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La Nueva Olympia
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Ebook310 pages3 hours

La Nueva Olympia

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About this ebook

È il racconto di Spiratos, un bambino abbandonato dalla madre presso una zia avara d'affetto. Poi, da giovane adulto fa una scelta sbagliata che, da un lato, lo porta a conoscere un amore, forse della sua vita, ma lo obbliga anche a fuggire. Riesce poi a costruirsi una vita come giornalista e fotografo freelance. Lui ama il suo lavoro e, allo stesso tempo, è in cerca di una donna, quella speciale per lui. Ma invano. Fino a che...
Si tratta di un romanzo che assomiglia poco a un romanzo. Forse, più che altro a un film.
La storia copre, essenzialmente, un arco di tempo di venticinque anni, dal 1972 al 1997 ed è ambientata a Milano, Venezia, Spagna, Marocco, Giordania e in altri luoghi d'Europa.
La narrazione si sofferma sui fatti salienti che riguardano il protagonista, Spiratos Katapotis. Fatti che, come fossero sedicesimi tipografici, sono rilegati, da un filo. Che è costituito dalle chiacchiere tra lui e Norman, il professore che gli dava ripetizioni di latino, quando era ragazzino. E che ora è un amico, un mentore e un padre che il protagonista non ha mai avuto.

LanguageItaliano
Release dateNov 21, 2022
ISBN9781005100384
La Nueva Olympia
Author

Massimo A. Rossi

Journalist and photographer. I like to tell stories with words and pictures. Old cameras and very used shoes.

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    Book preview

    La Nueva Olympia - Massimo A. Rossi

    Smashwords Edition

    Copyright 2021 - 2023 Massimo Angelo Rossi

    Tutti i diritti riservati

    Colophon

    In copertina foto di Massimo A. Rossi

    Venezia, Sestiere Cannaregio, immagine riflessa dall'acqua di un rio

    ****

    Personaggi e fatti, qui raccontati, sono frutto della mia fantasia. Fanno parte di un mio personalissimo film. Qualsiasi riferimento a persone e a situazioni reali, del presente o del passato, sono accidentali e casuali.

    Indice

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d'uso

    L'autore

    Copertina

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Ringraziamenti

    Licenza d'uso

    Nessuna parte di questo libro o ebook può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con

    qualsiasi mezzo, senza l'autorizzazione scritta dell'autore.

    Tutti i diritti di copyright sono riservati.

    L'autore ringrazia i lettori che hanno rispetto del suo lavoro.

    L'autore

    Sono giornalista professionista, fotografo e scrittore. Per diversi anni sono stato redattore ordinario in diverse testate di una importante casa editrice. Poi ho scelto di essere free lance. Per fare quello che credo sia il mestiere più bello per me: raccontare storie con parole e immagini.

    Così, nel tempo, ho collaborato con quotidiani, settimanali, mensili, italiani e stranieri (circa ottanta testate) e con agenzie fotografiche.

    Su carta, quando gli ebook non esistevano, ho pubblicato tre libri. Il rinoceronte: storia. simbologia, leggende, tradizioni, Arnoldo Mondadori Editore (AME), 1991. Sempre per AME, insieme a un collega, L'abc del ballo (1997) e L'abc del ballo moderno (1998), manuali pratici, con mie foto, arricchiti da informazioni storiche e di costume. Questi due libri, dedicati a chi ama ballare, sono stati tradotti e pubblicati in Francia e in Russia.

    Come ebook, con Smashwords Edition, ho pubblicato: I lillà dello Zar (2012), un thriller ispirato a una storia vera, ambientato quasi tutto in Russia; Nostalgia a sonagli (2013), poesie e brevi racconti d'amori vissuti, sfiorati o sognati; Lezioni di creatività (2015), manuale pratico per accrescere la nostra creatività; Farewell Forever (2019), romanzo brevissimo d'amore.

    Questi ebook, oltre che sul sito statunitense di Smashwords, si trovano sui siti italiani kobo.com e mondadoristore.it

    E adesso pubblico questa nuova storia: La Nueva Olympia.

    Per contattarmi e leggermi

    mail to: mar@journalist.com

    https://smashwords.com/profile/view/marrossi

    Cover

    Prologo

    NORMAN,

    UN AMICO CARO

    "Ora devi iniziare. Scrivi, forza!"

    "Ma che cosa devo raccontare, secondo te?"

    "La tua storia. Quella che hai in testa adesso. Ciascuno di noi ha almeno una storia da raccontare. Magari più di una".

    "Ma la storia di cui ti ho parlato è fatta di episodi slegati tra loro. Ogni storia è un romanzo, è un film."

    "Ne sei proprio sicuro? Secondo me questo è quello che credi tu. Dalle pagine sparse che mi hai fatto leggere, sembra così. Sono certo che sotto, sotto lo sai già.

    "Vedi, uno scrittore, un poeta, un cantautore finiscono sempre per parlare di una sola storia. In apparenza, ogni racconto, ogni poesia, ogni canzone, ogni episodio, sembrano storie slegate. In realtà è sempre la stessa storia, vista con angolazioni diverse, con inquadrature diverse, in epoche diverse. Ogni storia ha facce diverse."

    "Un po' come i quadri di Picasso quando si è votato al cubismo?"

    "Giusto! In uno stesso quadro dipingeva un viso visto da più angolazioni. Tu, sai che cosa intendo. Per un giornale una storia la si scrive e la si fotografa. E per scrivere un pezzo bisogna rispettare regole precise, perché l'importante è dare le informazioni in modo leale e corretto. Magari con punti di vista inconsueti. Se poi prendiamo la maggior parte delle singole foto scattate in un fotoreportage, ciascuna di esse racconta solo un pezzetto di quella storia. È un dettaglio che resta lì, sospeso. Ma se mettiamo insieme tutti questi pezzetti, ecco che magicamente c’è tutta la storia: un mosaico. Questo vale non solo per le foto, ma anche per le parole.

    "Un romanzo, che è lontanissimo da un articolo, non sfugge a questa regola, anche se è fatto solo di parole che possono essere così accurate e precise da diventare fotografie o spezzoni di film. Un romanzo è diverso da un articolo. Ma entrambi raccontano una verità. E lo fanno in modi differenti."

    "Forse hai ragione. Forse è così. Anzi, è così."

    "Quando scrivi per te stesso, i giornali, non esistono. Puoi parlare di te sotto mentite spoglie. Puoi dire bugie, per poi fare emergere la verità o per camuffarla in modo da essere scoperta dopo."

    "Sì, sì. Ho capito, lo so. Ma..."

    "Niente ma! È così. Allora? Che cosa non ti convince?"

    "Forse credo che un lettore..."

    "Alt! Errore! Tu non devi scrivere per piacere agli eventuali lettori. Quello che scrivi deve piacere a te. E se poi, mentre scrivi, il tuo lavoro appare sempre più lontano da un romanzo, meglio così. Vuol dire che molto probabilmente sei sulla buona strada."

    "Norman, grazie. Questo è proprio quello che pensavo."

    "Mi fai venire in mente ciò che Alfred Hitchcock ha detto dei suoi film. In pratica, spiegava che la vita è un dramma e che lui raccontava questo dramma tralasciando le parti noiose."

    "Mi è sempre piaciuto Hitchcock. Per i suoi film, ma soprattutto per quello che hai appena detto. Perché è ciò che voglio fare io. Raccontare una storia, in un romanzo, senza le parti noiose della vita di tutti i giorni. Perché in una vita, i giorni noiosi o tutti uguali, sono tantissimi. Quindi, la storia che ho in mente è una serie di fotografie o sequenze cinematografiche, più o meno cronologiche, secondo un filo logico. Ma con un suo senso drammatico."

    Norman, guarda nel vuoto e fuma lentamente. Come me, ragiona su quello che abbiamo appena detto. Trascorrono alcuni istanti.

    Poi mi sembra di aver fatto una chiarezza folgorante dentro di me. E dico:

    "Quando racconto una storia con la macchina fotografica, tra i tanti scatti, scelgo solo le immagini che dicono qualcosa e sono pertinenti alla storia. Ma, tra fotografare e scrivere, il confine spesso si sovrappone. In un racconto di sole foto, ci dev’essere una foto d’apertura, una foto d'impatto visivo. Se invece si fotografa con le parole, l’immagine che riassume in sé tutta la storia, può benissimo essere quella finale. Giusto?"

    "Giusto. Allora, mi stai dicendo che hai previsto un colpo di scena finale?"

    Sì, qualcosa del genere. Anzi, due colpi di scena!

    "Splendido! E, adesso, da dove vuoi partire?"

    "Pensavo, dall'Africa."

    "Tu, in Africa, ci sei stato, giusto?"

    "Sì, in un po’ di posti diversi e quattordici mesi filati in uno solo."

    Dove?

    "Marocco e dintorni."

    "Allora lascia perdere tutto il resto e inizia da lì, sicuramente c’è più polpa."

    È lì che davvero inizia questa storia.

    "Bene! Quanto tempo fa?"

    "Abbastanza. Il mio personaggio, il mio protagonista, aveva poco più di vent'anni."

    "E dov'è il capolinea di questa storia?"

    Ci penso un po’ su. Poi rispondo con sicurezza: Lo leggerai, Norman. Lo leggerai. E poi un capolinea non è solo un punto di arrivo, ma anche di ripartenza. Norman sorride.

    Capitolo 1

    UNA STORIA DEL NOVECENTO.

    MAGGIO 1974

    Non l’avevo mai vista così, dal mare. Allontanarsi piano, piano, nella luce del giorno. Sequenza interminabile.

    Lì, a poppa della nave, la scia non smarrisce l’inquadratura. Pellicola infinita. Che scorre nel suo ritmo di placida attesa. Come nei film. L'inquadratura finale, prima dei titoli di coda. Ma nel mio caso non è ancora il momento. Anzi, è l’inverso. È lo sfondo dei titoli di testa. Di una storia appena iniziata. Ne sono certo. Con una trama però tutta da sviluppare, tutta da vivere. Perciò imprevedibile. Lo so, inevitabile. Non leggo le sfere di cristallo e con le carte dei tarocchi sono negato. Il futuro è sempre scritto in codice. Crittografia inespugnabile. Tanto che quando il futuro diventa presente, spesso risulta incomprensibile lo stesso.

    Ceuta è incredibilmente affascinante mentre svanisce.

    Svanisce, ma dico per dire. Difficile che per me accada davvero.

    Per un anno, due mesi e diciassette giorni è stata la mia prigione. Il mio tormento, la mia ossessione, i miei lampi di coraggio e di follia. Mi guardo come sono vestito, per l’ennesima conferma. No, la divisa e i gradi sono spariti, assomiglio a un passeggero qualunque, a parte il taglio dei capelli.

    Ceuta dal mare non l’avevo mai vista. E poi, quando ero di stanza là, il mio mestiere era guardare a Sud e ora io stavo andando a Nord. Anche se adesso insisto a guardarla, a guardare a Sud.

    D’altra parte il mio compito era proteggere il confine e, più di una volta, oltrepassarlo, per aggiustare ciò che per altri era guasto o, per meglio dire, mettere in sicurezza situazioni critiche. Nel peggiore dei casi, da ripulire. Spesso era il peggiore dei casi.

    Tutte le faccende che ho rammendato si trovavano a sud di Ceuta.

    Adesso, però, faccio rotta a Nord.

    Sì, non l’avevo mai vista dal mare, di giorno. C’ero arrivato in una notte di burrasca, a bordo di una nave militare. Mare forza sette e un muro di pioggia che cancella ogni riferimento visivo.

    E ora, sotto nuvole grevi che tolgono due stop di luminosità al panorama, Ceuta è comunque levigata e morbida. Quasi senza chiasso negli occhi. Invitata dal tramonto. Come pochissime donne lo sono. Solo quelle eleganti, che sanno come sorridere, vivere e piangere senza mostrarsi. Poco africana. Colori attenuati che limano gli spigoli. Eppure con dettagli che non puoi ignorare. Anche se polvere nel pugno.

    Ceuta è vicinissima a Gibilterra. È una linguaccia sfoderata verso tutto il Mediterraneo. Una penisola, che si arrotola appena, uscita da un grande bocca che è il suo porto. Termina come una parola che sfugge, sulla punta della lingua, Punta Almina.

    Una leggenda che ho sentito tempo fa, narra di una giovane donna di nome Almina, appunto, lasciata dal suo uomo costretto a fuggire. Per molti anni, ogni giorno, con qualunque tempo, questa donna andava su quell'estremo promontorio roccioso, per scrutare il mare, per vedere le navi che arrivavano in porto. E cercare di capire, tra i volti delle persone in coperta, se lui era a bordo. Perché se lui fosse tornato da lei, di sicuro sarebbe stato lì, sul ponte, all'aperto, per farsi vedere e per vedere. Per questo si chiama Punta Almina.

    La leggenda non dice se poi Almina abbia riabbracciato il suo lui. Come io non so se rivedrò e, magari riabbraccerò, la mia lei. Ma so che tenterò.

    Continuo a guardare la città. A dispetto di quanto mi ero detto appena imbarcato: tenere sempre lo sguardo rivolto al mare aperto, al mare di prua. In modo costante, pervicace. Finché fossi stato sicuro che Ceuta sarebbe diventata una macchia chiara sulla costa bruna, sostanza confusa nell'orizzonte.

    E invece no, non ce l'ho fatta. Così, con gli occhi ho subito cercato le grandi finestre della casa di Lydia. Aperte sul porto, al sesto piano, con le tende rosa che respirano nella brezza. Ho guardato perché volevo vederla ancora per un attimo. Mentre guarda la mia nave che si allontana. Ma nessuna figura femminile si affaccia oltre le tende rosa.

    Mi aveva detto, anzi scritto, che non voleva vedermi andare via. E così ha mantenuto la promessa. Forse. Ognuno ha il suo pudore. Poche donne, ancora di più.

    Capitolo 2

    SELLO ESPAÑOL EN AFRICA.

    APRILE E MAGGIO 1974

    A Ceuta si dormiva in baracche di muratura, non molto diverse da quelle in lamiera di Puerto del Rosario, a Fuerteventura. Roventi la sera e fredde all’alba, tutte con la stessa puzza.

    Una notte, ci mettono in pista. Pronti a partire in quindici minuti. Assetto da battaglia. Destinazione ignota: missione d’interdizione, è il laconico passa parola. Nome in codice, Cota 312, Quota 312. Siamo due squadre di dieci uomini, squadra Alicante, la mia, e squadra Barcelona, l’altra. Bastiamo noi, hanno detto. Ci imbarchiamo su tre elicotteri Bell 205. Quelli che in Vietnam, i soldati statunitensi chiamavano Huey. Che è il nome di uno dei nipoti di Paperino. In italiano sarebbe Qui, fratello gemello di Quo e Qua.

    Sconfiniamo in Marocco. O meglio: nel Sahara Spagnolo. All’epoca si chiamava così. Il sole è ormai caduto oltre l’orizzonte, come sasso di fuoco. I portelloni sono aperti a fa subito freddo. Certo, siamo per aria. Ed essere in Marocco non aiuta, perché è un Paese dal sole caldo, ma con un clima freddo. Al buio, con i miei compagni non si dice niente. Il rumore del rotore entra in gola e negli inguini.

    Ogni volta che si va in missione, le premesse non sono mai buone. Nessuno ti dice mai che cosa vai a fare esattamente. Si viaggia per un paio d’ore, forse un po’ di più. C’è una luna islamica nel cielo. Uno spicchio a cui le stelle, le più luminose, fanno corona.

    Atterriamo nel nulla del deserto e si scende tutti. Ci vuole un bel quarto d’ora per abituare gli occhi al buio.

    A trecento metri da noi intravedo una collina.

    Passa mezz’ora, anche meno e proprio dalla collina piovono due colpi di mortaio. Gli elicotteri decollano in un baleno e noi si resta lì, a guardarci in giro, come scarafaggi in attesa dell’insetticida.

    L’ordine è: tomar la postación!

    Tocca alla prima squadra. Tolgo il preservativo alla bocca da fuoco della mitragliatrice, la Mg 42, mi bardo il corpo con doppio nastro di munizioni e prendo una cassetta da 250 colpi. Io sono dios per i miei uomini, quello che li protegge nell’assalto e copre loro le spalle. Partiamo sempre in riga e inizio la conta da Miguelito, alla mia sinistra.

    Miguelito, George, Hernando, Pablo, Miguel, Rudy, Pablo Largo, Estevan, Karl, esta noche se balla el rock’n’roll.

    Uno alla volta, i nominati rispondono: Yo soy a quì! o robe del genere.

    Miguelito, un metro e novantacinque, centoventi chili e mani come seggiole, mi sorride, mentre prende altre due cassette di munizioni per me.

    "Moreno, rock’n’roll?"

    Creo que sì. Espero muy rapido, para volver todos!

    Miguelito è uomo di poche parole. In un paio di risse mi ha salvato il culo con un fare elegantissimo: Moreno, parate. Da ahora hasta el fìnal no è mas tu problema. E sono volati cazzotti e calci da rompere le ossa.

    Miguelito vuole sempre stare al mio fianco. Come mitragliere io sono l’esterno destro, più esattamente il centro di un cerchio. Quando sono in posizione e apro il fuoco, gli altri nove uomini salgono come un raggio. Poi si fermano. Sparano e mi coprono in modo che io faccio salire il centro del cerchio. E la storia si ripete fino a che è necessario. D’altra parte, noi siamo una squadra d’assalto. E quando si deve conquistare una quota, questa è la manovra classica.

    Ci avviciniamo al piccolo trotto alla collina. Non si parla. Ma da sopra, i bastardi lanciano i bengala che illuminano la notte a giorno e ci mettono come topi in gabbia, da vivisezionare.

    Ci apriamo a ventaglio e corriamo più forte, la luce ci permette di vedere meglio dove mettiamo i piedi. Ma quando torna il buio siamo ciechi, ci vuole tempo prima che le pupille tornino a dilatarsi abbastanza, per vedere con quel filo di luna.

    Si va avanti a singhiozzo fino a che non trovo una posizione con un minimo di riparo. I miei uomini sono in posizione, inizio a sparare.

    Il fuoco di sbarramento è duro. Cota 312 non è altissima ma la salita è lenta, ci espone. Per fortuna che ci sono molti sassi dietro cui ripararsi. Si avanza di un metro alla volta e al posto dei secondi il nostro tempo è scandito dai proiettili che spariamo.

    Grido: George, pregunta por Barcelona alla isquierda! Rapido!

    George ha la radio e chiede un’altra squadra sulla sinistra della collina.

    "George, cual es la respuesta?"

    "Estan llegando, pero l’orden es adelantarse de cualquier manera."

    Sono quaranta, cinquanta minuti che avanziamo di mezzo metro alla volta. Gli uomini sono stanchi, stremati. Sparano basso, l’arma pesa, rischiano che i proiettili tornino in faccia.

    Tirar alto! urlo.

    Mancano pochissimi metri alla cima. E se vogliono colpirci devono esporsi. Ho finito le munizioni della mitragliatrice. Iniziamo a farci strada con le granate.

    Da sopra rispondono anche loro con granate e raffiche incrociate. Si sale, senza sperare.

    Un lampo e un botto secco piove vicinissimo a me. Miguelito rimbalza indietro, come un cane di peluche, straziato, azzannato. Nel flash di luce vedo che l’esplosione gli deve aver devastato il ventre. Mi butto su di lui e m’impregno del suo sangue, del suo sudore.

    "Moreno, estoy finido. Por favor, mátame!"

    La luce violenta mi ha bruciato la vista. A tentoni, lo tocco per sentire dove è bagnato, viscoso e caldo, dove c’è il sangue. Fino a che con le dita gli scosto quel che resta della mimetica, nel suo addome la mia mano trova uno sfacelo. Gli inietto subito una capsula di morfina nel braccio, sperando che col sangue non si perda subito dove le sue arterie eruttano.

    I compagni sono fermi, lanciano qualche bomba a mano, sparano brevi raffiche, si spostano per linee orizzontali per non è rimanere nel posto da dove è arrivata la fiammata dell’arma.

    "Moreno, mátame!"

    "Miguelito, no puedo. Tu eres mi amigo!"

    Por eso te suplico que me mátes. Por favor, mátame, mátame, mátame, ahora! La voce è diventata di colpo fioca come una candela nel vento.

    Non posso lasciarlo soffrire. Prendo l’automatica, controllo se il colpo in canna, con un clack che sa di confine violato. Ma per fortuna per me e per lui, Miguelito smette di respirare con un sospiro che è stiletto al centro delle mie scapole. Acuto e penetrante come un pungiglione velenosissimo. Perché è la prima volta che perdo un uomo, un amico, in uno scontro a fuoco, in un lago di sangue e in un cielo di scoppi e scie abbaglianti. E non è agosto e San Lorenzo è lontanissimo.

    Come sempre, in questa ripetizione ossessiva della storia, c’è un vuoto. Mi ritrovo sulla collina con l’automatica scarica, senza più granate e il pugnale in mano. Mi sembra che da parecchi minuti c'è solo vento freddo, silenzi, un filo di luce all'orizzonte. Sono in piedi, stremato e mi domando: se adesso sono così bene in vista e nessuno mi ha ancora sparato, che cosa è successo? C’è del sangue che scende discreto dalle mie braccia e dal mio petto. Il resto della mia divisa è fradicia di sangue fresco e già secco, di non so più chi. Forse anche mio.

    C’è George che mi tira per una manica. Il suo sguardo è di terrore, nel chiarore dei piccoli incendi delle granate e dell’aurora che sta arrivando. Gli chiedo se abbiamo preso l’obiettivo. Con la mano dalla forza sfinita mi scuote piano piano la spalla.

    Caporal: mission terminada... Faltan ocho chicos de nosotros!

    "Y la esquadra Barcelona?"

    George fa di no con la testa e vedo che non ha più la radio sulle spalle.

    Nunca llegó, dice sottovoce.

    ####

    Rientrati alla base, George e io siamo consegnati e

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