La sindrome della cometa
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Anteprima del libro
La sindrome della cometa - Francesco Soldini
Capitolo I
Introduzione al Queensland
Dal finestrino dell’aereo Luca vedeva l’imponente distesa di casette che caratterizzava la periferia di Sydney, in meno di un giorno poteva volare su tutta la Terra. Incredibilmente questa consuetudine era solo fantasia all’epoca della nascita dei suoi nonni. In un mese di viaggio aveva visitato i sultanati della costa est della Malesia continentale e il Sabah, il nord del Borneo. Il suo inglese era claudicante tanto quanto quello parlato dai malesi ma sapeva farsi capire. Con gli occhi pieni dell’Australia vista dall’alto cercava di pensare all’esperienza fantastica di poter girare il mondo liberamente. Si chiese cosa avrebbe voluto per il proseguimento dell’avventura.
Il 24 marzo 1996 Luca stava rientrando al corso di ripetizione presso una scuola reclute dell’esercito svizzero, aveva posteggiato la macchina in una stradina di montagna e faceva poca attenzione all’aria frizzante delle notti alpine. Per una brutta abitudine non apprezzò gli abeti ancora parzialmente coperti di neve, non badò al paesaggio delimitato da cime imponenti. Dopo un fine settimana denso di preoccupazioni avrebbe dovuto riprendere il camice bianco dell’infermiere, in fondo fare il soldato d’ospedale gli era sembrato interessante.
I suoi pensieri furono folgorati dallo stupore, alzando distrattamente lo sguardo la realtà cominciò a diventare sogno; nel cielo notturno brillava una cometa enorme, sarà stata tre volte più grande della luna, con la coda che dallo zenit correva fino alla cresta delle montagne. L’enormità del fenomeno lo sconvolse, anche se gli parve meno luminosa della cometa di Halley. Luca rimase immobile a lungo, ricordò confusamente che al telegiornale era passata la notizia di un giapponese che aveva scoperto la nuova cometa, con spirito scientifico l’aveva battezzata col suo nome mentre altri astronomi la chiamavano poeticamente con un numero. Poteva essere un segno del cielo e poteva essere un fenomeno astronomico razionale, ammirò il firmamento limpidissimo d’alta montagna e quella notte s’addormentò senza pensieri. Spesso la sua attenzione era attirata dalle consuetudini senza capire dove stesse andando. Allora decise di viaggiare lasciandosi guidare da una cometa, sempre senza avere una meta precisa ma rompendo con la normalità cittadina. Volle stupirsi di ciò che si presentava come se guardasse il cielo lontano dalle luci elettriche. Avrebbe vagato senza programmi e ogni esperienza avrebbe dovuto chiamare la prossima seguendo la luce interiore che sgorgava dal ricordo, dall’entusiasmo vissuto. Come se il cielo si illuminasse portandolo in un universo più vasto. Dove sarebbe andato? La cometa andava verso sud-est, dall’altra parte del mondo sarebbe arrivato in Australia.
Secondo gli amici quell’avventura era guardata con sospetto perché troppi esempi avevano ancorato la convinzione che la ricerca di se stessi nascondesse un male oscuro.
La sindrome della cometa
La sindrome della cometa
di chi vaga senza meta
nella stanza di se stessi
dove c’è il nesso
col nostro pianeta
dove c’è la pianta
dello straordinario percorso
lungo il confine del forse.
Mentre partiva per l’Oceania, la sua ragazza, Lilla, lo prese in giro:
Va' dove ti porta il cuore.
– Scherzò.
Ovviamente andrò dove mi portano i travelers cheques.
Si sentiva un uomo fortunato. In un attimo sbarcò a Sydney. Prima che gli perquisissero i bagagli la guardia ai passaporti gli parlò in un ottimo tedesco, essendo svizzero Luca era identificato con qualcosa di teutonico. Da bambino aveva conosciuto italiani che si complimentavano per come i ticinesi parlassero bene l’italiano, gli avevano chiesto se fosse difficile parlare lo svizzero.
Una volta sistemato in un albergo modesto del centro, la televisione gli confermò che a maggio in Australia sarebbe arrivato l’inverno (le stagioni si invertivano a sud del pianeta). Nella zona di Brisbane stava piovendo intensamente, un’alluvione distrusse il raccolto nel Queensland del sud. Una delle conseguenze della deforestazione massiccia era il dissesto idrogeologico, fiumi di fango che portavano via il paesaggio rigoglioso insieme ai raccolti e alle case.
Al bar dell’albergo incontrò un coetaneo proveniente dalla Danimarca, Oliver. L’amico gli raccontò che voleva fare un mese di vacanza tra Sydney e la costa dei surfisti presso Brisbane, la Gold Coast. Salutando il danese pensò che non stava imparando a viaggiare per essere obbligato a cercare le attrazioni turistiche, non gli fu difficile decidere di ripartire subito sopra il Tropico del Capricorno.
Al mattino fece una visita approssimativa del centro e capitò su una statua imperiosa della regina Vittoria, molto autoritaria, proprio davanti a un grande incrocio. Di fianco alla grande madre inglese c’era anche un bronzo del suo cagnolino Islay, un indizio d’affetto che contrastava con l’imponenza severa della donna. Era stata l’ultima imperatrice capace di indirizzare il mondo dando il suo nome a un’epoca. L’Australia era stata sotto l’influenza inglese dell’impero di stampo vittoriano che più di un secolo addietro veniva considerata la maniera legittima, universale e immutabile di guidare la Terra. La supremazia mondiale era una realtà ammirata, temuta ma anche invidiata dai pretendenti a nuovi imperi durante il XX secolo. Tutto il secolo passato aveva accelerato un interscambio veramente planetario di guerra e di pace. Eppure la regina Vittoria troneggiava ancora da una statua ricordando a Luca che l’Australia faceva parte del Commonwealth e, progressivamente, si allineava alle regole di vita delle metropoli come stava facendo tutto il pianeta.
Oltre al nucleo di grattacieli spuntavano dei palazzi in stile coloniale e vide la metropolitana sopraelevata. Il cemento conviveva con la pietra senza le villette anonime della periferia di Sidney. Proseguendo vide l’Opera House di fronte, da lontano, sull’acqua. Con il suo strano tetto formato da grosse conchiglie bianche accavallate, l’edificio appariva sulle cartoline ed era l’icona più nota della modernità australiana.
Poco lontano, sul lungomare, scoprì che a un pontile era attraccato il Bounty, la nave famosa per l’ammutinamento del suo equipaggio nel 1789. Fotografò quel veliero di legno dei tempi andati, garantito autentico nella sua ricostruzione. Purtroppo non fu possibile salire sul ponte essendo momentaneamente chiuso ai turisti. Cadevano gocce fini che, insieme al cielo grigio, diedero un aspetto antico al pontile deserto. Considerò incredibile come la barca fosse piccola rispetto alle ricostruzioni cinematografiche.
Del periodo coloniale s’era fatto l’idea d’un legame forte con l’impero, ma nello stesso tempo gli australiani si ricordavano d’essere degli ammutinati, erano fieri degli emigranti più o meno forzati dalla legge e dalla povertà. Luca poteva soltanto intravedere qualcosa del passato ed essenzialmente si sentiva un cittadino inesperto.
Il giorno seguente Townsville gli apparve come un grosso villaggio tropicale costruito alla foce di un fiume; l’orizzonte si divideva tra l’Oceano Pacifico e una pianura verdeggiante circondata da bassi rilievi. Al centro sorgeva la collina chiamata Castle Hill. Gli unici palazzi importanti erano la sede della televisione locale, il casinò e la caserma della polizia. Nei dintorni c’era una grande presenza militare e la cittadina consisteva in tante casette con giardino, dei piccoli prefabbricati per i soldati, i pensionati e i lavoratori delle industrie.
In taxi notò che c’era un nucleo veramente cittadino, affari per centinaia di negozi e qualche banca, poco lontano dovevano esserci l’industria dello zucchero e le mitiche miniere dell’interno. Luca trovava sbalorditivo come fino a pochi secoli addietro lo zucchero fosse una ricchezza che accompagnava la dote delle regine. In due secoli il continente perduto aveva permesso agli emigrati di spezzarsi la schiena sotto il sole equatoriale per un tozzo di pane. Ironia della storia, nel XXI secolo si potevano comprare i sacchetti di zucchero per quasi niente, mai le moltitudini avevano partecipato a una simile abbondanza sulla Terra.
Townsville vantava il dovere di difendere il paese. Gli abitanti narravano che, durante la Seconda guerra mondiale, al largo di quelle coste era avvenuta una battaglia navale. Forse ai Giapponesi sarebbe costato troppo cercare di conquistare l’Australia e la Nuova Zelanda, preferirono tenere a bada le flotte alleate nel resto dell’Oceania. Il timore che avevano seminato era rimasto indelebile. La paura d’invasione era simile a quella provata mezzo secolo prima dalla neutrale Svizzera circondata dai totalitarismi apparentemente vincenti.
Luca aveva prenotato un appartamento in un alberghetto lungo la strada che dal centro costeggia l’oceano verso nord. Per prima cosa ammirò una fila regolare di palme sopra al terrapieno che doveva essere il frangionde durante le tempeste. Così la spiaggia stava più in basso di quasi due metri, c’erano chilometri di sabbia e l’oceano a perdita d’occhio. Al largo vide una grande isola, Magnetic Island, un’attrazione naturalistica rinomata.
Sulla lunga spiaggia deserta c’erano dei cartelli minacciosi che avvertivano e spiegavano cosa fare nel caso si fosse venuti a contatto con le temibili meduse dell’oceano. Subito notò che all’inizio della spiaggia erano state poste tre strane statue, a Luca sembrarono dei pesci-uomini che cantavano verso l’acqua.
Il primo approccio con i tropici mostrava un volto urbano. Inoltre, essere in viaggio fuori dalle date festive per i paesi industrializzati significava incontrare spiagge quasi vuote, praticamente solo i turisti che come lui avevano relativamente tanto tempo per viaggiare.
L’appartamento era fin troppo grande. Poteva godersi la televisione in un salotto con poltrone semplici ricoperte di velluto marrone. La sala all’entrata aveva annessa una cucina pronta all’uso mentre al piano superiore c’era un bel bagno e una stanza da letto confortevole.
Si permise un ritmo di vita calmo e costante, la mattina percorreva le vie principali mentre dopo pranzo si stendeva sulla spiaggia. La sera guardava i programmi televisivi locali facendosi l’orecchio per l’accento ma con poca speranza. L’unica agitazione indigena era una specie di parata subito dopo l’alba: tutto il villaggio scendeva sul lungomare per fare jogging. Sfilavano donne e uomini, giovani e vecchi, camminavano lentamente o correvano, sudando nell’aria umida dei tropici. La cittadina s’incontrava ogni mattina alle sette, alcune donne portavano perfino i neonati mentre degli anziani sembravano arrancare sostenuti solo dall’orgoglio di esserci.
Il terzo giorno Luca passò davanti a un rigattiere. All’interno c’era solo una donna cinese sulla quarantina, in jeans e magliett