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Mio marito? Uno sconosciuto
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Ebook189 pages2 hours

Mio marito? Uno sconosciuto

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About this ebook

Michela e Massimo si incontrano da ragazzi, lui ha 20 anni e lei 15, si innamorano, poi le loro strade si dividono per molto tempo. Lui si laurea in viticoltura ed enologia e si occupa della parte commerciale di una azienda vinicola, lei si laurea in ostetricia e lavora in ospedale. Dopo 20 anni si ritrovano di nuovo insieme, più innamorati che mai, e decidono di sposarsi. Un giorno però, un banale incidente automobilistico renderà Michela vedova. Al dolore per la perdita si aggiungeranno presto grandi scoperte, verità taciute per molti anni, segreti svelati.

Roberto Antonio Crosara è nato a Padova nel 1938. Dopo un’infanzia difficile – la guerra prima, la ricostruzione poi – a sedici anni è costretto a interrompere gli studi esercitando diversi lavori saltuari. Riprende a studiare più avanti con le scuole serali. Dopo quattro anni di carriera militare e due di insegnamento nella scuola media, nel 1971 si laurea a Padova in materie letterarie. Successivamente crea un’attività imprenditoriale in proprio, durata circa cinquant’anni. Pensionato, dedica il suo tempo alla scrittura. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo Quasi come il Cuculo, nel 2020 Walkirie 2000, nel 2021 Antica Fiaschetteria Toscana, Morire vivo e nel 2022 Lussurie Contagiose.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9788830672291
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    Mio marito? Uno sconosciuto - Roberto Antonio Crosara

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prologo

    Non pensavo che al funerale di mio marito ci fosse una così grande partecipazione. La chiesa era gremita e molte persone erano rimaste all’esterno. È vero che lui nella vita aveva conosciuto molta gente, persone di ogni estrazione sociale, amici d’infanzia, compagni di scuola, di sport, colleghi di lavoro, clienti, fornitori, ma non mi figuravo una partecipazione così imponente.

    La bara era là di fronte a me e non mi capacitavo della sua scomparsa così improvvisa e inaspettata. Aveva sempre avuto un fisico forte, non aveva mai sofferto di malattie importanti. Qualche frattura cadendo dalla bicicletta, durante gare sportive, da cui si era sempre ripreso in maniera gagliarda. Niente lasciava supporre che, a soli sessantasei anni, mentre viaggiava per lavoro, un brutto incidente se lo portasse via. L’ambulanza intervenne prontamente, ma invano, era clinicamente morto al momento del terribile urto. Nonostante i tentativi di rianimazione e tutte le cure prodigate durante il trasferimento, quando arrivò all’ospedale era spirato.

    Mi sovvenne che un giorno gli avevo chiesto se avesse paura della morte.

    – Paura? – mi aveva risposto – Perché? È una cosa inevitabile, siamo nati per morire, a partire dalla nascita il vivere è un correre verso la morte, il nostro non è che un transito, l’accettazione di questo fatto ineluttabile è l’unico modo per vivere liberi, l’importante è essere sempre preparati quando Lei arriverà. C’è chi vive e fa le cose di ogni giorno pensando di non morire mai, senza curarsi di quando non ci sarà più, lasciando magari gli eredi nei guai. E c’è chi invece si comporta come se quella che sta vivendo sia l’ultima giornata di vita e fa il necessario per non lasciare nei problemi chi resta. Estote parati. Bisogna sempre essere pronti all’arrivo ineluttabile di Atropos: io lo sono sempre e quando giungerà non sarò colto impreparato.

    Aveva sempre detto che, nel caso si fosse ammalato gravemente, non voleva che ci fosse per lui un accanimento terapeutico. Me lo aveva ripetuto più di una volta. È stato esaudito, è morto sul colpo, non ha sofferto, nessun accanimento per lui, se non quello di una morte ingrata. Guardavo assorta la bara. Pensavo a come mi avesse sempre precisato che lui non voleva essere cremato, né messo in un loculo.

    – Voglio essere abbracciato dalla Madre Terra e tornare a lei, da dove sono venuto.

    Si sentiva ancora giovane e pieno di vita, di progetti, e di voglia di fare. Pur dicendo di essere sempre pronto, era lontano dall’immaginare di finire i suoi giorni così, colto improvvisamente da quella che lui chiamava la Signora con la Falce. Funere mersit acerbo. Troppo presto!

    – Se Cesare era ancora un adulescens quando aveva oltre trent’anni io a cinquanta mi sento ancora un iuvenis – diceva.

    A questi ricordi mi sentivo il cuore sprofondare nel petto. Ero così assorta in questi pensieri, quasi non mi accorsi che il prete aveva cominciato la messa. Con un linguaggio ieratico e aulico stava pronunciando le antiche formule del necrologio e, con un panegirico, ricordava per sommi capi la figura di Massimo. Ero come trasognata, quasi non ascoltavo le parole di ammirazione e di stima che, ancorché mio marito non fosse stato un frequentatore di chiese, il prelato pronunciava. I miei pensieri rincorrevano tanti episodi della nostra vita assieme. In maggio sarebbe stato il ventiseiesimo anniversario del matrimonio. Ci conoscevamo da quarantasei anni. Non c’eravamo sposati giovani. Il nostro era stato un incontro da ragazzi, lui aveva vent’anni ed io quindici, una cosa durata un breve periodo e poi ognuno per la sua strada. Solo il caso ci aveva rimessi insieme quasi vent’anni dopo. Ora ero vedova. Quando pensavo a tante donne di mia conoscenza rimaste sole, non credevo che lo sarei diventata anch’io. Vedova! Una parte di me se n’era andata, mi sentivo incompleta, come tante altre a cui il marito è mancato. In quel momento pensai che ci sono molte più vedove che vedovi. Non ci avevo mai riflettuto, ma è così. Nella coppia, in generale, la moglie è più giovane e in media le donne vivono più a lungo, mi resi conto che è una cosa logica che le vedove siano più numerose. Data la sua forte fibra, avevo sempre immaginato che, prima di lui, me ne sarei andata io. In fin dei conti solo cinque anni ci separavano. Mi suonava strano questo sostantivo vedova, eppure lo ero diventata anch’io. Vidua ero vestita di nero. Pensavo all’etimologia: viduus. Vuoto, privo, mancante. E che cos’è una vedova se non una donna privata della presenza del marito? Mi stavo rendendo conto di questo senso di vuoto, non avrei più visto i suoi occhi azzurri, né sentito la sua calda voce e la sua risata contagiosa, non avrei più passato la mano fra i suoi biondi capelli, quando con le sue carezze mi accendeva di desiderio, quando con i suoi baci mi faceva palpitare il cuore, quando faceva vibrare ogni fibra del mio essere. Ero rimasta sola e non riuscivo a capacitarmene. Come avrei impiegato le mie giornate senza la sua cara presenza? Quando un’amica o una conoscente restava vedova, al di là della disgrazia, mi pareva una cosa normale, specialmente se si trattava di una persona anziana e ammalata: prima o poi tutti ce ne dobbiamo andare. Si ha la sensazione che queste cose capitino sempre solo agli altri, ma qualche volta gli altri siamo noi. I miei pensieri correvano ai ricordi, a quando l’avevo conosciuto e a tanti episodi della nostra vita in comune. La sola cosa che mi riempiva la testa in quel momento era un senso di vuoto. Che strana cosa riempire con un senso di vuoto! Inseguivo i ricordi.

    Ci eravamo conosciuti alla fine degli anni Cinquanta in una festa fra amici. Me l’aveva presentato il comune amico Anthony.

    Stalle sotto – gli aveva detto – quella è una che ci sta –. Non so da che cosa Anthony avesse dedotto questa sua idea, sicuramente non gliene avevo dato l’occasione di pensarlo, e soprattutto io non mi ritenevo "una che ci sta". Probabilmente era una spiritosaggine inventata per burlarsi di lui. Tuttavia Max l’aveva preso sul serio e si era dato subito da fare. In seguito fra noi non c’era stato niente di così importante. Eravamo andati assieme in molte gite collettive al mare o in montagna, spesso in qualche festicciola in casa di uno o dell’altro degli amici comuni. Erano i tempi del Rock and Roll, si ballava e ci si divertiva. Niente di straordinario, qualche carezza, qualche bacio, qualche abbraccio. E, anche se lui si dava da fare per avermi, io gli avevo sempre resistito, non mi piaceva la frase che gli aveva detto Anthony e facevo di tutto per ostacolare i suoi propositi, anche se in qualche occasione ero stata sul punto di cedere. Diceva di amarmi e che gli piacevo tanto. Anche lui mi piaceva, mi ero innamorata dei suoi occhi azzurri, del suo sguardo ardente e dei suoi capelli di un biondo dorato e luminoso. Avevamo fatto qualche fantasia per un futuro assieme e, anche se eravamo tanto giovani, lui sembrava molto convinto di quello che diceva. Poi, a un certo momento, quasi all’improvviso, partì per il servizio militare, si era arruolato in un corpo speciale dei paracadutisti e aveva firmato per un corso che lo avrebbe impegnato per quattro anni. Diceva che là poteva sperimentare cose che nella vita non avrebbe potuto permettersi mai, come fare il rocciatore, il sommozzatore, il paracadutista, lo sciatore, viaggiare in Italia e all’estero. Io invece credevo che si fosse stufato di me perché non gli avevo ceduto e quindi pensasse che non l’amassi.

    – Ho sempre tempo di trovarmi un lavoro e fare la persona seria – diceva – laggiù avrò anche la possibilità di studiare e di laurearmi. A Pisa c’è una importante facoltà di viticoltura e enologia. Ho sempre desiderato conoscere a fondo questo ramo dell’agricoltura e, anche se mi sono diplomato alla scuola agraria, non mi sembra sufficiente e per questo ho pensato di frequentare l’università: voglio prendermi una laurea e credo che ci riuscirò. Ma c’è anche un motivo non secondario: sono sempre stato un estimatore del nettare di Bacco. Non mi capiterà facilmente un’occasione del genere. Può anche darsi, se mi trovassi bene, che decida di fermarmi per sempre e di abbracciare la carriera militare. Un ragazzo che correva in bici con me si è arruolato due anni fa e ha già il grado di sergente, dice che ha un buon stipendio, che a Pisa si mangia molto bene per pochi soldi e che la città è piena di belle ragazze che amano divertirsi.

    – Se le tue aspirazioni sono queste, ho fatto bene a non starci, come ti ha consigliato Anthony, ancorché tu abbia tentato più volte! Fai bene a seguire i tuoi desideri, ma non pensare che io stia ad aspettarti, mi piaci, sento di amarti, ma quattro anni sono tanti! Tanto più se decidi di fare il militare di carriera, in una città piena di belle ragazze che amano divertirsi e dove si mangia bene con poca spesa. Se hai questa intenzione è meglio che tu ti fermi per sempre e ti prendi una di quelle, se ci sta. Io ho intenzione di iscrivermi a medicina, ho sempre avuto la passione di studiare il corpo umano e di abbracciare la carriera di medico. Ma non si sa mai, può darsi che io cambi idea, però, per il momento, non voglio ipotecare il futuro con una persona che non ha le idee tanto chiare e non posso mantenere un legame senza che ci siano dei contorni precisi.

    – Potresti venire anche tu a Pisa, c’è anche là un’università.

    – Bravo! E come camperei? Tu avrai un buon stipendio e, in caserma, vitto e alloggio assicurati, ma io?

    – Potrei affittare un miniappartamento dove potresti alloggiare.

    – No grazie. Vai pure per la tua strada, ma non pensare che io ti segua, è giusto che tu abbia le tue aspirazioni, ma anch’io ho le mie. E poi siamo tanto giovani abbiamo tutta la vita davanti. Può darsi che tu ci ripensi, come potrei farlo anch’io, e che le nostre strade si incrocino nuovamente, intanto ti auguro buona fortuna.

    – Quando avrò una licenza verrò a cercarti. Non posso dimenticarti. Ti voglio bene. Buona fortuna anche a te – mi rispose con un velo di malinconia.

    Pensai che fosse veramente dispiaciuto ma che l’attrazione per la vita avventurosa che quel reggimento gli offriva fosse più forte di ogni altra cosa. Di tanto in tanto veniva a casa in licenza, orgoglioso della sua divisa da paracadutista, e mi chiedeva se avessi trovato un altro. Per diverse volte gli risposi che no, che non avevo trovato nessuno che mi piacesse. Circa un anno e mezzo dopo, invece gli comunicai che mi ero fidanzata col suo amico Anthony.

    – Ah! – esclamò – lui aveva detto che sei una che ci sta! E ci sei stata?

    – Ti sembrano domande da fare? – gli risposi incavolata.

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