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Quella del medico è una professione in cui la corrispondenza tra le competenze richieste e l’essenza della persona che la svolge realizzano un matching simbiotico. Una condizione che emerge dalle vicissitudini del giovane dottor Francesconi, ventiseienne neo incaricato della Condotta Medica del paese di Fabbrico (Reggio Emilia). L’incontro con i pazienti – il vivere in prima persona le sofferenze e le paure oppure le gioie e le speranze che li accompagnano – delinea un percorso lungo e intenso quanto un romanzo coinvolgente.
Tra crescenti impegni da portare a termine, grosse responsabilità da assumersi e prove sempre nuove da superare, nei primi tempi il dottor Francesconi si confronta con le sue insicurezze e con il suo obiettivo più sentito: conquistare giorno per giorno la stima e la fiducia della popolazione del Comune, senza mai tradirla. Trovare il rimedio più idoneo per ogni malanno evidenziato dai pazienti è una sfida interiore irrinunciabile e, con il passare degli anni, questa missione diventa a pieno la sua realtà. 
È così che Dante Pedroni ci racconta del dottor Francesconi: mentre compie i suoi atti grandi e piccoli, studiando, accorgendosi, amando tutto e tutti. L’autore ne segue gli sviluppi includendo aneddoti divertenti ed episodi esilaranti, volgendo uno sguardo alla storia e ai costumi del tempo e dedicando uno spazio alle riflessioni più attuali che coinvolgono la medicina.

Dante Pedroni è un Dottore, forse un Dottore di altri tempi.
È nato a Scandiano nella casa che fu di Lazzaro Spallanzani, ma è stato il Medico Condotto di Fabbrico, paese della Bassa. Come endocrinologo-nutrizionista ha coordinato il centro dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Come medico di famiglia, affascinato dalla gente di quella terra non lontana dal Po, si è dedicato alla “Produzione di Salute” e alla “Organizzazione Sanitaria”, temi sui quali ha spesso relazionato presso l’Istituto Superiore di Sanità a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2022
ISBN9788830671072
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    Anteprima del libro

    Non tanto tempo fa - Dante Pedroni

    Nuove Voci

    Introduzione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREFAZIONE

    Le attività occupazionali sono sempre state distinte in Lavori e Professioni.

    Differenza fondamentale è che i primi, anche quando articolati in competenze specifiche e complesse, non coincidono necessariamente con la Persona, con la sua Essenza.

    Le seconde invece sì.

    Ed è per questo che in genere non ci si definisce con faccio l’avvocato, faccio l’infermiere, faccio l’insegnante... ma si preferisce presentarsi con sono medico, sono architetto, sono pittore.

    La coincidenza della attività con la Persona finisce per condizionare profondamente l’animo del Professionista e i suoi rapporti con gli altri.

    Ed è una cosa bellissima.

    Nonostante i momenti di fatica e di disappunto, questa indissolubilità è fonte di grande ricchezza, una fedele e corroborante compagna di vita; l’artefice, se possibile, di una ulteriore identità. Essere Medico è un esempio peculiare di questa condizione.

    L’incontro con le persone, la loro sofferenza e le loro gioie, le loro paure e le loro speranze, finiscono per scrivere ogni giorno le pagine di un romanzo.

    Non sempre consapevolmente. Ma avviene.

    Queste pagine della quotidianità di un Dottore di un paese della Bassa sono indirizzate a un giovane Medico e ai suoi pazienti. Il primo leggendo di essi o dei loro genitori; i secondi ritrovando qualcosa del loro mondo, talora dimenticato dalla modernità, affinché possano essere ancora vicini nello scrivere la loro storia.

    Prime armi

    APLOMB PROFESSIONALE

    – I prelievi dell’AVIS, sai, sono importanti! Ci sono tanti donatori e... all’inizio della carriera... può essere utile, molto utile!

    L’arciprete era stato abbastanza esplicito e il giovane dottor Francesconi, neo incaricato della Condotta Medica del paese, non gli poteva certo dire di no.

    Don Pietro era riuscito a mantenere da sempre la presidenza dell’associazione dei donatori dell’AVIS, superando ogni divisione politica.

    Cosa non semplice in quel paese della Bassa, pieno zeppo di comunisti e con un confronto politico sempre acceso, ideologico e aspro.

    Si raccontava che il predecessore di questo Arciprete fosse un uomo di carattere e che, in occasione di un funerale civile, entrato nel bar della Cooperativa fosse stato canzonato dai giocatori di tresette: il Compagno aveva potuto essere scortato nell’ultimo suo viaggio, facendo a meno di lui e della sua Chiesa. Il Monsignore si era soffermato un attimo e, senza togliere l’immancabile toscano dall’angolo della bocca, aveva detto di sperare che, di quei funerali, ce ne fosse uno tutti i giorni.

    Forse solo così si sarebbe potuto sperare di riequilibrare le fazioni.

    Ma don Pietro era un politico, un grande politico, un vero uomo di potere. E tutti i giovani medici, durante la sua presidenza, ci erano passati.

    Tutti erano stati incoraggiati a diventare prelevatori volontari dell’AVIS. I più graditi a titolo gratuito.

    Magari avrebbero potuto approfittare del buffet organizzato a metà mattina.

    Don Pietro, oltre che un gran politico, era anche un gran buongustaio. Piaceri leciti! Diceva lui!

    Il dottor Francesconi, quindi, si era lasciato coinvolgere, pur con il timore di non incanulare qualche vena e di far qualche brutta figura.

    Ma il ritmo e l’afflusso continuo dei donatori avevano presto annullato qualunque incertezza.

    – Tutto bene, bravo, molto bene, non ho sentito niente.

    Il giovane Dottore, rassicurato, procedeva ormai disinvolto fra le poltrone dei donatori e trovava il tempo anche per qualche chiacchiera: pubbliche relazioni!

    Il sessantenne, conosciuto di vista, ancora attivo nel lavoro in fabbrica si era accomodato pesantemente sulla postazione del prelievo e si era messo comodo.

    Il Dottore era pronto con l’ago in mano e, sorridendo, gli aveva chiesto

    – Buongiorno! Lei è digiuno?

    Con sguardo interlocutorio il donatore:

    – Cosa? Come ha detto?

    – Lei è DI-GIU-NO?

    Aveva scandito il dottorino paziente continuando a sorridere.

    A questo punto il donatore, tornato sorridente anche lui, molto sorridente e comprensivo:

    – No, no! Sono DI-FAB-BRI-CO

    Il dottor Francesconi si era fermato un secondo, poi aveva continuato il prelievo, senza sedersi per terra dalle risate.

    In quel momento, davvero rassicurato, si era compiaciuto un po’ di se stesso e aveva compreso che forse aveva la stoffa.

    Negli anni successivi quell’aneddoto, relativo a un episodio avvenuto nei primissimi giorni della sua professione, era diventato un riferimento ripetuto durante le narrazioni del Dottore e non aveva mai mancato di suscitare una certa ilarità, naturalmente a spese del Paziente rimasto rigorosamente anonimo. Solo un anziano coetaneo del protagonista , che era noto a tutti per aver eluso con disinvoltura e comica ironia gli infiniti controlli di brigata nera e tedeschi durante l’ultimo anno di guerra, aveva avanzato l’ipotesi che, in realtà, si fosse trattato di uno scherzo giocato al giovane dottorino. Ma era rimasta lettera morta. In realtà Francesconi, dopo un ventennio, aveva sentito narrare quella storiella durante un varietà televisivo. Non era possibile che il suo aneddoto, pur avvenuto tanti anni prima e tante volte rievocato, avesse raggiunto interpreti così lontani da lui. O forse sì? O forse si trattava di una barzelletta che il sagace Paziente conosceva già allora ed era stato abile ad ambientare in modo estemporaneo a quella situazione propizia? Francesconi, ormai cresciuto, aveva infine propeso per la seconda ipotesi e aveva rivisto criticamente altri simili episodi comici che gli erano occorsi. Che si trattasse di uno scherzo a suo carico anche il caso dell’avvocato che aveva tanto richiesto la somministrazione alla mamma disidratata di qualche flebo di soluzione filosofica? O che fosse premeditato anche quell’intercalare apparentemente spontaneo e inconsapevole del falegname che si diceva sempre orientato a unire l’utero al dilettevole? O la definizione di autolocato riferita alla persona abbiente da parte dell’imprenditrice della maglieria dalla recente fortuna? Chissà?

    DOTTORE, È ORA

    – Gli dica di fumare meno a quello lì! Senta che tosse! Non tira più fiato. Non capisce niente!

    La sequela proveniva da una vecchiona, seduta sul seggiolone di fianco alla cucina economica a legna ed era indirizzata a un vecchietto minuto col cappello in testa, appoggiato al lato più lontano del tavolone: il marito. La cucina della vecchia casa di campagna era scarsamente illuminata dalle piccole finestre con le inferiate a rombi; l’aria, nella trasparenza della luce di quella primavera avanzata, che pure sciabolava nell’interno, era ricca di un pulviscolo a cui contribuiva forse un po’ di fumo che usciva dai cerchi della cucina. Ormai l’inverno era passato e aver riscaldato per diversi mesi, come una sauna, quel piccolo ambiente – unico rifugio dal freddo in tutta la casa – aveva probabilmente riempito di caligine i tubi della stufa, che non tiravano più bene. Il pavimento, scricchiolante, era un assito di larghe tavole di abete tutte nere, tranne le teste dei chiodi che lo fissavano lucidi nei punti di maggior passaggio e la piastra di ferro sotto la stufa, messa a protezione del legno stesso. Nonostante sul fuoco bollisse una grossa pentola con il brodo, l’odore prevalente, anzi dominante, era quello del trinciato forte con cui i maschi di casa si arrotolavano continuamente sigarette approssimative, che finivano per ingiallire indelebilmente le loro dita.

    I due anziani coniugi avevano avuto due figli maschi che, sposatisi, erano rimasti nella casa paterna assieme ai loro figli, tutti maschi. Dal tempo della Prima guerra mondiale erano mezzadri di quel podere, di generazione in generazione. L’anziana Adele era il vero capo del gruppo. Tutti: figli, nuore, nipoti e marito, le davano del voi. Il suo aspetto era imponente, il seggiolone, di suo uso esclusivo, era una specie di trono rustico che lei abbandonava raramente e con fatica, perché le dimensioni del suo posteriore comportavano qualche manovra di disincastro. I capelli grigi erano raccolti in modo impreciso in una crocchia che lasciava sfuggire qualche ciuffo riccioluto. Adele li spostava soffiando, quasi sbuffando lateralmente con la bocca, soprattutto quando era accaldata. Oltre ai lunghi peli del grosso papilloma della guancia destra, erano grigi anche gli imponenti baffi che accennavano ad attorcigliarsi ai lati come in un ritratto risorgimentale. Sempre grigi, ma un po’ più curati i baffetti tinti di giallo del marito, che pur confondendosi con la barba incolta, riportavano il segno di una rifilatura settimanale. Il motivo della visita del Dottore che, come Medico Condotto, aveva preso servizio da meno di un mese era la bronchite del nonno. Una diagnosi facile, una terapia adeguata, qualche inutile e scontata raccomandazione riguardo al fumo, per entrare in sintonia con la matrona e con le nuore che, nel frattempo, erano venute a vedere il nuovo Dottorino, affaccendandosi in cucina.

    La più anziana delle due aveva specificato:

    – Abbiamo anche la sposa ed è incinta.

    La giovane donna li aveva raggiunti camminando a piedi divaricati e sostenendo con le mani un bel pancione, come se ci portasse un cocomero.

    – Buongiorno, come sta?

    – Bene, bene se non fosse per questo gran peso. Bene comunque.

    Francesconi era al fine salito in macchina dopo aver salutato tutti i presenti, praticamente tutti gli abitanti adulti, perché quelli più piccoli si erano dispersi sull’aia e nel cortile inseguiti dalle minacce di una nuora.

    – Fate a modo, fate a modo che c’è il Dottore e vi fa la puntura!

    La visita si era conclusa e non aveva lasciato strascichi. Il Dottore non era più stato richiamato: buon segno.

    Il vecchietto con le dita gialle, dalla terribile moglie baffuta ben più di lui, doveva esser guarito.

    La routine di quei primi tempi di professione era davvero molto impegnativa per Francesconi. Nessuno lo conosceva e ogni diagnosi, ogni ricetta, ogni indecisione, anche considerati i suoi ventisei anni, poteva essere l’origine di una irrimediabile perdita di fiducia. Era un attimo. Si raccontava ancora, con scandalo, della morte di un bambino per appendicite avvenuta oltre dieci anni prima; si raccontava di polmoniti non riconosciute e giunte sull’orlo di conseguenze irreparabili, ma anche più banalmente si ricordavano prescrizioni di un suo predecessore che erano sempre irreperibili in farmacia e quindi certamente sbagliate o, infine, di qualche incertezza nel constatare un decesso che aveva disorientato un intero condominio. Era un attimo.

    Alle quattro di notte un suono vigoroso e ripetuto del campanello sveglia Francesconi, la moglie e la piccola Susanna che comincia a piangere. Aperta la porta con la serratura elettrica, in fondo alla scala, c’è un omone col cappello in mano.

    – Dottore, è ora!

    – Scusi, ma ora di cosa?

    – La sposa, non se la ricorda quando è venuto a visitare il nonno una settimana fa? La ha ben vista, no? Che pancia aveva! È ora! Venga subito.

    E se ne va chiudendo la porta.

    – Cosa c’è? Cosa è successo?

    Chiede dal piano di sopra la moglie che, presa la bambina dalla culla, cerca di calmarla.

    – Niente! Niente! Una visita. Dormite.

    – Ancora? Ma non è possibile!

    Sbotta lei, che non avrebbe mai voluto che il marito abbracciasse quella professione e in particolare in quelle condizioni.

    Non era insolito, infatti, che il Dottorino dovesse alzarsi più volte durante una notte.

    – Impossibile che abbiano davvero tutti bisogno, è perché è gratis!

    Era il pensiero sottostante che accompagnava le notti della signora.

    Niente, niente un corno. Quella era davvero una situazione drammatica. L’ostetrica comunale non esisteva più. Tutti partorivano in ospedale. Chissà, in quella casa di campagna forse si pensava che fosse meglio continuare con i parti a casa! E come fare? Non si poteva certo dire non ho mai fatto partorire nessuno! Ma che razza di Dottore potrei sembrare? E se si trattasse di un parto precipitoso, non si potrebbe certo andare in ospedale, si dovrebbe provvedere sul posto! E se fosse un parto normale, come organizzarsi? Intanto, bisognerebbe verificare che si tratti di una presentazione normale. Quindi, dunque la esplorazione delle fontanelle... per capire l’orientamento... e il diametro ostetrico... e se fosse podalico? Dunque, se ci fosse un arto procidente... no, calma, quello andrebbe rimesso dentro, credo, e poi fare l’estrazione manuale, mi sembra di ricordare. Ma se per caso e per fortuna fosse già nato, come faccio con il cordone ombelicale? Come lo lego? E come lo taglio? Mi sembra di ricordare che bisogna legarlo anche dalla parte della placenta per facilitare il secondamento. Ma con cosa lo lego? Nei film, in queste situazioni, chiunque arrivi per assistere un parto ordina di far bollire dell’acqua, molta acqua. Chissà a cosa servirà? Sarà meglio dare l’ordine, anche se poi non saprò che farmene, o non dire nulla e rischiare di trasmettere da subito la sensazione di non capirci niente?

    Questi erano solo alcuni dei pensieri che si affastellavano nella mente del giovane Dottore durante il viaggio per raggiungere la casa ai limiti della campagna, gli altri si abbozzavano soltanto nella mente senza trovare una declinazione compiuta, ma intrecciandosi gli uni con gli altri in un mare di ansia. Doveva arrivare, ma non avrebbe mai voluto arrivare.

    Entrato in casa, una delle nuore, non la futura nonna, lo aveva accolto cordialmente e lo aveva preceduto a piccoli passi frettolosi. Era in camicia da notte, mantellina e ciabatte. Quell’affrettarsi, dovuto probabilmente al freddo dell’ampio andito, veniva naturalmente interpretato da Francesconi come segnale di urgenza.

    Che fosse già il momento di ordinare di far bollire l’acqua? Mah? Ansia terribile! Voglia di non essere lì!

    Salendo le ripide scale, illuminate da una fioca luce di una sola lampadina da dieci candele, la donna in camicia piuttosto corpulenta aveva rallentato e finalmente

    – La vecchia ha detto che non è ora, è tornata a letto. Lei se ne intende,

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