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Macerie borghesi: Genealogie letterarie del presente
Macerie borghesi: Genealogie letterarie del presente
Macerie borghesi: Genealogie letterarie del presente
Ebook351 pages5 hours

Macerie borghesi: Genealogie letterarie del presente

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About this ebook

L'età borghese è giunta al tramonto, lasciandoci in dote la profonda crisi della democrazia. Interrogare la letteratura, non solo italiana, del secondo Novecento e dei giorni nostri può forse aiutarci a comprendere il tempo in cui viviamo, così incendiario, disperato, informe. O è almeno questa l'ipotesi da cui muove il presente volume.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateJan 15, 2023
ISBN9791222042541
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    Macerie borghesi - antonio tricomi

    Antonio Tricomi

    Macerie borghesi

    Genealogie letterarie del presente

    engageante

    «La poesia dunque non è tanto engagée quanto engageante».

    Franco Fortini, Vergogna della poesia

    Collana di critica letteraria

    direttore

    Antonio Tricomi

    Pubblicato nel gennaio 2023

    Rogas Edizioni

    © Marcovaldo di Simone Luciani

    viale Telese 35

    00177 – Roma

    P. Iva 11828221009

    e-mail info@rogasedizioni.net

    sito web: www.rogasedizioni.net

    Facebook: Rogas Edizioni

    Instagram: @rogasedizioni

    Twitter: @rogasedizioni

    ISBN: 9788845294778

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice

    Da un ingresso laterale

    I. Reductio ad nihil

    Scrivere il pensiero

    Disumanesimi

    Napoli è il mondo

    Squarciare il presente

    Quel rudere, in fondo allo stradone

    II. L’ombra del nemico

    Fascistissimi sempre

    L’anomia borghese

    Dal kitsch alla barbarie

    Per una nuova Resistenza

    Uno script antifascista

    III. Il padrone psicotico

    L’evaporazione della madre

    Il rito di un’immaginaria trascendenza

    Post-lessie

    Credo in un solo Dio, Capitale onnipotente

    Smorfie imbalsamate, tra le fiamme

    IV. Distanziamento sociale

    In maschera, prima del lockdown

    Naturalmente morti di desiderio

    Tutti a bordo, in teledidattica

    Versioni di inumanità

    Fine delle trasmissioni

    Verso un’uscita secondaria

    Nota al testo

    Da un ingresso laterale

    Euridice non torna

    è maestria assoluta

    il suo silenzio

    chi canta è Orfeo

    e piange solamente.

    Silvia Bre

    Non eravamo noi

    Avevo giusti cinque mesi quando Pasolini è stato ucciso. Appartengo alla tipica generazione di mezzo. In ritardo sul passato, del quale eredita, a sua insaputa, soltanto l’agonia. In difetto col presente, sacrificato alla contesa tra gli opposti sentimenti di un’in­dotta nostalgia per non vissute ere mitizzate e dell’affezione istintuale per una foga d’avvenire degradata a passione per il nuovo purché sia. Orfana, giocoforza, di un futuro che per lei non può darsi né quale reviviscenza di età defunte mai esperite, né quale adempimento di un qui e ora che sfugge facilmente alla messa a fuoco della sua strabica coscienza, né quale concrezione di un impensato che le viene naturale scambiare per variante fraintesa del già accaduto, per retorica ottusa di un ulteriore domani ancora di là dal materializzarsi o per confuso impasto dell’una e dell’altra diversione dal reale.

    Ero un quattordicenne quando è caduto il Muro di Berlino: dei partiti di massa, delle grandi narrazioni e delle culture di appartenenza, della vita civile e dei conflitti sociali, della politica tutta come il Novecento l’aveva intesa, ho fatto appena in tempo a conoscere i disforici o gli autoreferenziali colpi di coda. Sono dunque cresciuto assieme a quelle frenesie cesariste che, già sussunte dalla cricca craxiana, in Italia hanno però trovato una loro prima, appagante condensazione nel berlusconismo: in quello ancora immaginario, veicolato fin dall’alba degli anni Ottanta dalle televisioni commerciali possedute o controllate dal Cavaliere, e in quello politico, resosi bipartisan durante il ventennio inaugurato dalla discesa in campo di costui. Per poi raggrumarsi, tali autoritari umori futuristici e al contempo millenaristi, in quella varietà di orientamenti qualunquistici o sovranisti o genericamente antipolitici che stanno tuttora rendendo il populismo non un avversario, ma il miglior alleato dell’unico orizzonte culturale rimasto vivo in Occidente. Un mefistofelico orizzonte sempre pronto ad arginare qualunque, e sia pure sgangherata, risorgiva utopistica: un sanguinario ultraliberismo neo-schiavista, padrone incontrastato di quasi ormai compiute post-democrazie tribalizzate.

    I primi due anni del liceo classico, qui da noi, li si chiamava ancora quarto e quinto ginnasio, mentre frequentavo, di tale percorso formativo, una versione però posticcia; e gli studi universitari – già inclini a celebrare parcellizzate nozioni settoriali, invece che a proporre spregiudicate ipotesi di conoscenza interdisciplinare – li ho conclusi appena prima che, con l’entrata in vigore della Riforma Berlinguer, venissero istituite una laurea triennale e una laurea specialistica. Mi son quindi ritrovato a insegnare, in vari istituti di istruzione superiore di secondo grado o in accademia, percependo due volte inadeguata la mia preparazione: rispetto all’esanime modello di sapere integrale cui ero stato per inerzia educato da allievo; rispetto al quantificabile pacchetto di precise abilità e misurabili competenze che, da docente, mi si chiede ogni giorno di erogare ai discenti o di costruire assieme a loro.

    Figlio di un baby boomer garantito, nella propria ascesa sociale, da tutele socialdemocratiche oggi estinte, nel mondo dell’impiego ci sono peraltro entrato che questo mondo non c’era già più. A rimpiazzarlo, una precarizzazione e soprattutto una svalutazione socioculturale del lavoro pronte a convertire quest’ultimo, da potenziale strumento di emancipazione individuale, in tempo costantemente invocato, episodicamente ottenuto, forzosamente speso dai soggetti non per scoprire, rinsaldare, compiere la propria identità (anche solo di elemosinieri al cospetto di una risorta, esigua casta di signori feudali), ma per frantumarla, alienarla, perderla in ansimanti, sbeccati, coartati tasselli di fragile sussistenza civile, emotiva, sentimentale.

    Ho scoperto Pasolini non da ragazzo ma a vent’anni, grazie a un corso di Carla Benedetti che fungeva da anticipazione di un fortunato pamphlet della mia futura relatrice di tesi. E in lui riconoscevo – con e contro quel libro – un autore che m’intrigava, e continua a catturarmi, non per la sua presunta proposta di «letteratura impura» (comunque affidata ad opere sovente in contraddizione con le loro stesse premesse teoriche, quali che fossero) [1] e, tutto sommato, neppure per le opinioni esposte nei più noti fra i suoi saggi (opinioni – molte volte ricalcate su celebri intuizioni altrui – quando persuasive e quando, ai miei occhi, troppo vicine ai classici stilemi del pensiero conservatore). Un autore che invece mi colpiva, e ancora m’interessa, per una sua specifica attitudine speculativa, capace di suggerire flebilmente qualcosa alla mia generazione, in bilico tra arrendevole cinismo e codarde illusioni, perché tale da apparentarlo ai cultori di un disincanto sempre però combattivo, piuttosto che stiparlo laddove si tende abitualmente a collocarlo da quasi cinquant’anni a questa parte: tra gli indomiti eroi civili convinti di giovare immantinente, con la propria ricerca del vero o con i propri slanci utopistici, all’intera loro comunità d’appartenenza.

    Il «mio» Pasolini, quello che si lascia definitivamente alle spalle Poesie a Casarsa (1942), Ragazzi di vita (1955), Le ceneri di Gramsci (1957), quanto più teme la tradizione umanistica a un passo dalla sterilità sociale, tanto più su di essa scommette per decifrare il proprio tempo. Quanto più considera la letteratura un discorso pubblicamente decaduto, tanto più opta, nei propri lavori, per una parola solo all’apparenza diretta, giacché invece, nei suoi testi, ogni infrazione degli abituali codici narrativi o poetici e, non meno, qualsiasi aggressione allo stile, condotta – come in Trasumanar e organizzar (1971) – «per ragioni pratiche», s’incaricano di guadagnare al «Falsetto» territori espressivi fin lì inesplorati, rovesciando ciascun gesto, cioè qualunque attitudine performativa, in maniera, ossia in predilezione per bulimici centoni [2] . Quanto più conviene di dover reputare il letterato una figura culturalmente estinta, tanto più cuce sull’esibizione della propria arte e del proprio corpo di poeta la sua ambizione di pur negletto intellettuale civile. Quanto più dichiara invincibile il capitalismo, tanto più cerca – non sempre lucidamente e, infatti, di volta in volta rettificando il tiro – di indicare spericolate vie di fuga, inclusa quella che sul finire maggiormente lo seduce: lo spettro di un’apocalisse che giunga a cancellare intero l’orrore del mondo intero.

    E a guidarlo è sempre, in queste e altre sue deliberazioni, una medesima confessione d’impotenza, non a discapito ma in virtù della quale autorizzarsi a rischiare un irrelato salto nell’utopia da intendersi, però, come un consapevole, generosissimo balzo nel vuoto. Perché quando nulla sembra più possibile, e niente si dimostra ormai capace di smentire tale impasse, giunge allora il momento se non altro di pronunciarlo, l’impossibile, e di pronunciarlo, magari, in sovreccitati toni umoristici, appunto in quanto calembour «di un nuovo tipo di buffone» [3] . L’ultimo Pasolini, insomma, non in veste di redivivo Socrate – quale egli pur si ritrae nelle Lettere luterane (1976) –, ma nei panni di un risorto Swift – altro modello che spesso affiora nei suoi «canovacci» degli anni Settanta – tenacemente incline a concepire l’utopia solo al pari di un ironico, e autoironico, paradosso logico rispetto alle inderogabili, alle intramontabili meccaniche di un cannibalico dominio. Sino a correre addirittura il pericolo di apparire ciò che egli infine apparve, non senza una qualche ragione, a Fortini: un moralista sospinto, dal proprio cattolicesimo di fondo, nella spirale del nichilismo [4] .

    Di per sé, la letteratura non ci ha mai salvato da nulla: tantomeno ci salverà dall’estinzione [5] . Fin qui ha saputo giovarci solo quando si è dimostrata l’incontro – per citare Sartre – di due libertà necessariamente complementari: quella dello scrittore «di dire tutto» e quella del lettore «di cambiare tutto» [6] . La prima di tali libertà sembra oggi subire un irreparabile processo di deflazione, dovuto al­l’ormai cronica marginalità socioculturale di una letteratura che, pur di sopravvivere e di attirare la saltuaria attenzione del pubblico, accetta di sacrificare la propria identità, di sottomettersi a logiche discorsive ad essa estranee, di dissolversi in retorica esclusivamente comunicativa. La seconda delle succitate libertà, ancor prima che dalle crescenti restrizioni dei diritti individuali sancite da ordinamenti politici sempre più timocratici, appare attualmente compromessa, invece, dalle attitudini stesse di cittadini avvezzi a giudicare insoddisfacibili i propri desideri di autorealizzazione, a ritenere congenita la loro condizione di sudditi, a pretendere dal sistema null’altro che forme, comunque minime, di risarcimento immaginario per quel senso di frustrazione dal quale si percepiscono schiacciati.

    In un simile contesto, guardare ancora a Pasolini non significa, per chi scrive come pure per chi legge, anzitutto preferire o auspicare forme il più possibile contaminate, oltranzisticamente spurie, di letteratura, in ossequio all’idea che solo in tal modo quest’ultima saprà mostrarsi nuovamente capace di misurarsi col mondo e di interpellare, spronandoli a radicali esami di coscienza, gli interlocutori. Una preoccupazione e un gusto siffatti, specie se promossi al rango di valori espressivi assoluti, rischiano semmai di avallare e persino di accelerare, senza ambire a smentirlo o almeno a rallentarlo, quel processo, già da tempo in atto, di tirannica riconversione del codice letterario in linguaggio, tra i tanti altri, di un onnipervasivo indotto massmediatico abile a negare opportunità autentiche di autonoma parola, e compiuto pensiero, ai fruitori. In un’epoca – ci rammenta un racconto firmato da Pecoraro qualche anno fa, ma da poco ripubblicato – che vede gli autori travolti dalla propria «stessa libertà di scelta»; ambire perciò a «essere tutto»; bramare – appunto perché, «se ogni cosa artistica equivale a qualsiasi altra, scegliere è impossibile» – nulla di meno che «l’ inclusività totale»; finire spesso col perdersi «nella contemporaneità, nel­l’istante, nell’evento» [7] .

    Invece, ciò che da Pasolini vale tuttora la pena ereditare è – in termini sartriani – l’ossessiva lotta per l’«autonomia» di una letteratura sentita non come «mezzo», ma quale «fine incondizionato» [8] , pur dopo averne accettato l’eclissi civile e anzi impegnandosi a trasformare questa débâcle, senza mai denegarla, in una spiazzante occasione di parola tanto fuori dal coro, e così inattuale nella propria indifferenza ai vincoli dell’alfabeto sociale, da poter favorire l’insorgenza, nei lettori, di prospettive di senso e narrazioni culturali non meno eretiche. Non meno attente a mettere in dubbio la legittimità dell’autocratico ordine costituito.

    Più torno a leggerlo, più dunque mi si conferma anzitutto Petrolio (1992) – quel labirintico museo tirato su soltanto «per ridere», giacché esclusivamente capace di rimandare «a se stesso» [9] – l’opera di Pasolini da tenere con me, con noi, in quest’era non di visionari maestri di ironia tragica, ma di elegiache rassegnazioni all’esistente.

    (Febbraio 2022)

    I. Reductio ad nihil

    Scrivere il pensiero

    In altre parole, la missione affidata al romanzo consiste, oggi come un tempo, innanzi tutto nel dovere che esso ha di raffigurare la totalità sociale della vita e, solo con un’intensità di gran lunga inferiore, in quello di essere un’opera d’arte.

    Hermann Broch

    Hofmannsthal e il suo tempo

    1. Anzitutto le idee

    Già in precedenza, il saggismo era un ingrediente fondamentale in un romanzo: epico, storico, sociale, fantastico, persino poliziesco, che esso fosse. Ma, tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e i primi decenni del Novecento, tale componente sembra voler addirittura soggiogare gli altri elementi della narrazione. Il modernismo, ha del resto notato Mazzoni, «è anche la stagione del romanzo-saggio, cioè di opere le cui voci narranti pensano, giudicano e spostano il baricentro dell’interesse narrativo dalla storia in sé al senso della storia». Nel tipico romanzo ottocentesco, il narratore chiariva infatti «le forze storiche, sociologiche, psicologiche, antropologiche che rendono la trama comprensibile», ma non distoglieva mai «l’interesse del lettore dalla vicenda per portarlo sulle idee». I primi maestri di quello che avremmo poi definito romanzo-saggio si regolano diversamente. Tolstoj accentua «l’autorità filosofica del narratore». Dostoevskij «moltiplica le voci riflessive», rafforzando «l’impressione che, per dire l’essenziale sulla vita, non bastino più i racconti», ma urga «ricorrere alle idee». E Flaubert inaugura un modo per «ispessire la mediazione senza servirsi di concetti: usare lo stile». Ossia spostare l’interesse «dalla vicenda in sé alla maniera di raccontarla», attribuire «un ruolo ideologico implicito alla scrittura» [1] .

    Proust e Musil, Mann e Broch, Svevo e Pirandello rinsalderanno (nei casi estremi, a vantaggio della seconda) tale amalgama tra forme, il romanzo e il saggio, legate – ha ribadito Maddalena Graziano – «da una contiguità storica di lunga durata» perché cresciute in parallelo tra Cinque e Settecento, divenute «tra i generi più frequentati della modernità», parimenti esposte a «radicali reinterpretazioni novecentesche». D’altro canto, oltre a rivelarsi modelli di prosa indefiniti e mutevoli per statuto, esse costituiscono le «forme letterarie per eccellenza» di quell’era moderna «segnata dall’avvento della stampa, dal diffondersi della lettura come attività quotidiana, dalla nascita dell’opinione pubblica e del giornalismo», dato che entrambe scaturiscono da quel mondo borghese cui anche si rivolgono per ottenerne in cambio la piena legittimazione sociale. Il riconoscimento, cioè, del diritto-dovere sia di offrirsi come «generi nuovi, critici rispetto a ogni autorità ed eversivi rispetto alla tradizione», sia di svolgere tale compito provvedendo, il romanzo, «a romanzizzare le altre forme» (per dirla con Bachtin) e il saggio, invece, «a saggizzarle», a inglobare «la poesia e la narrazione» [2] .

    Secondo alcuni, per esempio a giudizio di Berardinelli, discende anche da quest’afflato dei racconti, specie nel ventesimo secolo, a tradursi in ragionamenti – insomma dal desiderio del romanzo, soprattutto novecentesco, di presentarsi quale meta-romanzo – la crisi non già di pubblico, ma identitaria, del genere. Quello da poco conclusosi appare infatti al critico «il secolo della teoria del romanzo e di progetti, più o meno realizzati, di innovare radicalmente le sue tecniche» che sono tuttavia giunti a tradirne «la fisionomia storica». Il secolo, perciò, in cui il romanzo «è arrivato a negare se stesso, si è spesso autoinibito e svuotato, per ragioni di teoria e di programma, in un arduo quanto sterile esercizio formalistico» [3] .

    Quand’anche così fosse, occorre però capire perché, a un certo punto, esso abbia sentito il bisogno di sacrificare parzialmente la sua originaria natura di racconto – che le varie pause di riflessione interne al testo si sforzavano di confermare idealmente traducibile in congruo discorso intellettuale – a quella di salda partitura concettuale, resa più intelligibile da uno sfondo narrativo anzitutto incaricato di metterne esemplarmente in scena le acquisizioni o le proposte di senso. E perché il romanzo abbia scelto di far ciò sfruttando i moduli di un genere che – sia pure in quello stesso Novecento presto dimostratosi l’era «della mediazione critica» – ha preso rapidamente a patire, nella propria «forma più pura», una crisi non molto diversa dalla sua, spiega ancora Berardinelli [4] . Anche la saggistica tende cioè, in quota via via maggiore, a rischiare l’autoreferenzialità, in un secolo che cessa infine di attribuirle un vero ruolo sociale e che degrada in ultimo il romanzo a semplice occasione di intrattenimento.

    Ebbene, il processo cui va ricondotto il tramonto, oggi difficilmente contestabile, sia della funzione pubblica della saggistica, sia del valore etico-civile della letteratura tutta, non solo delle però ancora assidue confezioni narrative smerciate dal sistema editoriale, si spiega con il decadimento del paradigma politico-culturale moderno, basato sull’esaltazione di comunità di individui borghesi o piccoloborghesi o aspiranti tali, a vantaggio di un modello antropologico viceversa postmoderno, che implica la celebrazione di una massa di monadici consumatori socialmente indistinti. In un’ottica simile, tale processo è dunque l’esito estremo di quella stessa rottura epistemologica cui si deve, per l’appunto, la genesi del romanzo-saggio.

    Se – precisa ancora Mazzoni – «i personaggi di Scott e di Balzac incarnano forze storiche universali, secondo il principio del tipico descritto da Lukács», capolavori quali L’educazione sentimentale o Guerra e pace «assumono la separazione fra sfera privata e sfera pubblica come un dato di fatto», poiché narrano un mondo in cui «le esistenze singolari vivono nelle loro bolle di senso soggettive» e possono ormai istituire, con i «grandi avvenimenti», soltanto «un legame di pura esteriorità» [5] . Tali libri danno insomma conto di configurazioni sociali nell’ambito delle quali «non è certo possibile» – come, notava però Chiaromonte, non era comunque già lecito agli eroi di Stendhal – «credere né all’epopea né a un lieto fine qualsiasi della breve storia che è un’esistenza umana», essendo entrata in crisi quella moderna «religione» i cui dogmi avevano favorito l’ascesa della classe sociale, la borghesia, presto divenuta egemone. In sostanza, a causa dell’evaporazione di ogni «fede ottimistica nella Storia», cioè «nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi» [6] .

    Non che tale dottrina venga esplicitamente ripudiata: deriva anzi da essa – continua Chiaromonte – il culto, via via più irrazionale, di quel «miraggio» del «Progresso» cui si dovrà la Grande guerra [7] . Ma, in largo anticipo su siffatta catastrofe, l’indebolimento del paradigma positivistico sconsiglia, già nel maturo Ottocento, i semplici resoconti di vicende individuali o collettive, considerati non più in grado di alludere a cornici culturali a loro volta inclini a dimostrarli universalmente significativi, e spinge giustappunto il romanzo a convertirsi in un tentativo di indicare inesplorate prospettive di senso valorizzando la propria attitudine autocritica per giustificare, anzitutto, la sua stessa pretesa di parola. L’impasse ideologica in cui si arena la borghesia implica infatti, per il modello di prosa che fin lì ne aveva costruito o demistificato l’epopea, l’ur­genza di ripensare la propria fisionomia. Ciò mentre è l’intera tradizione letteraria, accusata di sterilità sociale, a cadere in discredito e mentre gli autori tutti, non soltanto i poeti, smarrita – per dirla con Baudelaire – l’antica «aureola» [8] , si vedono costretti a concepire i propri testi, indipendentemente dal genere in cui ognuno di essi poi confluisca, come riflessioni principalmente tese a legittimare il loro diritto di esprimersi artisticamente o a riformulare le loro identità di laiche coscienze critiche delle comunità di appartenenza.

    Il romanzo-saggio si rivela allora, fin dalla nascita, una forma cui ricorrere, in primis, quando si voglia rilanciare il dibattito sullo statuto e sulla funzione della letteratura e dell’arte intera, degli scrittori e degli intellettuali tutti, dell’umanesimo e dei saperi complessivamente intesi nella società capitalistica. Anche in Italia. Del resto, già I promessi sposi – ha chiarito D’Angelo – sono l’opera di un autore per il quale « la teoria è una malattia della letteratura» a tal punto grave, e inguaribile, da vietargli di «riconoscere un ruolo legittimo all’immaginazione, alla finzione», e da spingerlo, in ultima istanza, a credere «inconciliabili poesia e storia, componente immaginativa e dati positivi». Di riflesso, «mentre Hegel fa morire l’arte a vantaggio della filosofia, e mentre nei radicali russi e in Nietzsche ad uccidere l’arte è la scienza, in Manzoni l’arte muore perché il suo posto viene preso dalla storia», unico ambito del loro agire dal quale gli individui possano estrarre plausibili ipotesi di verità. Non grazie anche alla letteratura, ma diffidando di essa o, addirittura, ripudiandola [9] .

    2. Tante poetiche quante utopie

    La conclusione della seconda guerra mondiale, in Italia, comportando lo sforzo collettivo di dar vita a una società democratica, segna la necessità, anche per la letteratura, di mutar pelle, nella speranza di cooperare al raggiungimento di un simile traguardo. Bisogno di rinnovarsi che appare a maggior ragione ovvio essa percepisca dopo il 1950. In quell’anno si suicida Pavese, che ha appena pubblicato La luna e i falò. Carlo Levi, già autore di Cristo si è fermato a Eboli (1945), licenzia L’Orologio, fra i massimi libri civili del nostro Novecento. Vittorini sta per lasciare il Pci (lo farà l’anno successivo), dopo che, nel decennio ormai alle sue spalle, ha curato la riedizione in volume di Conversazione in Sicilia (1941) e del Garofano rosso (1948), ha pubblicato Uomini e no (1945), ha fondato «Il Politecnico» (1945). Testimoniando il passaggio dal fascismo alla Repubblica, il neorealismo sembra insomma aver già dato il meglio di sé.

    Ciò non implica che, persino oltre gli anni Cinquanta, molti fra i principali narratori italiani smettano di elaborare poetiche neorealistiche. Vuole invece dire che quello di Cassola, per esempio, si rivelerà un neorealismo non solo minimalista ma, ormai, anche di maniera. O che Pratolini scivolerà sempre più nel bozzettismo. E significa, soprattutto, che diversi esordi narrativi, sovente ricondotti dai loro stessi autori nell’orbita del neorealismo, germineranno, in verità, da altri mondi espressivi. Il visconte dimezzato (1952) confermerà quanto Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e i racconti di Ultimo viene il corvo (1949) avevano già lasciato intendere: che Calvino dà il meglio di sé quando asseconda il suo gusto per la favola. Così come Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) saranno, più che un suo sviluppo, infedeli calchi manieristici del neorealismo, proprio perché Pasolini lo giudicherà – a quell’altezza – una poetica del tutto satura. Né può essere ritenuta un’opera squisitamente neorealistica Il mare non bagna Napoli (1953) di Anna Maria Ortese, giacché volume di prose d’arte, o di prose liriche, nate all’incrocio tra reportage e racconto.

    Ebbene, il neorealismo letterario – specie nei suoi esiti migliori, che si presentavano quali ricognizioni storico-sociali dell’antropologia nazionale – si nutriva anche di un’intenzione saggistica, decisiva anzitutto nelle opere di Levi o di Vittorini. La medesima intenzione riscontrabile nei capolavori del neorealismo cinematografico, stando almeno alle affermazioni del suo massimo teorico, Zavattini, convinto che esso dovesse piegare le pretese narrative del film di finzione alle esigenze etico-civili di uno sguardo di matrice documentaria [10] . Come pure un’intenzione simile a quella che ispirava le proposte di scrittori dello stesso periodo non apparentabili, però, al neorealismo. Il timbro intellettualisticamente farsesco di romanzi quali Don Giovanni in Sicilia (1941) e Il bell’Antonio (1949) o dell’incompiuto Paolo il caldo (1955) certificava il desiderio, nutrito da Brancati, di elaborare dissacranti disamine dei miti e dei costumi culturali dell’Italia fascista e postbellica. La viscerale patina estetizzante di Kaputt (1944) o della Pelle (1949) sembrava tradurre in eccedenza stilistica l’attitudine a un saggismo ideologicamente spregiudicato esibita da Malaparte nei testi teorici precedenti: Tecnica del colpo di stato (1931), per esempio. E, da Agostino (1944) in poi, Moravia, che aveva manifestato, con Gli indifferenti (1929) e Le ambizioni sbagliate (1935), una naturale propensione al romanzo anche filosofico, darà corpo a una variegata produzione narrativa che, per un cinquantennio, sfrutterà spesso un’ispirazione saggistica.

    Quando, a partire dagli anni Cinquanta, si tratterà ormai, per gli autori nati tra le due guerre, di rendersi insomma riconoscibili anzitutto ripensando i paradigmi estetici e il modello di scrittore engagé presupposti dal neorealismo, rivisitare la tradizione anche recente del romanzo-saggio potrà allora rivelarsi, in ambito narrativo, una strada utilmente percorribile. Vale, in sostanza, quanto osserva Calvino nell’ Appendice a Una pietra sopra (1980), raccolta di saggi stesi nell’arco di venticinque anni. Molti fra quei romanzieri o poeti condurranno cioè «una battaglia ben definibile, così come Pasolini nella rivendicazione di verità del dialetto o dell’umile Italia pre-tecnologica, e Fortini nella sua riforma morale come prefigurazione d’una società rigenerata». Oppure perseguiranno «un livello di scrittura stilisticamente omogeneo, sia nei testi d’invenzione che in quelli di polemica o di commento dell’attualità: per esempio Arbasino e, in altro modo, Sanguineti». Li si potrà dunque dire «autori come d’un libro continuo, un journal ininterrotto». A guidarli sarà infatti l’idea che Calvino spiega aver a lungo ispirato anche le sue scelte: poter «lavorare alla costruzione d’una società attraverso il lavoro di costruzione d’una letteratura». Convincimento che – non solo in lui e, a dire il vero, non in ciascuno di tali scrittori – decadrà giusto attorno al ’68, quando la società apparirà «qualcosa che risponde sempre meno a progetti o previsioni», un magma incline a rigettare «ogni schema e ogni forma», e quando la letteratura risulterà ugualmente «refrattaria a ogni progettazione» [11] .

    In definitiva, Calvino stesso, i colleghi da lui citati e vari altri autori all’incirca suoi coetanei si pensano – per citare una formula di Luperini – alla stregua di «scrittori-intellettuali», pronti a misurarsi criticamente con «un destino storico» che essi cercano «di interpretare e di influenzare non solo con un’attività di tipo giornalistico e saggistico, ma anche con l’opera narrativa e poetica»: o meglio, «attraverso l’intersecazione di questi settori d’intervento» [12] . Di riflesso, i loro mondi espressivi, pur diversi, condividono lo sforzo di ibridare i generi letterari, non semplicemente di rimescolarli. Sereni, con più profitto di altri, spinge per esempio la poesia in direzione della prosa, per dirla con Berardinelli [13] . La ragazza Carla (1960) di Pagliarani è più di un poema incline a farsi racconto: è un romanzo in versi. La saggistica civile dell’ultimo Pasolini – Scritti corsari (1975), Lettere luterane (1976) – sgorgherà da una visione del reale apocalittica proprio in quanto poetica. In Fortini, testi in versi e lavori saggistici sono gli uni la seconda forma degli altri. E la gran parte di questi autori, se si dedica al romanzo, lo fa, giustappunto, non tanto per costruire perfette macchine diegetiche, ma per dibattere specifici problemi socioculturali, accettando a tal fine – cioè pur di cogliere l’essenza dei fenomeni trattati – di dare sembianze le più spurie immaginabili alle loro prose o, in ogni caso, di renderne problematica la natura di occasioni anche narrative.

    Convertendosi quando in prosimetro e quando in diario intellettuale, quando in saggistica (esplicita o en travesti) e quando in racconto senza racconto o in manifesto di poetica, il romanzo-saggio, specialmente negli anni Sessanta, aspira quindi a misurarsi con i due temi che più intrigano i suoi autori. Intanto, può esaminare i processi di modernizzazione in atto nel Paese. Di conseguenza, può interrogarsi sulla sorte della letteratura, e dell’arte tutta, in quella società consumistica che sempre più va delineandosi. E molti scrittori che a esso danno vita reperiscono il loro modello, o comunque un riferimento quasi obbligato, nel modernismo di Gadda: in testi quali L’Adalgisa (1944), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957),

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