Alla ricerca della Stella Polare verso la pace
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Info su questo ebook
Lucia Artizzu è laureata in Economia. Ha studiato e lavorato nell’ambito socio-economico in Italia, in Spagna e a Bruxelles. Ama viaggiare, leggere e scrivere. Si interessa di storia, letteratura, filosofia e sociologia.
Ha scritto e pubblicato tre libri.
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Alla ricerca della Stella Polare verso la pace - Lucia Artizzu
Lucia Artizzu
Alla ricerca
della Stella Polare verso la pace
Storia di un uomo del Novecento
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-6465-4
I edizione marzo 2022
Finito di stampare nel mese di marzo 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Alla ricerca della Stella Polare verso la pace
Storia di un uomo del Novecento
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
E per un attimo la percezione della vita vissuta, della sua vita, le nascose il presente... L’uomo tiene per sé la percezione della propria vita, non la condivide con nessuno.
Il miracolo di ogni uomo, di ogni singolo uomo - bontà, cattiveria, piacere, affetto, vergogna, pietà, timidezza, timore e stupore, tutto ciò che dall’infanzia alla vecchiaia si è depositato nella coscienza e nel subconscio, si fonde, si riunisce nella percezione muta e segreta dell’unicità della vita umana.
Da Vita e destino, Vasilij Grossman, personaggio Sof’ja Osipovna
La dignità umana ha bisogno di una nuova garanzia, che si può trovare soltanto in un nuovo principio politico, in una nuova legge sulla terra, destinata a valere per l’intera umanità.
Da Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt (prefazione alla prima edizione del 1951)
La difficoltà nel prendere sonno e poi inseguirlo insistentemente perché avesse un minimo di regolare continuità mi costringeva a ripetuti risvegli e strani dormiveglia intercalati a concentrazioni mentali, esercizi di respirazione e intenti di meditazione che mi facevano vivere in una realtà virtuale dove io non ero io, ma la protagonista di una storia.
Era la mia storia o forse no, magari un’altra storia parallela a quella veramente vissuta.
Così una notte scoprii con stupore che la mia mano destra accarezzava la sinistra che non era la mia, ma quella di mia madre. Il tatto era identico, l’anello uguale, la fede nuziale pure.
Immobile, controllando tutti i muscoli e fissando il buio della stanza, in assoluto silenzio, non riuscivo a raccapezzarmi.
Il sentimento di tenerezza era così intenso che credetti che quella mano fosse veramente quella di mia madre come quando, molto tempo addietro, sdraiata sul letto con la sua mano nella mia, pensavo che le parti fossero invertite e mia madre, resa fragile dalla malattia, fosse diventata la mia bambina.
Svegliandomi, mi guardai la mano e spaventata pensai, ancora una volta, che non fosse la mia, ma quella della mia mamma; era colpa di quegli anelli che indossavo da quando mia madre era morta? Sì, sicuramente, ma non solo.
Mi ricordai tutto ad un tratto di quando per la mia somiglianza con mia madre dovevo aver ravvivato la nostalgia di lei in una persona che in gioventù l’aveva tanto amata. Ebbi in un lampo la visione di un volto d’uomo che si attardava nel guardare la mia mano stringendola fra le sue. Era successo tantissimi anni prima, quando non conoscevo ancora il dolore del rimpianto e della nostalgia del passato.
Adesso che percepivo il sentimento forte della confusione della vita, delle contraddizioni, del rimpianto delle cose non dette, dell’affetto non manifestato, della leggerezza del tempo che se ne va con la velocità di un lampo, dell’inutilità di tante cose che facevo e delle cose che possedevo; adesso che mi rendevo conto che avevo vissuto senza soffermarmi troppo nei sentimenti, senza far durare le emozioni e le passioni, anzi controllandole; adesso era giunto il momento di ripensare alle persone straordinarie che avevo incontrato, a quelle coincidenze che avrebbero potuto cambiare il corso della vita; e non per avere rimpianti ma per fabbricarmi un’altra storia, un’altra vita.
Sì, valeva la pena! Seppure l’interpretazione dell’accaduto di una volta non era del tutto corretta, dovevo riviverlo nella mia mente e così far rivivere chi non c’era più.
Quello che non ricordavo nei minimi particolari potevo immaginarlo. Non avrei peccato di fantasia, l’immaginazione è differente dalla pura fantasia. Magari, a distanza, quegli avvenimenti mi avrebbero svelato dei dettagli e dei risvolti inaspettati e interessanti. Così potevo ripetere la vita perché il passato non è mai veramente passato.
Così come si ripete il viaggio quando si guardano le fotografie dei luoghi visitati e ci si domanda ma è vero, sono stata lì?
e sembra tutto più bello e strano.
Sì, valeva la pena raccontare a me stessa quelle storie di incontri, di coincidenze così come le ricordavo dopo tanti anni.
Era una domenica calda di agosto, di sera al tramonto, perché a Barcellona non si poteva uscire prima delle 19 per via dell’afa e dell’umidità. Una città diversa da quelle da me visitate fino a quel momento: un po’ elegante, un po’ caotica, moderna per certi versi, ma anche chiusa e abbastanza grigia e provinciale. In quella piazza enorme, c’era un’aria di paese, era frequentata dalla gente delle borgate vicine, non dagli abitanti del centro, in effetti né più e né meno come la piazza della mia città ma con due importanti differenze: le dimensioni e l’ambiente poco festivo. Le persone avevano un atteggiamento serio, preoccupato e guardingo.
C’erano tanti militari gendarmi los guardias civiles
da una parte all’altra della piazza, andavano di due in due come i carabinieri, così diceva mio padre. Con i loro cappelli a due punte laterali, neri, rigidi, con la stessa forma di quelli che portavano i toreri, erano così visibili che sembrava quasi ci fossero più guardias civiles che paesani.
Avevo visto delle turiste che si facevano fotografare con loro ma a me non piacevano: anche se magari erano poveri diavoli, erano pur sempre il simbolo di un controllo esagerato e sgradevole, mezzi di un’autorità dittatoriale e arrogante, quella del Generalissimo Franco.
Con la mia mania di osservare la gente stavo dimenticando il motivo di quel mio stare in piedi ferma ad un lato della piazza circolare.
Ma dovevo stare attenta a non muovermi, non parlare con nessuno, aspettare. Non potevo distrarmi, anche se mancava quasi mezz’ora all’appuntamento volevo essere lì per spiare il suo arrivo perché ero convinta che anche lui, trepidante come me, sarebbe stato in qualche punto della piazza prima dell’ora stabilita cercando con gli occhi di indovinare quale di quelle persone fossi.
Era per me un gioco fantastico però era strano che anche lui amasse stare a quello svago. Anzi veramente era stato lui a dare un appuntamento così poco preciso nell’ora, nel luogo e nel modo di riconoscerci. Non ti preoccupare, mi aveva detto, ti riconoscerò. Ma come?
Lui non sapeva neanche della mia esistenza fino a quella mia telefonata.
Avevo in tasca una partecipazione di nozze ingiallita dal tempo e una vecchissima fotografia di bambini e bambine di dieci, undici anni, con il loro maestro, tutti disposti in fila in ordine di altezza. Era così sbiadita che il contrasto bianco e nero aveva lasciato il posto al grigio totale. Davanti si vedeva il mezzo busto della mia mamma.
In seconda fila c’era il viso di un bambino circondato da un segno leggero di matita fatto da mio padre.
L’avevo guardata tante di quelle volte che ormai avevo memorizzato quel viso e già mi sembrava di conoscerlo come se fosse della famiglia.
Ero emozionata, stavo esercitando da detective. Mio padre e mia madre non avrebbero mai pensato che sarei riuscita a trovare il loro amico Pippo, anzi erano sicuri che non mi sarei impegnata nella ricerca. Avrai tante cose da fare, da vedere, non troverai né tempo né voglia di stare neanche dieci minuti con un anziano che sicuramente troverai noioso, ammesso e non concesso che lo trovi.
Queste furono le parole di mio padre. E mia madre? Sembrava totalmente disinteressata ma quando dissi Comunque, babbo, non si sa mai, dammi delle foto
. Fu subito lei a portarmi quelle due cose vecchie di cartone ed ora che ricordo la vidi emozionata.
Mi impegnai in una ricerca ostinata, volevo assolutamente conoscere quell’uomo, speravo che mi aprisse una porta per guardare il passato.
Forse avrei scoperto qualcosa sulla vita nel paese di mia madre, sulla sua giovinezza e su quella di mio padre; i miei genitori erano così schivi e parchi di informazioni sulla loro storia ed io ero così curiosa e sempre a caccia di racconti che potessero alimentare la mia fantasia.
Dell’uomo che stavo per incontrare avevo sentito parlare in modo confuso, poche volte, è vero, ma sempre in un modo interessante che aveva scatenato in me una grande curiosità.
Dicevano che era intraprendente, che aveva inventato una macchina per tessere pizzi e merletti che lui stesso disegnava, che aveva messo su una fabbrica, che possedeva varie auto di lusso ma che poi aveva avuto dei problemi, aveva perso quasi tutto. Gli avevano sottratto il suo brevetto, incendiato la fabbrica. Chissà se era tutto vero!
Avevo anche sentito, non so più da chi, che quando era scoppiata la guerra lui era stato costretto a partecipare in vari fronti. Insomma, la sua era una di quelle storie da romanzo del 1900, piena di avventure e anche di tragedie.
Ed eccolo dall’altra parte della piazza a tanti metri di distanza, lui, con piglio spedito si avvicinava con il sorriso sicuro di chi va all’incontro della persona da sempre conosciuta.
Velocemente tolsi dalla tasca la foto e guardai quel viso di bambino e decisi che sì, era lui. La rimisi in tasca paurosa di essere stata scoperta, non volevo mostrargliela, non potevo rischiare di dovergliela dare.
No, non si era accorto di nulla. Quando me lo trovai di fronte mi parve di averlo sempre conosciuto. Mi sorprese però il suo modo di fare così poco espansivo, solo cortese e galante. Mi prese la mano, me la strinse durante un lungo momento guardandola imbambolato e poi, scuotendo la testa, mi fece cenno di passare davanti a lui in un marciapiede stretto e pieno di passanti, mentre lui camminava dietro; forse per proteggermi?
Ero un po’ delusa che non mi avesse riempito di complimenti, mi disse solo che andavamo a cena e che c’era da camminare un bel po’ per raggiungere il ristorante. Era uno stratagemma, mi accorsi che mi osservava standomi dietro, e poi accanto, mi studiava in silenzio mentre camminavamo scansando la gente.
Quando finalmente arrivammo al ristorante seduti al tavolo che lui aveva prenotato, incominciai ad osservarlo. Lo vedevo sorridente, assorto, illuminato e sembrava totalmente felice. Non capivo perché.
*********
Era lui, Pippo, quel ragazzino con i pantaloni corti, sempre tanto irrequieto che saltava scherzoso da una parte all’altra della strada seguendo all’uscita della scuola quella bella ragazzina Giannina con le trecce nere grosse, così timida che arrossiva per un nonnulla e che si