’articolo prescelto.

    La commessa le porge uno stivale che poi passa in mano mia.

    Accarezzo la pelle morbidissima del gambale. So di aver avuto già questa sensazione. Ma quando? Ecco, lontano nel tempo... Il colore era nero.

    Erano gli stivali di mio padre.

    Li indossava nelle grandi occasioni politiche, quando era d’obbligo la divisa. Erano il suo orgoglio assieme all’orbace. Esigeva che fossero ben lucidati e splendenti, pronti per ogni evenienza.

    Mio padre era un uomo estremamente buono, non era capace di far del male a una mosca. Non aveva nemici e se anche ne avesse avuti sapeva spendere sempre, come giustificazione, una buona parola per loro.

    Aveva trovato nel fascismo il suo ideale. Il dovere di ognuno per il diritto di tutti diceva sempre. Era rigoroso nel compimento dei suoi doveri e viveva tranquillo di sapere che i suoi diritti erano rispettati da tutti.

    Era un puro di cuore!

    La mamma, conoscendo i suoi desideri, lucidava gli stivali con cura, pur non condividendo le sue idee politiche.

    Mantovana, aveva visto gli squadristi somministrare l’olio di ricino ai suoi compaesani e usare il manganello senza misericordia. Detestava il fascismo in tutte le sue manifestazioni. Ciononostante, riponeva gli stivali con cura e spazzolava l’orbace attenta che non si sciupasse la frangia. Amava mio padre. I suoi dolcissimi occhi azzurri l’avevano ammaliata.

    Da tempo, quando compiva questo rito, la vedevo assorta, troppo assorta per il suo carattere dinamico, presente, sempre pronto alla realtà.

    Era stato un anno di fame e di freddo, non c’erano più indumenti né vecchi né nuovi.

    Solo la sahariana, la divisa femminile, odiata senza misericordia, pendeva dalla gruccia nell’armadio, quasi nuova. Era obbligatorio indossarla nei cortei ed era nera di panno ruvido, sgradevole al tatto.

    Il colore non si addiceva al suo pallore che, non so, se provocato dalla rabbia o dalle privazioni.

    Le sue attenzioni erano tutte per noi, trascurando se stessa.

    E noi ragazzi eravamo cresciuti. Il mio ultimo paio di scarpe, acquistato a borsa nera, con mezzo stipendio di mio padre, era durato una settimana. C’era l’autarchia, erano di cartone pressato e in quei giorni era piovuto. Dopo una strana dilatazione si erano sfasciate.

    Mio fratello andava avanti con un robusto paio di stivaletti anteguerra, acquistati con criteri di comodità e durata (ero ignara che l’anno seguente sarebbero toccati a me).

    Mio padre aveva ancora qualcosa di vecchio, risparmiato dal poco camminare, ahi i calli!

    Invece mia mamma, che era quella che camminava di più, era ridotta molto male a scarpe e io ero a piedi nudi letteralmente.

    Un giorno decise di sacrificare gli stivali del papà. Li portò dal calzolaio. Vedevo che egli se li rigirava tra le mani. Li guardava sopra e sotto, di fianco, li tastava da intenditore. Dopo un lungo conciliabolo a mezza voce, si misero d’accordo.

    Ci vennero prese le impronte dei piedi su di un giornale, Il popolo d’Italia, furono fatte accurate misurazioni e fu definito il prezzo del lavoro.

    Dal piede e dalla suola si sarebbero ricavate le scarpe della mamma, dal gambale con una nuova suola, le mie.

    Per me tutto ciò che faceva mia madre era ben fatto, perciò, a tempo perso, mi ero appassionata davanti al lavoro al tombolo della moglie del calzolaio.

    Il ticchettio dei oss, i fuselli di legno di bosso che dava loro la sonorità mi affascinava come una musica, mentre guardavo stupefatta i denti terribilmente storti della figlia.

    Mi allettava il pensiero di avere un paio di scarpe nuove e nell’attesa saltellavo felicemente fino a casa sugli ultimi zoccoli rimasti.

    Oggi penso che, non ultima, era la gioia di non sentire più il freddo ai piedi.

    Il giorno desiderato venne abbastanza presto. Anche per il calzolaio che da tempo non faceva che rattoppi era stata una felicità, il pensiero di lavorare vera pelle e così bella per giunta e per soddisfazione di mestiere si era messo subito di lena, al lavoro.

    Le scarpe erano pronte!

    Con una certa emozione calzai la prima, andava bene. Poi, subito dopo, la seconda. Mia madre era in attesa ansiosa del mio responso. Sì, andavano benissimo, morbide che erano una meraviglia. Che bellezza!

    Cominciai a fare evoluzioni, spostando i piedi in tutti i sensi. Confermato, tutto bene!

    Venne la volta di mia madre. Per lei non fu la stessa cosa. Ebbe qualche difficoltà a infilarle. Le sentiva un po’ rigide, ma le domerò! disse decisa, sfoggiando il suo carattere di donna forte e indomita. Pagò il pattuito al calzolaio e tutti furono contenti.

    Mio padre vide le scarpe e si complimentò; da tanto che erano belle e di buona fattura, non volle nemmeno sapere quanto fossero costate.

    Io correvo, finalmente, senza paura che si disintegrassero. Non risparmiai un paio di pedate a un ciottolo.

    Mi accontentavo di ciò che avevo avuto anche se ci sarebbero voluti magari un cappottino nuovo o qualche cosina in più da mangiare. Ma ero felice.

    Molto di meno la mamma che, con tutta la sua forza di volontà, non era riuscita a domare le sue calzature. Ricordava con odio i cortei, la divisa, gli stivali. Anche così mi fanno imprecare!.

    Se non l’avessi sentito dire da lei, non l’avrei mai immaginato.

    Quando la vedevo riporre con sguardo attento gli stivali, credevo che fosse amore, invece li odiava, covando il misfatto.

    Venne un sabato pomeriggio, certamente un Sabato Fascista.

    Il corteo doveva sfilare per le vie del paese. Per nessuna cosa mio padre vi sarebbe mancato e cominciò per tempo i preparativi.

    Era una vera e propria vestizione. Camicia nera, pantaloni grigio-verdi a sbuffo, cinturone, giacca sahariana e vari distintivi, medaglie e fronzoli.

    Girava in calzettoni per la casa aggiungendo al suo abbigliamento ora questo, ora quel capo.

    Vedevo che indugiava più del solito nel compimento di questo rito.

    «Dov’è la mamma?»

    «Non lo so» rispondevo e passava altro tempo.

    Un certo nervosismo cominciava a trapelare nei suoi pur sempre calmi occhi azzurri. Andava in camera da letto, usciva, vi ritornava...

    Quando Dio volle, era già un po’ tardi, il corteo probabilmente si stava già snodando per le vie del paese, tornò mia madre, carica di spesa, stanca per la fatica e sbuffante per le scale fatte di lena.

    «Maria, dove sono i miei stivali?» chiese a mia mamma.

    «Hai cercato bene?» domandò lei a sua volta.

    «Sì, saranno almeno due ore che li cerco» replicò.

    Ecco perché andava e veniva dalla stanza senza dire nulla e io che non capivo...!

    Da questo breve dialogo intuii che dense nubi si stavano profilando all’orizzonte. Non esistevano altri vecchi stivali che potessero sostituire i sacrificati. La mamma non l’aveva avvertito delle sue intenzioni e ora ci si trovava di fronte al fattaccio compiuto.

    Impossibile sostenere qualsiasi scusa o finzione e la verità venne a galla.

    Rivedo mio padre come in una fotografia, in una perfetta inquadratura nel vano della porta, vestito di tutto punto, con l’orbace dalla frangia ben pettinata in testa e ai piedi i calzettoni, gli occhi azzurri sgranati e increduli...

    Mi stavo vergognando delle mie scarpe morbide. Volevo molto bene a mio padre e non so quanto avrei dato purché lui avesse ancora i suoi stivali. Scappai fuori di casa per non sentire gli urli e strepiti che saranno inevitabilmente seguiti.

    L’immagine di mio padre diventa evanescente, fino a scomparire. Mi resta questa sensazione di morbido, sto accarezzando il gambale degli stivali che Luisa ha scelto. Sento che chiacchiera entusiasta con la commessa. Le vanno bene. Pago e ce ne andiamo.

    Sono bastati gli stivali a far affiorare ricordi come onde in balia del vento, veloci e inarrestabili. Ora ho davanti l’immensità del mare, ma la mia mente è capace di trasformare l’immagine nella grande pianura verde della mia Brianza, fino a Milano.

    ... campagne coltivate con amore.

    ... le cascine che, come una corona, circondavano il paese.

    ... la storia di un decennio della mia vita che è stata anche la storia d’Italia, più o meno dal ‘35 al ‘45.

    Ecco, la Storia!

    È documentata da carte, libri, ma viene scritta e letta a seconda delle proprie ideologie. Testimoni oculari non ce ne sono quasi più. A uno a uno, amici e nemici, se ne sono andati per non tornare. Vorrei raccontare il mio vissuto di questo periodo e del mondo che vedevo con i miei occhi di bambina, di come eravamo ricchi quando eravamo poveri, di quando avevamo una forte la speranza nel futuro, di quando i bambini erano bambini.

    Oro alla Patria

    Guardo la fede di mia madre, è di oro giallo e, si vede, consunta negli anni dall’uso quotidiano. Alla sua dipartita le è stata sfilata, cosa che non era riuscito a fare Mussolini nel lontano ’35.

    La mamma ha sempre avuto un carattere battagliero, pronta ad apprezzare qualità interiori, bontà, educazione e signorilità delle persone che frequentava, ma ostile e acerrima nemica di coloro che riteneva presuntuosi, ignoranti e, aggiungeva, imbecilli.

    Primeggiavano fra questi i caporioni fascisti.

    Era antifascista dichiarata, senza fare comizi, era l’unica in paese che professasse le sue idee e, a ogni occasione che si presentava, metteva a segno, con una battuta micidiale, un colpo al partito fascista. Era solita apostrofare Mussolini con un fiol d’un can, alla mantovana, a ogni suo discorso o adunata oceanica a Piazza Venezia.

    Il suo carattere indomito ribolliva a ogni circolare del partito che impartiva ordini didattici. Regolarmente trovava nella lettera diversi errori grammaticali, bestialità, come diceva lei, per cui rifiutava di adeguarsi ai comandi, ritenendosi agli ordini solo del Provveditorato agli Studi.

    Quando diceva no era no. Era stata la maestra già di un paio di generazioni di figinesi.

    I più erano stati suoi scolari; gli altri avevano figli o nipoti sotto la sua valente guida. Bisogna dire, a favore dei paesani, che nessuno mai le aveva fatto del male denunciandola, forse più per paura che per convinzione, di mio padre, gran buon uomo e stimato da tutti, ma così fascista... e forse anche per affetto e riconoscenza.

    Raccontava che, giovane maestra ancora supplente, si sentiva odiata da una superiore. Le venivano inflitte angherie e soprusi, al che si disse: basta! Al primo conflitto sostenne lo sguardo cattivo dell’avversaria con il suo, di sfida, quanto mai bellicoso, fino a costringere la nemica a guardare per terra. Per lei fu una grande vittoria perché da allora fu sempre rispettata, anche se lo sforzo le costò un travaso di bile che la rese gialla per due mesi.

    Gli italiani erano stati ammaliati, salvo pochissimi, dall’atteggiamento di Mussolini.

    Aveva fatto tante cose buone per l’Italia in tempo di pace: in primis la lotta contro la tubercolosi, poi a seguire, la bonifica delle terre

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