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Guardando da Fuori
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About this ebook

Cos’è la vita, se non un incontro? Incontro di vite, di esperienze, di idee. Ogni persona è un insieme di incontri diversi che la forma, quasi a plasmarla… 
In uno spaccato della società italiana, raccontato con semplicità e chiarezza, l’autore sceglie di narrare la propria storia in terza persona, osservando le interazioni senza però dimenticare la forza dei sentimenti che queste creano. 

Loredano Cioni, nato a San Miniato di Pisa il 23-05-1942 da una famiglia di Ponte a Egola.
In seguito, per cause diverse, ha abitato nella campagna di Pontedera, a Firenze, nel contado di Fiesole, nel Chianti a San Casciano Val di Pesa. A Pontedera venne a contatto con le prime problematiche sociali (lotte sindacali a cui parteciparono i figli dei contadini assunti alla Piaggio).
Diplomato perito in telecomunicazioni a Pisa viene assunto alla OTE di Firenze nel novembre del 1962. Di questa azienda rimarrà dipendente, salvo i dieci anni di distacco sindacale, fino alla pensione seguendone tutti i cambi delle proprietà e societari fino al 2002. Nel 1966 si iscrive a scienze biologiche, specializzazione biomedica, frequentando come possibile, non essendo ancora prevista la normativa per studenti lavoratori. 
Nel 1968 segue le lotte dei metalmeccanici in azienda, viene eletto a far parte del CdF. Nel 1971 viene chiamato alla dirigenza provinciale della FIM CISL e al sindacato a tempo pieno. Eletto segretario responsabile provinciale di Firenze della FLM, il sindacato unitario metalmeccanici (per la componente FIM CISL) è membro dell’esecutivo nazionale del sindacato unitario. Nel 1982 rinuncia alla carica per motivi familiari e rientra in OTE BIOMEDICA dove assume la responsabilità della pianificazione della produzione. La crisi aziendale intervenuta subito dopo il suo rientro lo costringe a riprendere l’attività sindacale interna. Dal 1984 al 1986 organizza l’attività di difesa dell’azienda che viene infine rilevata dalla ESA e rilanciata.
I primi approcci con la scrittura più organizzata sono conseguenti alla prima attività sindacale, sia come tentativi di interventi che come comizi e relazioni (1967-1968) e successivamente collegati alle sue esperienze e alle sue passioni.
Il volume Zone umide toscane prende il via a valle di una ricerca di dettaglio durata alcuni anni (1987 – 1991), che si sviluppò all’interno delle zone descritte coinvolgendo interviste, ricerche autonome, sistemi e metodi di analisi dei dati. 
Dopo la pubblicazione della prima opera, un nuovo impegno attraverso qualche cosa di più vicino ad un “libro”. Uno scritto romanzato, Viaggio in Maremma, che racconta un mondo ormai scomparso (la transumanza fra il Mugello e la Maremma). 
Nel periodo in cui abita a Fiesole vedono la luce altre pubblicazioni:
Signore nostro Dio, una ricerca sulla fede;
Due storie una vita, l’amore con la nuova compagna; 
Gli uccelli dei prati e delle paludi, estensione di una parte del libro sulle paludi.
Infine, inizia una sua biografia particolare, ma soprattutto una considerazione del rapporto con gli altri e con i contesti con cui viene a contatto. Il modo con cui osserva, gli detta il titolo GUARDANDO DA FUORI.
 
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9788830672451
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    Guardando da Fuori - Loredano Cioni

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

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    PREMESSA DELL’AUTORE

    A voi che avete aperto queste pagine un cordiale saluto e una raccomandazione dall’autore: quasi sempre uno, dopo aperto il libro, salta a piè pari le poche pagine che lo precedono o lo seguono… voi, per favore, abbiate la pazienza di leggere queste poche righe di premessa.

    Intanto questa storia è immaginata come trasposizione fantasiosa di una storia vera, vissuta direttamente dall’autore. La narrazione è poi fatta come se il personaggio che l’ha vissuta fosse visto in terza persona.

    Intendiamoci, ogni qualvolta ci sono stati i passaggi personali di gioie e dolori questi sono stati vissuti in prima persona dall’autore e dal suo alter ego, ma quando ha guardato come si muovevano gli altri, i gruppi, le istituzioni, è, molto spesso, riuscito a vederle, appunto, da fuori. Per cui le storie narrate sono per la maggior parte esperienze vere, raccontate prendendo in prestito ambienti e personaggi reali adattati.

    In qualche caso è possibile che l’angolo di visuale abbia portato l’osservatore a qualche errore di parallasse. Per cui è possibile che altri abbiano visto la stessa verità diversa. Siccome le storie vere, viste da quello là, magari non erano tutte esaltanti o encomiabili, avendo deciso di raccontarle egualmente, si fa premura di raccontarle con l’attenzione, ove sia opportuno, di non mettere nomi, di metterli senza cognomi o mascherarli un po’. D’altra parte, un mucchio di gente fa buone azioni di cui nessuno saprà mai niente, così come altri fanno carognate confidando nel buio o nell’anonimato. Non mi sembrano giusti i due casi, per cui le verità, anche se sono raccontate da chi le ha viste guardando dal suo angolo, mi sembra, se sono degne di nota, debbano essere portate alla luce.

    In merito a come questo quadro di insieme viene presentato, deve solo dirvi che, alla moda dei macchiaioli, l’autore ha provato a buttare sulla tela una serie di colpi di pennello, dati con direzione, intensità e colori diversi. Con la speranza che alla fine il quadro di insieme sia quanto voleva rappresentare.

    CAPITOLO I: LA PACE IN COREA

    Non aveva capito ancora come la sua vita fosse destinata a ribaltarsi su se stessa ogni dieci anni.

    Questo strano destino, non naturale al genere umano, per un po’ fu pensato normale e le variazioni come inevitabili.

    Da bambino non si fa caso a tutto ciò che succede, ma soprattutto l’amore della mamma (quando c’è) e la famiglia limitano di molto l’intervento del destino nella vita rendendola armonica. Nelle piccole prove fa sentire spalleggiati, nelle inevitabili angustie di crescita o in qualche piccolo problema di salute sempre protetti. I suoi ricordi di infanzia iniziavano dopo la fine della guerra e sinceramente erano pieni della luce dei campi della Val d’Egola, delle corse con i cerchi, delle partite a trottola, dei frutti acerbi predati ai coloni di santa Lerzaia, delle bighe di palline colorate giocate sul piazzale della chiesa, della scuola, della casa del popolo.

    Solo ricordo drammatico: l’attentato a Togliatti! Fu richiamato e chiuso in casa, mentre da fuori arrivavano notizie di scontri con la polizia e arresti di conoscenti. Scontri subito fermati dallo stesso Togliatti sopravvissuto all’attentato. Il resto, pur nella modestia di una famiglia piccolo borghese, era amore ricevuto e reso come sanno fare i ragazzi che vengono su senza complessi per la certezza dei rapporti interni alla famiglia. Litigi c’erano anche in casa sua: fa nuora e suocera (mamma e nonna) fra figlia e madre (zia allora giovinetta e nonna) e discussioni fra nonno e babbo, ma tutte cose che si aprivano di giorno e si chiudevano alla sera. Anche fuori con i vicini ed i paesani i rapporti li ricordava pieni di apertura e disponibilità. Forse la guerra trascorsa aveva lasciato un bisogno insopprimibile di pace in tutti.

    Le porte di casa durante il giorno erano sempre aperte ad accogliere chiunque si affacciasse perché nessuno avrebbe tentato di approfittarne; gli stessi ladruncoli, non volendo rischiare di passare male, lavoravano solo di notte. Per i ragazzi il pericolo più grande era rappresentato dalle biciclette che silenziosamente potevano metterli sotto, da qualche rara macchina durante le partite a palla sulla strada maestra, dai primi bagni sopra la diga dell’Egola. Le prostitute erano raccolte nei casini, la droga nessuno sapeva cosa fosse, caso mai era cosa da ricchi depravati. Unici, tenuti d’occhio, erano i carrozzoni di zingari. Quando ne passava qualcuno, andandosi poi a sistemare lungo l’Egola, chi lo incontrava passava parola per tutto il paese e per qualche giorno pochi si distraevano lasciando cose incustodite. I distratti poi, criticati da tutti, dovevano rammaricarsi con loro stessi più che con gli zingari dei danni subiti.

    Ogni famiglia, pur facendo i propri affari, teneva attenzione ai propri figli e, contemporaneamente, a quelli degli altri, assicurando una protezione discreta. In fondo i ragazzi, a gruppi, si proteggevano anche fra loro. Intendiamoci la protezione non comprendeva ogni attività giovanile: le scazzottate dopo scuola, le sassaiole fra rioni, la predazione dei frutti maturi (ciliegie) o acerbi (susine) non erano comprese e chi tornava con un occhio nero, un bernoccolo, o qualche sonora pedata nel fondo schiena se la teneva, stando più attento per il futuro.

    Quando scoppiò la pace fra le due Coree invece nessuno poté proteggere nessuno, sia in casa che nei dintorni.

    Generalmente gli eventi drammatici, tanto da non avere alternative, succedono allo scoppio di una guerra; in famiglia, e non solo, successero allo scoppio della pace. Non che la pace non fosse ritenuta importante e fosse desiderata la guerra, ma le relazioni fra causa ed effetto, nella storia, a volte sono particolari: ciò che è assolutamente da perseguire con ogni sforzo a volte, per qualcuno, può diventare deleterio come la stessa guerra.

    La concia del cuoio era la risorsa su cui avevano imparato, già prima della grande guerra, a reggersi gli abitanti di Ponte a Egola.

    CAPITOLO II: NONNO ATTILIO

    Il nonno di Giovanni, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, aveva addirittura avuta la dispensa militare da parte del Ministero della guerra, perché insostituibile per le sue particolari capacità di scarnitore di pelli e responsabile della produzione del cuoio di una grossa conceria.

    Nonostante fosse conosciuto per le sue idee anarco-socialiste (seguiva Pietro Gori ogni qualvolta veniva a fare un comizio in zona), era apprezzato sia dai compagni di lavoro come dagli imprenditori. Questo gli aveva consentito di essere eletto fra i dirigenti della locale camera del lavoro e fare una esperienza come sindacalista, partecipando alle trattative del comprensorio del cuoio.

    Nel 1920-1921, quando in progressione anche nella zona industriale del cuoio partì il bocci-bocci, lui si trovò fuori dalla CGIL, ormai in balia della componente comunista a partire dal congresso di Livorno.

    Le richieste sindacali presentate subito dopo guerra dalla CGIL agli imprenditori, partite all’inizio in accordo fra le diverse anime della sinistra, si erano poi diversificate profondamente nella tattica, ma soprattutto nella strategia. Apparve sempre più chiaramente ai moderati, ma anche agli imprenditori, che non erano finalizzate ad obbiettivi concreti, ma all’avvio di una fase rivoluzionaria progressiva. Infatti, ogni qualvolta si raggiungevano gli obbiettivi, base della richiesta sindacale, partiva immediatamente una ulteriore e più alta richiesta su cui portare lo scontro. Come nel resto dell’Italia anche nel comprensorio del cuoio la speranza, aperta in Russia dalla Rivoluzione di Ottobre e programmata a Livorno dall’ala comunista delle camere del lavoro (la futura CGIL), stava portando a compimento la strategia della progressione delle lotte.

    Attilio, che ben presto aveva capito e non condivideva questa ipotesi come disegno politico, per le conseguenze sulla gente e nel paese e per i gravi rischi di possibile involuzione politica, cercò inizialmente di tenere il movimento ancorato agli obbiettivi. Dopo diversi tentativi di legare richieste, lotte, risultati, alla reale situazione delle aziende, messo in minoranza più dall’aggressività minacciosa degli oltranzisti che dai numeri della democrazia, spesso poco ortodossa, fu costretto a ritirarsi ed uscire dalla camera del lavoro. L’ultima richiesta era stata particolarmente esosa: i dirigenti della CGIL pretendevano una nuova sede e volevano che fosse pagata dagli imprenditori del cuoio.

    L’avvento del fascismo fu la tragica fine di questa spirale di progressione rivoluzionaria.

    Imprenditori, padroni terrieri, chiesa, riuniti dalla paura di una fase crescente di aggressività senza possibile via di uscita e mediazione, trovarono in Mussolini il loro difensore. Attilio non decise fra sé quale dei due gruppi fosse stato più sconsiderato per il futuro del paese, certamente le errate e gravi scelte della CGIL rossa, la sua incapacità a considerare la realtà italiana del momento, erano direttamente responsabili, non meno di coloro che l’avevano creato, dell’avvento del ventennio fascista in Italia. Quante volte ebbe amaramente a sorridere sulle grida antifasciste, successivamente sentite, da tanti tromboni di suoi ex compagni e dai loro discendenti. Il peso del sangue, della mancanza di libertà, della mancata crescita culturale e politica dell’Italia, pesavano su quelle incoscienze non meno che su quelle di chi il ventennio lo aveva costruito e diretto.

    Attilio, ritiratosi nel privato, aveva messo a frutto la sua capacità lavorativa divenendo un ottimo artigiano del cuoio. Ogni qualvolta il regime si ricordava del suo passato socialista inserendolo, come i vari comunisti rimasti ancora tali, fra la gente da purgare, alcuni amici socialisti che si erano adattati alla nuova situazione aderendo ai fasci, memori dell’amico e della stima che continuavano ad avere per lui, lo avvisavano e lui, passata voce anche a coloro che non si erano meritato questo riguardo, si eclissava per il tempo necessario.

    In maniera abbastanza serena la famiglia era arrivata all’ultima guerra cresciuta di numero, ma non di reddito. Artigiani erano, artigiani rimanevano, solo riuscendo a campare con tre figli grandi di cui uno da far studiare. Le idee in casa però non erano cambiate. Solo il babbo, secondogenito, le aveva più radicali, unendo alla base anarchica, comune a tutti, una propensione fortemente marxista che l’aveva fatto iscrivere al partito comunista clandestino già nel 1940.

    Pur passando attraverso i pericoli la guerra non aveva infierito, come per altri, con i lutti che solitamente si porta appresso. Anzi durante la guerra sia il babbo, semplice fantaccino, che lo zio, ufficiale di fanteria, durante una licenza, si erano sposati per cui, alla fine della guerra, erano da aggiungere alla famiglia Giovanni ed una sorellina (Tatiana), nata proprio sotto le cannonate del passaggio del fronte e registrata in comune a San Miniato sei mesi dopo la nascita e il cugino Fabio.

    La base anarchico rivoluzionaria veniva da lontano in casa Cioni, anche se prima era conosciuta con il nome non meno problematico di liberalismo. In casa, infatti, faceva bella mostra di sé la rossa camicia garibaldina del nonno di Attilio, pecora nera della famiglia piccolo borghese di un funzionario del granduca di Toscana. Contro la famiglia, il giovane scapestrato aveva partecipato ad alcune azioni garibaldine (forse all’assalto di porta Pia), poi, divenuto eroe nazionale Garibaldi, la camicia e le armi di questo nuovo italiano erano assurte a medaglia da mostrare.

    Al rientro nel paese, dopo il passaggio del fronte di guerra, la camicia e le armi erano state rubate e del garibaldino rimase solo il suo spirito nei Cioni suoi discendenti.

    Un colpo di fortuna per la ripresa sembrò essere la fuga di un gerarca ex socialista che seguì lo spostamento a nord dei gruppi fascisti nella repubblica di Salò. Amico di Attilio gli cedette, per tutti i soldi che Attilio riuscì a mettere insieme, un carico di tannino (acido tannico che serviva per la concia delle pelli) che aveva anteguerra nascosto in un suo magazzino. Aveva bisogno di trovare soldi per sfuggire alle vendette che di lì a poco avrebbero iniziato a consumarsi.

    Tannino di mimosa estremamente leggero che Attilio e Oroveso adoperarono per conciare le pelli di coniglio, uniche pelli che in quei giorni si riuscivano a trovare.

    Avvenne uno di quei miracoli che ogni tanto succedono: il tannino di mimosa, che non sarebbe andato egualmente bene per il cuoio grosso, si rivelò ottimo per le leggere pelli di coniglio che provenivano dalle campagne liberate di mezza Italia. La mimosa rendeva la leggera e debole pelle del coniglio resistente come quella delle capre, solitamente adoperata per foderare le calzature. Non era stata solo fortuna, ma l’intuizione del babbo aveva colto nel segno e la cosa cominciò ad andare veramente bene. In società con altri due parenti Cioni, anche loro padre (cugino di Attilio) e figlio, presero la grande conceria dell’orologio in affitto ed iniziarono una produzione industriale su larga scala. La rapidità del ciclo produttivo, l’altissima qualità del prodotto, consentiva guadagni alti. Quasi ogni giorno i quattro Cioni si dividevano, dopo cena, un pezzola da colono ricolma di spiccioli.

    Purtroppo, come spesso succede, l’invidia muove più della comprensione. Il maresciallo dei carabinieri del paese, anche lui nel commercio del cuoio con altri soci, non riuscendo a trovare le ragioni di tanto successo e in difficoltà economiche, emise un’ordinanza di blocco di tutte le attività in attesa che si ricostituissero le autorità di amministrazione e controllo.

    Questo impedì che i quattro Cioni divenissero degli industriali e li riportò, con un po’ più di polso, a fare gli artigiani.

    Nel tempo Attilio e suo cugino rimasero soci mentre, egualmente, i rispettivi figli fecero società insieme.

    La guerra finita da tempo permetteva una attività ad alterne vicende. A periodi buoni si susseguivano altri meno buoni, ma le due coppie di Cioni, riuscivano, per la buona qualità prodotta, a tenere il mercato rafforzandosi fino a costituire un deposito a Napoli. Allo scoppio della guerra di Corea il cuoio ebbe una forte impennata. Gli eserciti di tutto il mondo si preparavano ad un’altra eventualità catastrofica e una delle preparazioni più urgenti e necessarie, oltre alle svariate armi sperimentate, era la necessità di avere scarpe in grande quantità per i soldati. L’incetta di cuoio sia nazionale che internazionale effettuata dai diversi governi portò ad un’alta produzione e all’accantonamento di grandi riserve. Tutti ebbero commesse governative e per la produzione del libero mercato rimase poco spazio. Il cuoio andò alle stelle e tutti comprarono pelli anche in quei paesi solitamente non cercati per i gravi problemi igienico-qualitativi presenti. Una prima conseguenza fu il carbonchio scoperto in tempo al babbo e salvato perché il vecchio medico di paese aveva avuto in altri tempi esperienza in merito. Altra conseguenza fu che iniziarono ad affluire in paese pellami dal Centro Africa, dal Madagascar e da altre zone fuori dall’Europa, essiccati in maniera errata, per cui già internamente marciti. Le pelli piegate ed essiccate non potevano essere verificate e le sorprese si rivelavano solo a ciclo di concia già molto avanzato, per cui si aveva il doppio danno della perdita della pelle, parziale o totale e dei materiali, dei tempi, delle attrezzature impegnate a vuoto.

    Chiaramente data la forte richiesta ed i relativi margini operativi, si potevano sopportare anche questi inconvenienti.

    Tutto questo andò bene e durò fino allo scoppio della pace fra le due Coree.

    CAPITOLO III: OROVESO

    Come erano diversi i due fratelli Cioni: Alberio, ordinato, preciso, attento, maestro, radical-socialista; Oroveso, libero, disordinato, giocatore, comunista.

    Anche il fascismo aveva provato più volte ad iscriverlo per forza ai fasci. Poi immancabilmente più volte lo avevano radiato perché non si presentava mai alle adunate. La ragione principale non era squisitamente politica, anche se non condivideva i contenuti e i metodi del fascismo, ma strettamente personale: lui non accettava naturalmente la gerarchia, l’ordine e limiti alla sua libertà. Appunto, come era possibile allora che fosse comunista? Lo era per ragioni ideali legate all’eguaglianza, alla necessità della lotta contro coloro che opprimono o sfruttano gli altri, alla libertà naturale di ogni uomo. Questa strana qualità era così innata in lui che già da molto piccolo la sentiva in termini assoluti. Tanto assoluti che la mattina degli esami della licenza elementare, giudicando più bello e interessante andare a caccia di ranocchi in Egola, preferì questo alla licenza elementare, che non prese più. Eppure, più tardi prese una tale passione per la poesia che lesse e imparò a memoria la Gerusalemme liberata, L’Orlando furioso, La Divina Commedia che periodicamente declamava con grande piacere.

    Capace di salire da un canale di scarico della doccia su qualsiasi tetto a prendere nidi di passeri, cogliere ogni frutta da ogni albero, non importava quanto alto e ovviamente non necessariamente di sua proprietà, mai rubando a nessuno, ma semplicemente cogliendo i frutti che madre natura metteva a disposizione di tutti coloro che sapevano prenderli. Il giorno della sua prima comunione, bianco vestito come si usava in quei tempi, salì di nascosto sul tetto dei nonni presso i quali veniva tenuto il rinfresco. Alzare le tegole per prendere gli uccellini non comportava sempre riuscire a rimettere a posto ed in ordine quelle tegole, per cui, dopo una razzia, il malcapitato proprietario del tetto si trovava allagata la casa al primo acquazzone. Lo zio, che abitava proprio sotto quel tetto, lo vide dall’aia intento alla sua opera e promettendogli un castigo adeguato cercò di prenderlo. Chiusa ogni via di fuga dallo zio imbestialito, Oroveso non trovò di meglio che gettarsi nella cappa del cammino, meno male spento. Atterrò in cucina mentre tutti erano ancora a tavola e stentarono un po’ a rendersi conto di chi potesse essere il coso nero piovuto come Babbo Natale fuori tempo. Solo i cuginetti, che ne ammiravano le capacità, apprezzarono la situazione dandolo a vedere, gli altri di famiglia non lo dettero a vedere, ma ognuno si senti un po’ lui e, fuori dalla parte opportuna sostenuta per la situazione, non insistettero più di tanto nella romanzina.

    In fondo, in paese era simpatico a tutti, anche a quelli che non lo condividevano e ne invidiavano le strane capacità di essere libero sopra tutto e tutti. Anche da militare o sottoposto alle regole dei lavoratori dipendenti riusciva a non esserne condizionato. Essendo però stato, a suo modo, antifascista, fu quasi naturale che già nel 1940 fosse iscritto, in clandestinità, nei ranghi segreti dei comunisti.

    Proprio per non essere sottoposto a troppe gerarchie scelse un lavoro che lo avrebbe tenuto libero in mezzo a tutti: il barbiere. Questo lavoro, oltre che liberarlo fra i civili, lo liberò anche nella vita militare, vissuta in un periodo tutt’altro che tranquillo.

    Fu chiamato militare di fanteria nel 1938 e, subito dopo il congedo, fu richiamato perché l’Italia era entrata in guerra. Un esercito di uomini aveva bisogno di tante cose che in molti si davano da fare a procurare, ma un medico o un barbiere erano opportunità che una compagnia, un battaglione, cercavano assolutamente di mantenersi. Se un capitano lo mandava in punizione si trovava sempre, poco dopo, un colonnello che aveva da farsi la barba e che lo mandava libero o comunque ne riduceva la pena; se era il colonnello a punirlo, esisteva un generale che, poco dopo, ne avrebbe avuto bisogno.

    Essere incapace di sopportare le disposizioni e ancor di più gli ordini nella vita militare è una grandissima iattura, rimediabile solo se si è un buon barbiere. La porta della prigione di caserma per Oroveso era sempre aperta per entrare, ma anche per uscire. Ma soprattutto la prigione militare era per lui come l’inferno italiano per Pierino: sceglierlo dava sempre la certezza che la pena, per quanto disgustosa, non sarebbe mai stata applicata e si sarebbe rivelata comunque fittizia. Inoltre in prigione non si era mai soli né prigionieri, ma in momentanea vacanza dalla vita militare e in compagnia per farsi un ventuno, un poker, una scopa, secondo le capacità dei compagni di galera.

    Come militare aveva iniziato subito male, infatti, quando si presentò alla visita medica, fidando nel suo fisico deperito e in una tosse profonda, che lo tartassava da diverso tempo, dichiarò malattia polmonare. Il capitano medico, tenendolo a distanza, più preoccupato per sé che non per lui, lo aveva mandato in osservazione in ospedale. Trovandolo sano l’ospedale lo rimandò al reparto e questa volta, sempre senza visitarlo, il medico lo dichiarò abile per la partente spedizione in Jugoslavia. Fu salvato invece dalla richiesta di un barbiere per la caserma di istruzione reclute.

    Un giorno tornò a casa in licenza e presa Santuzza sulla canna della bicicletta la portò in chiesa a sposarsi. Non avendo testimoni supplirono con il sacrestano e un passante che accondiscese. Il relativo viaggio di nozze fu il rientro in bicicletta a casa, dopo una deviazione presso il pollivendolo e l’acquisto di tre polli ed alcune uova per i successivi giorni di letargo in cui i due si ritirarono.

    La licenza non durò più di quattro giorni per cui quello fu il tutto: matrimonio in chiesa, cerimonia nuziale, viaggio di nozze. La distanza fra caserma e casa di abitazione era di mezz’ora di treno scarsa (Pisa, San Romano), per cui le fughe notturne, le assegnazioni di CPR, le liberazioni a fine mattina erano quasi la normalità. Sicuramente almeno Giovanni fu concepito proprio durante una di queste fughe dalla caserma.

    Il rischio più grosso lo passò quando vinse troppo a poker ad un tenentino che, approfittando della preparazione di una urgente spedizione in Russia, a supporto dell’esercito che le stava prendendo di santa ragione in quelle gelide lande, per vendetta lo assegnò al corpo di spedizione. Pochi di quei compagni, che per una breve preparazione si trovò accanto, sono tornati. La voce della vendetta arrivò al comando che richiamò Oroveso ormai sul piede di partenza. Non si è mai saputo se al suo posto sia partito il tenentino.

    Di lì a poco, in seguito alle decisioni dell’otto settembre, l’esercito si sfasciò e Oroveso tornò e rimase a casa.

    Figlio di un conciapelli provò anche lui a intraprendere, con nonno Attilio, la carriera artigianale.

    A questo punto si innesta la storia, precedentemente narrata, del tannino di mimosa e l’avvio della carriera di artigiano del cuoio di Oroveso, momentaneamente ex barbiere.

    CAPITOLO IV: RIPARTIRE DA ZERO

    La pace di Corea prese le due società dei cugini Cioni (padri e figli) in un momento di attesa. Venduto tutto il cuoio finito precedentemente Oroveso consigliò a tutti gli altri di mettersi in attesa per vedere gli eventi.

    Gli altri tre Cioni (Attilio, suo cugino ed il di lui figlio) erano persone abituate a lavorare, per cui stare senza fare niente era di per sé una grave iattura. La rovina di queste quattro famiglie fu proprio causata da questa incapacità.

    Nonostante Oroveso si sgolasse a indicare di non muovere foglia, Attilio fu tentato da un carissimo amico che gli propose, ad un buon prezzo (valutazione ante pace), una grossa partita di pelli che avrebbe assicurato lavoro per un bel periodo. L’amico carissimo aveva commesso l’errore di aver comprato una partita troppo grande pensando a una speculazione che la pace gli annientava. Inoltre avendone messa in lavoro una parte, probabilmente si era accorto che le pelli, provenienti dal Madagascar, erano mal conservate, per cui in gran parte marce. Nel segno che un caro amico non ti mette in mezzo, Attilio, senza dire niente agli altri, comprò l’intera partita proposta a un prezzo da amico. Oroveso, che non aveva chiaro tutto l’affare (il personaggio amico non era capace di dare ad altri un guadagno di cui fosse stato certo), dopo aver redarguito il padre per l’imprudenza, si tirò fuori dall’affare insieme al cugino. Solo i due padri firmarono le cambiali di acquisto e dettero via ai lavori.

    Ben presto, dopo le prime lavorazioni, apparve per intero l’inganno, che si sommò al calo dei prezzi del cuoio per sovrapproduzione di sistema. Il governo ritirò le scarpe militari solo per quanto aveva in ordine fermo, ma non i preordini, per cui gran parte degli artigiani del cuoio, come gli industriali delle calzature, si trovarono rapidamente con giacenze di magazzino enormi. Le svendite a qualsiasi prezzo erano continue. Per i due Cioni a disastro si sommò disastro. Le pelli uscivano dalla lavorazione in gran parte da buttare, per cui recuperarono solo il 30 – 40% di cuoio di media qualità. Sembrò comunque una fortuna che il loro deposito di Napoli assorbisse tutta la produzione. Questo avrebbe permesso di contenere il disastro e, pur in presenza di perdite notevoli, per i precedenti guadagni avrebbero potuto reggere la situazione economica dell’azienda.

    Le disgrazie però, come tutti sanno, solitamente sono come l’uva: si formano a grappoli.

    Il deposito di Napoli, dopo aver assorbito gran parte della produzione e averla ridistribuita nel territorio ad industrie e calzolai, non riscuotendo quasi da nessuno, dichiarò fallimento. Nessuno pagava più a Napoli e loro non avrebbero pagato il cuoio ricevuto da Ponte a Egola. Questo annientò Attilio e suo cugino che dovettero fermare ogni pagamento. I creditori e fra questi l’amico che gli aveva venduto le pelli, diventarono particolarmente aggressivi, tanto che Attilio fu costretto a sparire.

    Il dramma del nonno, nonostante il tradimento dell’amico e il coinvolgimento in una catena di fallimenti, fu particolarmente doloroso per il fatto di aver dovuto mancare ad una sua parola e non aver potuto tenere fede agli impegni presi. Attilio si rifugiò dal figlio Alberio a Montespertoli e Oroveso intraprese una trattativa per scongiurare la bancarotta del padre. Purtroppo, Attilio e suo cugino avevano perso tutto per cui, da soli, non avrebbero potuto percorrere la via extragiudiziale di un accordo di pagamento percentuale

    Quando ogni altra strada sembrò preclusa Oroveso, coinvolgendo il cugino, si accollò la formulazione del pagamento del 22% per chiudere il contenzioso. I creditori accettarono, anche se l’amico, che cedendogli le pelli marce aveva sperato di aver trasferito ad Attilio il suo debito, non voleva accettare. Lo convinsero gli altri, conoscendo la storia, in maniera spiccia e, poco dopo, furono le banche, facendolo fallire, a pareggiare il conto.

    Oroveso pagò il debito del padre con quasi tutti i suoi risparmi. Anche se la sua perspicacia l’aveva aiutato a non farsi travolgere dalla crisi, il suo cuore l’aveva coinvolto accettandone di pagare tutte le conseguenze.

    In quei tempi Giovanni frequentava la quarta elementare. Per la prima volta la classe, prima mista, era stata divisa spedendo in un’aula distaccata i maschi e lasciando le femmine nella scuola elementare Spalletti Stellato. Fu un anno veramente triste. In casa il pianto, mal celato delle donne per il dramma economico che si stava profilando, si era unito alla sparizione del nonno, ai pensieri del babbo. La suddivisione delle classi poi lo aveva annichilito.

    In classe con lui, dalla prima e fino alla terza, c’era sempre stata una bimba bionda dai meravigliosi e sognanti occhi chiari: Emma, figlia del fabbro del paese. Fin dal primo giorno di scuola i loro occhi si erano incontrati ed entrambi, divenuti rossi di emozione, avevano volto lo sguardo in altra direzione. Facevano la stessa strada per la scuola, spesso per mano dei parenti che ignoravano questa dolcissima difficoltà.

    Prima o poi, crescendo, Giovanni avrebbe preso il coraggio a due mani per andare oltre quell’attimo di sorriso e quel rossore, prima di voltarsi da un’altra parte. Non essendo più nella stessa aula, la cosa, oltre che dolorosa, diventava più difficile. Quando poi scoppiò il problema del quasi fallimento, prima la vergogna di questo problema divenuto pubblico in paese e poi le decisioni della famiglia di trasferirsi, trasportarono quel visetto e quegli occhi nelle lande ove finiscono i sogni più belli, ma irrealizzabili.

    Tutti i componenti della famiglia non avevano il coraggio di uscire in paese e spesso stavano in casa rintanati a meditare e piangere sulla tragedia che li stava distruggendo. Pur non avendo chiari tutti i contorni dei problemi anche Giovanni evitava di uscire in strada. I familiari dell’amico, cercando di fargli dire dove si fosse rifugiato il nonno, lo avevano più volte aggredito con male parole. Come sono strane molte persone! Li avevano messi alla fame sfruttando il loro rapporto di amicizia con Attilio e ora, che il dramma cadeva addosso anche a loro, colpevolizzandoli, pretendevano la restituzione dei danni.

    In primavera, completato il pagamento percentuale, Oroveso, con gli ultimi spiccioli salvati, riuscì ad acquistare una vecchia bottega di posta sulla via Volterrana, a metà strada fra Pontedera e Ponsacco. Pur avendo quasi tutte le patenti possibili (bar, alimentari, chincaglieria, trattoria…) era talmente mal ridotta che il proprietario comprava lo zucchero un chilogrammo per volta. Inoltre, non avendo soldi disponibili, faceva il cambio fra pasta e pane con la farina con i contadini del posto. Questo era ciò che le poche lire rimaste consentivano e i Cioni si trasferirono alla Borra di Pontedera in una situazione quasi disperata, che solo la dignità di ciascuno di loro riuscì a mostrare meno dura. Le famiglie della Borra, in generale, disponendo solo dello stretto necessario, erano così economicamente limitate che la nuova povertà dei Cioni fu in armonia con il contesto.

    La Piaggio, dopo le lotte durissime e la repressione del Dopoguerra, riprese a macinare assunzioni. Gran parte dei giovani contadini, pur rimanendo la famiglia nel podere, entrarono in fabbrica ed iniziò con questo la circolazione di moneta, fino a quel tempo quasi sconosciuta. Veramente anche per Giovanni e i suoi cominciò un periodo di povertà migliore.

    Il luogo ove erano piovuti era particolare sotto molti aspetti: era zona di contadini a metà strada fra una città molto presuntuosa (Pontedera) e un paese che aveva conosciuto la fame più disperata (Ponsacco), tanto da non vergognarsi di avere nello stemma un uomo che con un sacco sulla spalla, da cui usciva una testa di pollo, attraversava un ponte. Chiaro segno, su cui erano concordi tutti in zona, di quale attività aveva rappresentato la principale risorsa della gente: rubare ove ci fosse stato materiale per poterlo fare.

    Il tempo però, in cui i Cioni arrivarono alla Borra, aveva già messo alle spalle i tristi ricordi del passato e l’industria del mobile faceva risplendere le luci delle mostre sempre più numerose ed attive. Solo il vernacolo e il modo di rapportarsi, privo di ogni finezza, sia a Pontedera e ancor più a Ponsacco, dava il segno di un passato ancora presente.

    Alcune popolane di Ponsacco, già avanti con gli anni, non partecipavano ai tentativi di aggiornamento culturale che le nuove situazioni economiche stavano richiedendo. Nei vicoli ancora poteva succedere che, mentre parlavano, tranquillamente facessero pipi in piedi, chiaramente perché sotto i lunghi gonnelloni non portavano niente: il gonnellone era l’unico abbigliamento posseduto e l’igiene era un problema inesistente. La vera preoccupazione che aveva segnato la loro vita era di assicurare, ogni giorno, almeno un pasto vero e nei periodi di abbondanza anche due, per i figli e nipoti. Questi retaggi mentali sarebbero scomparsi da Ponsacco solo con la loro morte.

    Una di queste ultime, che Giovanni vedeva passare in giro per le sue razzie, era ancora presente. Eppure, i figli e nipoti erano ormai industriali del mobile. Non riuscì mai a cambiare le abitudini. Nottetempo continuò, fino a che ce la fece, a percorrere le stradine, rubando erba per i conigli, grano, granturco, ortaggi, uva, ed ogni frutta che potesse raggiungere, per assicurarsi dalla fame incipiente a prescindere. Carattere durissimo per nascita e scuola di vita. Una volta fu sorpresa da un contadino a far man bassa nel podere. Questi, che aveva da farle pagare le molte volte che non era riuscito a prenderla, le fece una energica bastonatura. Lei non emise un lamento, ma nella notte successiva gli tagliò le viti ad altezza del terreno, per tutto un filare. La guerra strisciante fra poveri coloni e poverissimi

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