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L'uomo venuto dal Po
L'uomo venuto dal Po
L'uomo venuto dal Po
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L'uomo venuto dal Po

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About this ebook

1944. Durante il bombardamento dello scalo di Lambrate, Sergio perde Clelia, l’amore della sua vita. Questo terribile avvenimento fa crescere in lui un desiderio di vendetta incontrollabile. Per caso, scopre che un suo caro amico fa parte della Resistenza e decide di prenderne parte con l’idea di fermare il predominio nazifascista, e insieme per esorcizzare il dolore causato dalla perdita della sua fidanzata. Ma Milano inizia a stargli stretta, i ricordi si fanno a mano a mano più pungenti, il lavoro scarseggia, la città del suo cuore si trasforma presto in una prigione dalla quale non riesce a fuggire. Così, decide di tornare nella sua città natale: Cremona. Chiede al suo amico di passargli il contatto di qualche partigiano della zona e parte, sperando di trovare la pace facendo un tuffo nel suo passato. Eppure, qualcosa in lui non va. Il senso di colpa verso Clelia si mischia al tormento per la scomparsa di un suo compagno del collegio, un bambino dissoltosi inspiegabilmente nel nulla trent’anni prima, la notte di Santa Lucia. Perché dopo tutti quegli anni il ricordo del piccolo Ennio torna ad affliggere i suoi pensieri? Che cosa si nasconde dietro la sua scomparsa? Ma, soprattutto, perché Sergio si sente così vicino a quella vicenda? Forse il ritrovamento del cadavere di un uomo che lui conosceva bene, disseppellito da un ordigno esploso. Oppure l’incontro con un suo vecchio amico che non ha mai smesso di cercare la verità. Oppure Cremona, con la sua nebbia, i suoi segreti nascosti, il Po, un fiume che Sergio ha imparato ad ascoltare e che gli sussurrerà verità sconvolgenti riguardanti il suo vecchio collegio, il suo passato e una serie di misteri inconfessabili.
LanguageItaliano
Release dateNov 29, 2022
ISBN9788861559455
L'uomo venuto dal Po

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    L'uomo venuto dal Po - Serena Grandi

    Serena Grandi

    CarloAlberto Biazzi

    L'UOMO VENUTO DAL PO

    Collana: Crime

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-945-5

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2022

    Ezio Quiresi (1925-2010), il suo nome viene ricordato fra i grandi della fotografia italiana.

    Le immagini contenute nel libro sono state gentilmente concesse dalla famiglia.

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    L’essenza del romanzo poliziesco consiste nell’imbattersi in fenomeni visibili la cui spiegazione è nascosta;

    è questa, se ci si riflette bene, l’essenza di ogni filosofia.

    Gilbert Keith Chesterton

    PROLOGO

    Sentivo freddo. Molto freddo.

    Quando aprii gli occhi, una grande falena vibrava muovendo le sue ali.

    Sopra di me, un cielo di velluto. Di fronte il bosco.

    La bruma sdrucciolava come un lenzuolo funebre, spogliando i profili delle colline. Intorno, i profumi del bosco, mischiati all’umidità della notte che risaliva lungo gli abiti e strisciava gelida sulla pelle.

    Non sapevo dove mi trovavo. Sentivo solo tanta fatica.

    Eppure, quel luogo mi sembrava così familiare.

    Tentai di muovermi, ma qualcosa mi teneva bloccato, corde invisibili mi stringevano e non mi permettevano di respirare. Tutt’intorno, il silenzio di un bosco arcano abbracciato a una notte senza tempo.

    Provai a urlare, ma la mia bocca non riusciva a riprodurre nessun suono.

    Sospiri, così vicini, qualcuno stava ansimando accanto a me. Sentivo il suo affanno, sempre più agitato.

    Chi c’era alle mie spalle?

    Avevo paura.

    Era impossibile capire dove mi trovassi, ma tentai di concentrami perché riconoscere quel posto era l’unico modo per trovare una via di fuga.

    Scorsi un movimento, proprio davanti a me. Qualcuno si stava muovendo nel bosco di pioppi, vedevo la sua ombra oscillare nella nebbia.

    Era un bambino. Nudo. Non lo avevo mai visto prima di allora.

    Si fermò e mi guardò, poi alzò la mano e mi indicò un punto. C’era paura in quel gesto, ma anche smarrimento.

    Non potevo muovere il collo, ero soltanto un atterrito spettatore di quella visione incomprensibile, e non riuscii a voltarmi nella direzione che mi aveva indicato.

    Il bambino si avvicinò, rimase fermo a guardarmi, a pochi centimetri.

    «Non è quello che sembra…» mi sussurrò. E scomparve nel buio.

    L’eco di quella frase si disperse nell’oscurità e, per un attimo, il silenzio fu di nuovo padrone di quel luogo.

    La presenza dietro di me allungò le mani, le sentii attorcigliarsi intorno al mio collo. Stringeva, sempre più forte, sentivo la trachea serrata. Soffocavo.

    Quando mi sembrò di esalare l’ultimo respiro, mi svegliai di colpo.

    Ero nel mio letto e stavo sudando.

    Per scaricare la tensione, raggiunsi la finestra e guardai l’orologio. Erano soltanto le due di notte, per le strade di Milano non c’era vita, sembrava una città morta.

    Avevo fatto di nuovo quel sogno. Si ripeteva spesso in quel periodo. Mi calmai e tornai a dormire. Prima di prendere sonno, pensai: che sia un presagio?

    1.

    DICEMBRE 1944

    Il boato che sentii mi svegliò di soprassalto.

    Sdraiata davanti a me, Clelia sbarrò gli occhi. Ci guardammo per pochissimi istanti, giusto il tempo di capire che non stavamo sognando. I vetri del nostro piccolo appartamento sbattevano forte, in perfetta armonia con le doghe del letto. Sembrava quasi una compiuta sinfonia per bonghi.

    Mi alzai di colpo e mi precipitai alla finestra. Era come immaginavo: una serie di bombe avevano di nuovo colpito lo scalo di Lambrate, ma questa volta coinvolgendo anche gli edifici adiacenti.

    Mi salì di nuovo quel terrore, lo conoscevo ormai fin troppo bene. La penombra della stanza fu velocemente rischiarata dal furore delle fiamme.

    Quando mi voltai verso Clelia, vidi il suo volto colpito da una luce rossastra. Era seduta sul letto e mi fissava, aspettava un mio cenno, impalata e immobile.

    Sarei rimasto a guardarla per ore, quel bagliore le disegnava perfettamente gli angoli del viso, ma non c’era tempo. Dovevamo scappare.

    La presi e la strattonai giù dal letto. Clelia fece una leggera pressione, come se non volesse abbandonare quel giaciglio. Esattamente poche ore prima avevamo fatto l’amore, proprio lì sopra, e quella sera fu così intenso, più delle altre volte. Forse entrambi avevamo presagito qualcosa.

    I secondi trascorrevano veloci, in lontananza i potenti rimbombi scandivano il tempo della nostra fuga.

    Clelia afferrò la vestaglia appesa al muro ed ebbe giusto il tempo di infilarsi gli scarponcini da lavoro. Io rimasi in pigiama e scalzo, a guardarla. In quel momento desideravo soltanto il suo bene, non volevo che prendesse freddo. Non volevo che le capitasse nulla.

    Di nuovo un forte rimbombo, questa volta più vicino. Fu talmente potente che sentimmo il vetro della finestra in cucina sbriciolarsi. L’ordigno aveva di sicuro colpito il palazzo.

    Non c’era davvero più tempo, ne avevamo già sprecato troppo a razionalizzare cosa stesse accadendo.

    Usciti dall’appartamento scendemmo di corsa le scale, dal soffitto penzolavano pesanti travi merlate e tubi arrugginiti, quell’edificio non avrebbe retto ancora per molto. Non fu facile raggiungere l’atrio dal terzo piano, dovetti incoraggiare più volte Clelia a proseguire, il terrore l’aveva paralizzata. Lo percepivo dal suo sguardo perso, senza prospettiva, pieno di voglia di non morire ma nello stesso istante esausto.

    C’eravamo quasi. Il portone era proprio di fronte a noi.

    Poi ci fu un grido disperato, qualcuno urlava dal vano scala, una voce femminile. Non ci mettemmo molto a capire che si trattava della vecchia Maria, rimasta intrappolata da qualche parte.

    Volevo salire, salvarla, ma i miei piedi erano troppo doloranti per colpa di alcuni detriti che si erano conficcati sotto la pianta.

    Questa volta fu Clelia a spingermi verso l’uscita, ma io ero rimasto immobile a guardare le scale.

    «Dobbiamo andare!» mi disse.

    «Non possiamo abbandonarla!» le risposi afferrandole le braccia tremanti.

    Clelia non fece in tempo a replicare. Due pesanti macigni caddero a terra e ci sfiorarono. Eravamo salvi per miracolo, ma la polvere che si sollevò raggiunse le nostre narici e iniziammo a tossire. Non si vedeva nulla, riuscivo soltanto a sentire alcuni brusii fuori dal palazzo.

    «Attenti!» gridò qualcuno.

    Fu in quel momento che percepii un pesante attrito sulla testa che non mi permise nemmeno di chiamare la mia donna. Non provai dolore, il buio si impadronì completamente del mio corpo.

    2.

    Un forte suono di campane mi riportò alla realtà. Prima ancora di aprire gli occhi mi resi conto di non potermi muovere, c’era qualcosa che mi immobilizzava, ed ero coricato su un letto stretto e freddo.

    Sentivo le palpebre pesanti, un formicolio al collo e un greve mal di testa.

    Avevo fame. Molta fame.

    Quando tentai di aprire gli occhi, una potente luce mi oltrepassò il cranio e mi provocò uno spasmo. Fu proprio il martellamento che partiva dalla cervicale a farmi ricordare lo scoppio delle bombe.

    E Clelia?

    Nonostante la potente botta di adrenalina, scaturita dalla foga di avere notizie sulla mia donna, non riuscivo a sollecitare nessun muscolo.

    Misi a fuoco due infermiere della Croce Rossa Italiana. La più giovane, col grembiule sporco di sangue, mi teneva ferme le gambe. L’altra, alla quale non riuscivo a dare un’età precisa, mi guardava con due occhi severi. Se non avesse avuto il velo avrei giurato che si trattasse del Führer, per via della spigolosità del suo volto e la bocca sottile.

    Non riuscivo a capire dove fossi, l’impulso mi portò immediatamente a chiamare Clelia, ma la raucedine mi impedì di ottenere risultati. Così provai a guardarmi intorno contorcendomi nel letto, subito le ferme mani delle due volontarie ebbero la meglio. Ero senza forze.

    Con un filo di voce riuscii a rivolgermi alla più anziana:

    «Dove mi trovo?»

    «Deve calmarsi, signore.»

    I tasselli della mia memoria iniziarono a ricomporsi, muovendo a fatica il collo scorsi delle ombre intorno a me. C’erano altre persone coricate su letti impersonali, dottori e infermieri avanzavano come pedine su un tavolo da gioco.

    Faceva freddo, troppo freddo, e le grida di dolore che si disperdevano sotto a quel tendone erano identiche al ronzio di una fastidiosa zanzara.

    «Dove mi trovo?», questa volta mi rivolsi alla donna più giovane. Conoscevo la risposta, ma volevo la conferma.

    L’infermiera mollò la presa, sentii le gambe più leggere. Guardò abbattuta la sua collega e si limitò ad abbassare il capo senza rispondere.

    «Si trova in un ospedale da campo. C’è stato un bombardamento.» L’espressione austera dell’altra donna si tramutò magicamente in uno sguardo eloquente.

    «Clelia…» bofonchiai, guardandola.

    «Non sono Clelia…»

    «Dov’è Clelia?»

    Le infermiere si lanciarono un’occhiata furtiva. Non ero completamente cosciente ma avvertii un profondo senso di disagio tra le due.

    Il cuore iniziò a battermi forte, l’ansia saliva e non mi faceva respirare, il senso di smarrimento e di impotenza tutto d’un tratto mi parvero familiari.

    Ero in uno di quegli ospedali costruiti in caso di disastro, immaginavo cosa mi fosse successo, soltanto che non mi spiegavo la mancanza di Clelia.

    Tormentato lo chiesi nuovamente:

    «Dov’è Clelia?»

    «Le chiamo il dottore», l’infermiera mi accarezzò la testa e si allontanò, lasciandomi solo con la giovane collega che, di nuovo, non riusciva a reggere il mio sguardo.

    Non so quanti minuti trascorsero, forse pochi, ma a me sembrarono un’eternità. Mai come in quel momento mi sentii tanto solo, la debolezza fisica non era nulla in confronto al vuoto che si stava facendo spazio dentro di me.

    Per far trascorrere più velocemente quei terribili secondi, mi sforzai di sollevare il collo. Volevo vedere che cosa mi era successo.

    La coperta di lana marrone ricopriva tutto il mio corpo come se fossi un cadavere, sentivo soltanto un dolore lancinante alla gamba destra e un intorpidimento continuo al bacino. Tentai di muovermi di nuovo, ma la mano pronta della ragazza mi bloccò.

    «È meglio che stia fermo.»

    Finalmente conobbi la sua voce, aveva un nonsoché di familiare, il riflesso del suo accento mi fece rivivere i primi anni adolescenziali. Chissà per quale motivo, ma se non fossi stato in una condizione tanto incresciosa, le avrei domandato di raccontarmi qualche storia, una a caso, giusto per farmi cullare.

    Fu impossibile mantenere la pacatezza di quella sensazione, ovunque mi giravo vedevo solo morte e sofferenza, poveri sciagurati senza colpa e cadaveri ricoperti da lenzuola bianche.

    Fu mentre mi soffermai sul volto straziato di una povera bambina accasciata su una barella che vidi avanzare verso di me il dottore. Lo conoscevo, era il professor Melzi, aveva curato il mio amico Giordano per una brutta influenza pochi anni prima.

    Era cambiato, c’era qualcosa nel suo viso che mi faceva paura. Quando si approssimò al letto lo fissai. Non riuscivo ad afferrare la sintesi del suo sguardo. Era così diverso, sembrava più vecchio, il grigio dei suoi capelli si rifletteva spento su un volto smarrito e stanco. Di sicuro la guerra lo aveva distrutto. Ma per chi non era così?

    «L’abbiamo estratta dalle macerie» chiarì. «Ha una brutta ferita alla gamba, ma nulla di troppo preoccupante.»

    Ero certo che non mi avesse riconosciuto.

    «Dove mi trovo?»

    «In un ospedale da campo. Vicino a Lambrate.»

    «Sto cercando una donna. Si chiama Clelia, è la mia fidanzata.»

    «Lei come si chiama?»

    «Sergio. Lei la può trovare?»

    Il dottor Melzi temporeggiò qualche istante.

    Io incalzai. «La può trovare?»

    «Me la descriva. Sotto a questo tendone ci sono almeno quarantacinque feriti.»

    «Quanti morti?» lo chiesi di getto, non avevo vagliato questa terribile possibilità.

    «Quattro.»

    Erano pochi. O forse troppi? La speranza si fece strada traballando su un filo sottile.

    «La prego… trovi la mia donna…»

    Il dottor Melzi annuì senza rispondere, il suo sguardo non smentiva la mia preoccupazione, ma, anche se non lo conoscevo bene, sapevo che era un uomo in gamba, e soprattutto di parola. Ero certo che l’avrebbe trovata tra i degenti nel tendone.

    Mi lasciai andare rilassando i muscoli, non potevo fare altrimenti. Qualcuno intonava, stonando, la canzone di Beniamino Gigli, Mamma. Forse voleva cercare di allietare quel drammatico momento.

    Non sapevo che ora fosse, dalle fessure del padiglione filtrava una luce morbida, quasi surreale. Chiusi gli occhi e ci fu nuovamente il buio.

    3.

    Quando schiusi nuovamente gli occhi, un rigurgito mi schizzò in gola. Mentre il sudore diventava ghiaccio, sentii di nuovo altri conati e un getto acido mi bruciò persino i polmoni.

    I guaiti di dolore non si erano assestati, rimbombavano a mitraglia disperdendosi nell’aria rarefatta che permeava sotto a quel tendone.

    Notai che avevano posizionato un nuovo letto, molto vicino al mio. Sopra giaceva un uomo con la gamba destra in trazione. Sulla sua fasciatura, un’importante chiazza di sangue formava un’immagine irregolare che ricordava una svastica.

    Guardava nel vuoto. Gli occhi sbarrati e colmi di terrore erano di un blu acceso molto particolare. Avevo sempre pensato che il blu, e le sue relative sfumature, fosse il colore della speranza, ma in quell’ospedale dovetti ricredermi.

    Non so quanto tempo fosse trascorso, ma non avevo ricevuto notizie di Clelia. Possibile che non l’avessero ancora trovata?

    L’ospedale da campo era stato costruito su una pianta rettangolare, sotto a quel tendone verde mi trovavo pressappoco nella parte centrale. C’erano molti letti, tutti occupati. I cadaveri erano stati evidentemente portati via. Le brandine vuote furono, a loro volta, riservate per altri feriti.

    Conoscevo bene la realtà degli ospedali di emergenza, una volta avevo prestato il mio aiuto alle suore Cappuccine, successivamente ai terribili bombardamenti del 7 agosto del ’43, quando i Lancaster colpirono i più importanti monumenti della città. Sapevo che sotto al mio tendone erano stati trasportati i feriti più gravi, quelli che necessitavano di cure maggiori e, talvolta, di operazioni di urgenza.

    Questo poteva essere un buon segno. Forse Clelia era stata portata da un’altra parte, giusto per curare lievi ferite e per ulteriori accertamenti. Dovevo solo attendere fiducioso, qualcuno sarebbe venuto a darmi buone notizie. Magari avrei rivisto proprio lei, lì, di fianco a me. Dovevo solo aspettare, ma in che modo potevo far trascorre il tempo? Qualcosa dovevo inventarmi.

    Mi voltai verso il mio vicino di letto, aveva ancora lo sguardo perso. Tentai di sporgermi prudentemente dalla brandina, ma il dolore alla gamba era troppo forte, una potente fitta partì dal polpaccio e arrivò dritta e pungente fino al cervello.

    «Io sono Sergio» mi presentai.

    Non rispose.

    «Come ti chiami?» incalzai.

    Anche alla seconda domanda, il malcapitato non diede risposta. Fu dopo qualche secondo che, finalmente, si degnò di considerarmi:

    «Non voglio sembrare maleducato, ma non ho voglia di parlare.»

    «È più che lecito…» replicai, tentando di girare il capo il più possibile verso di lui.

    Non aveva più di quarant’anni, guance paffute e un profilo spigoloso.

    «Ormai non si sa più cosa è giusto o sbagliato…» disse, ma non capii a cosa si stesse riferendo. Feci finta di aver compreso per proseguire quella conversazione. Non avevo di meglio da fare.

    Dentro di me continuavo a domandarmi: «Perché proprio a noi? Che cosa abbiamo fatto di male?»

    Avremmo potuto conoscerci in un bar, così, per caso, e raccontarci a vicenda delle nostre vite, belle o banali che fossero. Invece io e questo uomo fantasma eravamo bloccati nel letto di un fottuto ospedale, a contare i minuti, a chiederci per quanto tempo ancora avremmo dovuto sopportare uno strazio che non avevamo scelto ma che ci era stato imposto.

    Forse quest’uomo stava blaterando, ma meritava il mio ascolto e la mia comprensione. Oltre ad accomunarci una gamba anchilosata, ci legava di sicuro anche la sensazione di impotenza verso un mondo che stava lentamente perdendo coscienza.

    «Dove vivi?» domandai.

    «Vivevo. Il mio edificio è crollato», lo precisò con rassegnazione, come se fosse una situazione da accettare, quasi normale.

    Feci un lungo sospiro. «Il mio non lo so. Sono svenuto e mi sono risvegliato qui.»

    «La mia casa era l’ultima cosa che potevano prendersi. Almeno ora non ho più nulla da perdere. Perciò, onestamente, come mi chiamo non ha più importanza.»

    Il tono meccanico e arrendevole di quell’uomo mi innervosì. Non so come mai, ma a un tratto sentii come una contrazione allo stomaco, i nervi mi si irrigidirono e vomitai succhi gastrici di un colore indefinito.

    Mentre combattevo con il mio disagio, una nuova infermiera se ne accorse e mi soccorse. Quando mi levò la coperta lercia, vidi finalmente in che stato era il mio corpo. Avevo ancora i miei vestiti addosso, la gamba sinistra era gonfia e ricoperta da una garza ingiallita di materia purulenta, il resto del corpo illeso ma bloccato con lastroni di pelle.

    «Perché mi avete legato?»

    L’infermiera, con la divisa bianca sporca di sangue innocente, si pulì le mani nel grembiule e gettò la coperta a terra. «Un movimento di troppo e rischia di non muovere più la gamba.»

    «Per quanto tempo dovrò stare così?»

    «Non lo so. Vedo se riesco a recuperarle un’altra coperta» e si diresse all’esterno del tendone, dove, immaginavo, ci fossero le camionette con i viveri e i beni di primo soccorso.

    Quando tornò, teneva tra le mani un plaid e un piccolo vassoio di metallo. Mi coprì, mi slegò le braccia e mi aiutò ad alzare il busto mettendomi una mano sotto l’ascella e sistemando il cuscino.

    «È comodo?» chiese.

    Annuii, anche se la comodità me la ricordavo diversa.

    «Ecco, mangi qualcosa», continuò. «Ma non sforzi troppo. Ha capito?» mi porse il vassoio.

    Assentii nuovamente e mi concentrai sul piatto di minestra. Avevo molta fame. La divorai senza nemmeno rendermi conto che era completamente fredda e insipida. Però mi accorsi degli occhi affamati del mio vicino di letto, che oscillava con lo sguardo ogni volta che portavo il cucchiaio alla bocca.

    Mi sentii in colpa, lo stesso senso di responsabilità che aveva accompagnato tutta la mia vita senza mai svelarmi i motivi di tale percezione. Si era ripresentata lì, su quel letto, mentre mangiavo un piatto squallido di brodo, sotto gli occhi di un mio simile.

    Alzai lo sguardo, verso di me stava avanzando il mio amico Giordano. Fu una visione inaspettata. Forse aveva notizie di Clelia.

    Le domande mi si affollavano in testa, le misi a tacere.

    Giordano si avvicinò cauto, la sua espressione era vaga, il suo sguardo sfumato rifletteva preoccupazione. Quando fu a un passo da me si levò la coppola in pendant con i pantaloni gessati.

    «Amico mio» mi disse.

    Io gli sorrisi controvoglia, avevo un violento battito cardiaco e la salivazione azzerata. Temevo il peggio.

    «Appena ho saputo sono venuto a cercarti», continuò. «Ho sperato di non trovarti qui.»

    «Cos’è successo?» domandai con un filo di voce.

    «Gli inglesi. Hanno colpito ancora lo scalo. Tu come ti senti?»

    Non persi tempo a rispondere e incalzai. «Sto cercando Clelia. Qui non c’è.»

    «Eravate insieme durante i bombardamenti?»

    «L’ultima volta che l’ho vista è stato quando ci è crollato il soffitto addosso, nell’androne del palazzo. C’era molta polvere, non ho visto se è riuscita a uscire in strada.»

    Giordano si mise a riflettere.

    «C’è il dottor Melzi. Te lo ricordi?» continuai. «Cercalo, ti prego. Chiedigli informazioni.»

    Il mio amico non batté ciglio, si alzò e uscì dal tendone senza dire una parola. Giordano era la persona di cui mi fidavo di più, l’amico di sempre, di quelli che ti scaldano il cuore nelle serate più gelide. Io l’avevo sempre pensato: l’amicizia è una forma d’amore molto fine, adatta solo ai coraggiosi. Un amico è famiglia, e Giordano lo era. Lo conobbi per caso, una sera, al teatro Odeon, uno dei diversi teatri sotterranei della città. Quella sera la sala era talmente piena che dovetti accontentarmi di un angolo vicino all’ultima fila, in piedi. Vicino a me c’era proprio lui, il giovanotto più bello della platea, vestito con un completo scuro e la sua immancabile coppola. Teneva in bocca una Lucky Strike e giocherellava con un bottone del panciotto.

    Un po’ ero invidioso, devo ammetterlo. Quell’aria da mascalzone si sposava alla perfezione con quel viso tondo e il nasino alla francese.

    Si accorse che lo stavo guardando e mi porse il pacchetto di sigarette per offrirmene una. Scossi la testa, non fumavo, così si avvicinò spavaldo aspirando il fumo.

    «Si fa attendere…» dissi per rompere il ghiaccio.

    «Eh già.»

    Avevamo la stessa passione: Cécil Sorel, la stella della Comédie-Française, che io seguivo assiduamente sui giornali. E quella sera non voleva proprio iniziare il suo spettacolo, dopo quaranta minuti eravamo ancora lì, interdetti ad aspettare.

    «Sai cosa ti dico?» gridò con una certa soddisfazione quello sconosciuto dall’aria tracotante.

    Io non risposi, mi limitai a guardarlo.

    «Affanculo Cécil Sorel. Andiamo a berci una birra.»

    Era talmente assurda come proposta – avevo pagato il biglietto un sacco di lire – che non seppi dire di no.

    Uscimmo dal teatro già allegri, non fu di certo la birra ad alzare il nostro livello di felicità.

    Dopo quella lontana notte del 1935, io trovai il fratello che non avevo mai avuto. A quella sera ci pensavo spesso nei momenti di sconforto, quando tutto mi sembrava perduto, quando le soluzioni non erano a portata di mano. E anche in quella pietosa situazione, Giordano era venuto in mio soccorso.

    Lo vidi tornare. Da lontano i suoi occhi mi crivellarono, sentivo che volevano rovistare dentro di me per tenere ancora quieta quell’ansia che avevo controllato fino a quel momento.

    Ci bastava uno sguardo per capirci, e io avevo già compreso, ma non volevo accettarlo.

    Mi prese la mano e me la strinse forte, gli occhi gli si tinsero di dolore, il riverbero di disperazione mi strinse la gola. Non respiravo più. Non sentivo più nulla. Giordano scoppiò in lacrime e si lasciò cadere a terra.

    Non poteva essere possibile, non in quel modo. Quell’amore impaziente di forzare i confini, nato per caso sotto un’insolita luna di febbraio, non esisteva più.

    Clelia era morta, dovevo ammetterlo a me stesso.

    4.

    Il sole pettinava i tetti delle case di quella fredda giornata di marzo. Giordano aveva insistito con il dottor Melzi per farmi uscire dall’ospedale prima del tempo e l’uomo aveva acconsentito, ma a un solo patto: si raccomandò di non farmi muovere, altrimenti il grosso squarcio sulla mia gamba si sarebbe aperto e i risultati sarebbero stati devastanti.

    Non avevo più una casa, questo mi era stato detto con dubbiosa dolcezza per paura di una mia conseguente reazione. Avrei raggiunto Porta Romana, il mio amico mi avrebbe ospitato per tutto il tempo necessario. Mi caricarono su una camionetta per i viveri e partimmo.

    Durante il tragitto meditai, forse era solo un bene che quella casa non esistesse più. Con lei era morta e sepolta anche una vita che dovevo imparare a dimenticare, un’esistenza che non sarebbe più tornata. Ero solo al mondo, senza nessuno da aspettare. O da perdere.

    Giordano abitava al piano terra di una piccola palazzina mezza disabitata. Ai piani superiori avevano vissuto due famiglie di ebrei, portate via durate un rastrellamento.

    Il tormento per la perdita di Clelia non mi fece nemmeno sentire il dolore alla gamba durante i brevi metri che dovetti percorrere a piedi.

    Giordano mi fece stendere sul divano di una spoglia stanza in penombra. Sapevo che non aveva altri letti a disposizione, ma andava bene così, stava facendo il possibile e gliene ero grato. Mi somministrò una pillola di penicillina e mi coprì con un plaid, poi si congedò e uscì per raggiungere il lavoro.

    Ripiombai nella solitudine, con il silenzio dovevo imparare a socializzare, non avevo altra scelta.

    Di fianco al divano era posizionato un comodino con due antine. Era facilmente raggiungibile nonostante la mia immobilità. Allungai un braccio e lo aprii. Al suo interno, sopra a diversi giornali e libri dimenticati, c’erano due scatole sigillate da un nastro adesivo marrone. Le afferrai, volevo aprirle, giusto per far trascorrere il tempo, per alleggerire quel senso di oppressione che non mi aveva nemmeno fatto versare una lacrima. Gli uomini non piangono, mi ripeteva spesso mio nonno, ma io ne avevo bisogno. Il pianto non era un grido patetico di sconfitta, per me era liberazione, e in quel momento mi sentivo in trappola perché non ci riuscivo.

    Dentro alla prima scatola trovai vecchie lettere che lasciai chiuse sul fondo per non ledere l’intimità del mio amico. Alcune fotografie profumavano di ricordi ed erano legate con un sottile filo di spago.

    Non mi ricordavo più di Rachele, la ragazza che aveva rubato il cuore di Giordano vent’anni

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