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La canzone della libertà
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E-book59 pagine38 minuti

La canzone della libertà

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Narrativa - racconto lungo (33 pagine) - Un villaggio afghano, un leader talebano e un canto per lui blasfemo. Un racconto ispirato dalla “Canzone della libertà”, di Sergio Endrigo


Abdul Azeem è il locale leader talebano di un villaggio afghano. Zelante fanatico, mantiene salda la presa sul paesino, sino a che il suo controllo viene messo in discussione da un atto blasfemo: una  voce di donna che canta, in una lingua straniera, proprio durante il richiamo alla preghiera del muezzin. La ricerca della colpevole non sarà per niente semplice per Abdul Azeem. Perché la voce non sarà una. E perché il canto lo porterà a misurarsi con se stesso. E con la Libertà.


Donato Altomare è nato a Molfetta nel 1951 e vi risiede. Laureato in Ingegneria Civile esercita la libera professione. Sposato, ha tre figli. Narratore, saggista, poeta, ha vinto due volte il Premio Urania di Mondadori, cinque volte il Premio Italia e una volta il Premio della critica Ernesto Vegetti, oltre a molti altri premi per la narrativa e la poesia. Autore essenzialmente del fantastico. Numerosissime le sue antologie, i suoi romanzi e i suoi racconti editi in Italia e all’estero. Sono state tenute tesi di laurea su di lui. È l’attuale Presidente della World Science Fiction Italia, l’associazione degli operatori della fantascienza e del fantastico.

LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2022
ISBN9788825422672
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    La canzone della libertà - Donato Altomare

    Quello che domandiamo è libertà

    Quello che rifiutate è libertà

    Quello che non sapete

    è che noi ad ogni costo

    ce la prenderemo… libertà.

    ………

    Quello che domandiamo è libertà

    Quello che rifiutate è libertà

    Ora però sapete, è arrivato quel momento._

    Sergio Endrigo, La canzone della libertà

    I

    La voce cantilenante del muezzin echeggiò possente nell’aria che già cominciava a intiepidirsi.

    Dall’alto del minareto l’addetto alla moschea, con voce alta e possente, rivolgendosi ai quattro punti cardinali, richiamava i fedeli alla ṣalāt.

    La giornata s’annunciava splendida di luce, ma offuscata dalla monotonia.

    Il piccolo paese dormiva ancora, ma presto sarebbe scoppiato il solito caos. Biciclette traballanti, animali confusi tra la folla, torpedoni scassati a zigzagare tra nugoli di bambini che sciamavano scalzi, rincorrendo una palla fatta di stracci, facevano da cornice alle botteghe, dove gente impegnata in umili lavori sollevava ogni tanto il capo a sbirciare le vie polverose del villaggio in Afghanistan al confine con l’Iran. Ovunque talebani armati di mitra guardavano con sospetto ogni movimento insolito.

    Tutte le famiglie conoscevano la legge e l’osservavano scrupolosamente per evitare tragedie.

    Quando la formula usuale si diffuse nell’aria c’era ancora silenzio.

    Un silenzio infastidito e freddo, che non riusciva a dare sollievo alla calura che s’annunciava.

    Un silenzio interrotto solo dal muezzin.

    Ginocchia sui tappeti, la fronte rivolta alla Mecca, le donne dietro per evitare che il loro inchinarsi creasse cattivi pensieri negli uomini durante la preghiera. Tutto era omologato, tutto imposto. Guai a sgarrare.

    Il muezzin aveva le mani a cono davanti alla bocca per cercare di far sentire il più lontano possibile le sua voce. Non aveva soldi a sufficienza per comprare l’altoparlante che veniva usato nei minareti delle città più grandi.

    Poi, all’improvviso, accadde l’incredibile.

    Una voce si sovrappose alla sua.

    I talebani che stavano finendo il loro turno di pattugliamento, la gente già sveglia da un po’, persino lo stesso muezzin si bloccarono irrigiditi dallo stupore spalancando gli occhi.

    Qualcuno stava cantando.

    Durante la preghiera.

    Era una donna che cantava una canzone in una lingua straniera.

    La sua voce era forte e penetrante, tanto quasi da soverchiare quella del Muezzin che, più sbalordito che contrariato, si girò verso la fonte di quella canzone profana.

    Il primo impulso fu quello di scendere per chiedere a qualcuno di far cessare quel canto, ma guardando giù, si accorse che non ce n’era bisogno.

    Otto uomini amati di kalashnikov si stavano dirigendo verso l’edificio dal quale proveniva il canto. Nessuno ne capiva le parole, ma il canto stesso era blasfemo.

    Le urla di ammonimento degli uomini echeggiarono rabbiose, mentre lo scalpiccio dei piedi sulla nuda terra incuteva autentico terrore in chiunque l’udisse. I più si addossarono ai muri delle loro povere case in cerca di una protezione che nulla e nessuno avrebbe potuto dare davvero, altri scapparono a gambe levate per non trovarsi tra la fonte del canto e gli AK47. Eppure tanti sembravano anche come incantati dal suono melodioso di quella voce che pareva fresca carezza in torrida

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