La fuga
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Nel suo tentativo di ideare un piano di fuga entra più volte in contrasto con i suoi compagni, che obtorto collo finiscono comunque per essere d'accordo con lui.
Il piano è tanto audace da essere quasi irrealizzabile, tra continue citazioni cinematografiche, letterarie e musicali.
Riusciranno a metterlo in atto?
Antonio De Sisti racconta nel suo stile originale e fuori dagli schemi una storia che sembra quasi una parabola sulla ricerca della bellezza anche a dispetto dei fatti più oscuri della vita.
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La fuga - Antonio De Sisti
CAPITOLO 1
LA CELLA
Erano in quattro a condividere quel piccolo spazio - due letti a castello, quattro cuccette, quattro mura, un soffitto, una sola finestra incavata in uno spesso muro di cemento, piccola, con sei corte sbarre di metallo, verticali.
Nessuno fortunatamente soffriva di claustrofobia. Tuttavia si lagnavano spesso di una sensazione contraria, vicina all’agorafobia, la quale faceva presa ogni volta che dovevano accedere a un piccolo spazio igienico in comune, un WC poco nascosto, destino dei loro bisogni primari coram populo. Ma tutto questo sarebbe stato di poco rilievo nella dinamica dei fatti e degli accadimenti successivi.
Erano concordi nel tentare l’evasione il giorno seguente, malgrado le grosse difficoltà e i piani assurdi di Angelo Azzurro. Geniali o no sarebbe stato stabilito dalla posterità.
Restava un solo dettaglio, l’ultimo, pianificato con Slim, il quale era appena uscito dal carcere dopo quindici anni di reclusione per aggressione e omicidio colposo. Non faceva parte diretta del gruppo ma era uno fidato che non avrebbe mai mancato all‘impegno preso. Lo considerava un atto dovuto. Tutti lo chiamavano Slim - lo smilzo - sebbene anni di sedentarietà lo avessero trasformato in obeso, diabetico, iperteso e ipercolesterolemico. Poco importa, Slim avrebbe fatto quanto concordato.
Un fischio di un secondino annunciò lo spegnimento delle luci.
Si avvolsero nei loro non candidi ma tendenzialmente bianchi lenzuoli e si lasciarono andare felici alle fantasie che prendono forma prima dei sogni.
Si addormentarono.
CAPITOLO 2
IL CARCERE
I muri della cella erano bianchi, almeno all’origine, ma anni di sudiciume, di assenza di una vera igiene, di manate e raschiamenti avevano trasformato definitivamente il candido bianco primigenio in una mappazza immonda ricca di tutte le sfumature del grigio e del marrone. Nomi, date, graffiti, cuori infranti, immagini raffiguranti donne svestite, e altro, completavano l’atmosfera semantica - come in un quadro di Basquiat. La piccola finestra della cella dava sugli interni, due cortili comunicanti, perimetrati da alti muri in cemento ricoperti di mattoni rossi - un cortile per i detenuti ordinari e uno più piccolo per quelli pericolosi o in punizione - separati da un grosso cancello in sbarre metalliche verticali, che una vernice antica faceva ancora sembrare vagamente di tonalità grigia ma che la ruggine a chiazze, sempre più dominante nel tempo, orientava decisa verso il rosso. Solo i daltonici non se ne rendevano conto: ma erano una piccola minoranza. Il resto dei detenuti ci vedeva bene, e nel trascorrere degli anni quell’insieme cromatico era diventato ai loro occhi un colore unico: il colore della prigione. Tutte le strutture metalliche, le sbarre della finestra della loro cella, i cancelli interni ed esterni, le rampe e le scale interiori e no, erano composti di quel melange cromatico, diventato con il passare degli anni sempre di più tendente al rosso, insopportabile e terrificante alla vista.
Orribile visu.
Era per questo che l’arredamento delle celle, ovvero l’insieme dei pochi oggetti personali - piccoli pupazzi, manifesti attaccati al muro, o altre robe - tendevano alla vivacità, dal giallo limone al viola acceso, passando per il verde erba e il bianco candido. L’azzurro era stato accettato solo se limpido, cristallino, come quello del cielo o del mare nei giorni di bonaccia in assenza di nuvole: troppo scuro avrebbe evocato una similarità con il metallo delle sei sbarre della finestra delle loro celle, le sole a sfuggire alla ruggine per il costante toccare e fregare le mani su di esse durante illusori tentativi di vedere altro che i cortili interni. Il rosso no, manco a parlarne, ricordava troppo la ruggine - un divieto assoluto, mandatorio. C’erano stati interminabili dibattiti tra detenuti, se fosse stato il caso di accettare l’arancione o no. Per la verità non si erano mai messi d’accordo, tranne che per un uso limitato a piccoli oggetti personali - mai su altro di larga taglia o misura - arancione chiaro, pastello, ben lontano dal rosso.
La ruggine e il suo colore li ossessionavano, erano il simbolo, il dato semiotico del loro status, immobile, acinetico, senza speranze, se non quella di morire un giorno in quel fetido carcere, sepolti in un cimitero anonimo poco distante: una fossa, una croce, nessun nome e nemmeno una melensa ballata country per ricordarli. Era una prigione speciale, concepita per detenuti condannati a pene lunghe fino all’ergastolo, e per quelli che illusoriamente avevano tentato di evadere da altri bagni penali. Nessuno soggiornava lì per una pena da scontare inferiore ai quindici anni.
Uno dei due cortili, quello più piccolo per i tipi pericolosi, aveva un lato attaccato alle lavanderie, dove ogni giorno transitavano i furgoni per il trasporto esterno di abiti e lenzuola, o di qualsiasi altra roba avesse avuto bisogno di un lavaggio periodico o di una disinfezione. L’edificio addetto era incollato alla facciata est del perimetro, tanto vicino che si sentiva - anche se sommesso - il vociare degli addetti a quelle faccende, metà detenuti e metà lavoratori liberi esterni, sorvegliati da un folto numero di guardie carcerarie mentre effettuavano le manovre: un semplice passaggio di grossi sacchi di iuta contenenti sudiciume vario, dai detenuti agli addetti esterni. Il lavoro veniva eseguito con calma e lentezza, un modo per dare ai sorveglianti un controllo sicuro sulle operazioni. Se fosse stato rapido, le guardie avrebbero avuto problemi per tenere il conto - non erano abilissimi in aritmetica, nemmeno quella basica. Finito il lavoro i detenuti rientravano nelle loro celle, in fila indiana, dopo un comando secco impartito dal capo delle guardie, mentre gli uomini liberi caricavano quel sudiciume nei furgoni, prendendo poi per l’esterno dopo aver attraversato tre controlli di sicurezza, tre grossi cancelli automatici e tre minuziose perquisizioni delle guardie.
CAPITOLO 3
DOC PAPILLON
Doc Papillon siedeva su un sgabello di legno, si grattava con fare falsamente indifferente il mento, segno che stava ponderando. Era difatti pensoso, rifletteva sul piano di Angelo Azzurro: c’erano molte crepe, anzi veri buchi, un battello pieno di falle. E lo scafo aveva la pretesa di non voler affondare.
Aveva quasi cinquant’anni e stava lì da circa venti. Omicidio volontario. Ad essere precisi era entrato in carcere (per la prima e ultima volta) relativamente giovane, poco sotto i trent’anni: una rapina a mano armata andata male, ma senza morti o feriti. La pena era stata in fondo equilibrata, otto anni di reclusione. Con forse qualche sconto per buona condotta e qualche amnistia se la sarebbe potuta cavare con quattro.
Nel primo bagno penale dove era stato internato, condivideva la cella con un grosso tedesco, un certo Kurt, daltonico - un difetto visivo che avrebbe influito poco sugli sviluppi futuri.
Al processo l’avvocato della difesa, uno d’ufficio, (Doc non aveva un soldo nemmeno per piangere), aveva sistematicamente utilizzato le parole abuso e abusare nelle differenti fasi del processo e in particolare nell’arringa finale. Ma la realtà era stata meno prosaica: quello stronzo di Kurt se lo voleva inculare, e lui non era d’accordo. Dopo i primi approcci del bruto con moine e segni di amicale condiscendenza, questi - il bruto - era successivamente passato a tentativi di corruzione - pacchetti di sigarette in regalo, dolci della sua mamma - e poi alla violenza pura. E giù botte, schiaffi, minacce, mani strette intorno al collo, tentativi di sfilargli i calzoni. Lui, Doc Papillon, si opponeva ferocemente, guizzi, movimenti rapidi, pugni in faccia all’avversario, urla a squarciagola ignorate da tutti, e infine, dopo una valanga di colpi dati dalla bestia e meno controllati del solito, ecco la disfatta. Il tedesco concluse la sua azione fino al target ultimo.
Quattro settimane d’infermeria per rimettersi, ferite lacero-contuse dappertutto, e soprattutto l’onore infranto.
In infermeria, le prime notti, Doc Papillon si sentiva dolente in ogni parte del corpo. Il fatto gli dava forse un qualche vantaggio secondario: il dolore non lo faceva pensare all’affronto subito, e, sopportare la sofferenza, lo rendeva più forte per non cedere al facile sentimento di sconfitta e ineluttabilità della sua sorte.
Non si perse d’animo: era ora di stilare la fattura e regolare i conti. Una notte, una qualsiasi - faceva caldo e le notti erano tutte uguali e afose durante il soggiorno in infermeria - riuscì a rubare una lama di bisturi, a notte fonda, inoltrata. L’infermiere dormiva profondamente, e russava in modo clamoroso, e stupidamente aveva dimenticato di chiudere a chiave la guardiola dove teneva materiale vario, medicine, antibiotici, fasce, bende, aghi, fili, e qualche piccola lama di bisturi, utile per togliere i punti non riassorbibili dopo aver suturato una ferita da taglio poi ben cicatrizzata (naturalmente se la ferita non si fosse infettata causa la sua imperizia). Con quella piccola lama, montata su una semplice asticella di legno staccata da una sedia - una delle tante della sala ricreazione e proiezione-film del carcere - Doc Papillon sezionò carotide e giugulare sinistra del tedesco, un solo affondo, forte e deciso. La lama, piccola, ma estremamente tagliente, penetrò come nel burro, senza rumore, senza timore, seguita poi da una linea diritta, trasversale, verso l’altro lato. Il sangue sgorgava a fiotti, una quantità enorme - il cuore pompava, non sapeva fare altro del resto - colore rosso, un colore che Kurt, daltonico, non poteva ben distinguere dal verde. Il tedesco ebbe solo il tempo di gridare qualcosa per il dolore, un gridolino sommesso. Era stato sorpreso nel sonno, e la velocità con cui il sangue uscì dalla ferita lo rese rapidamente fiacco, poi terrorizzato, poi immobile al suolo, tremante, con gli occhi sgranati per il panico, e le mani strette inutilmente sulla ferita, emettendo fonemi soffocati e incomprensibili. Il rosso o il verde poco importanti. Daltonicamente morì.
Un omicidio che costò a Doc Papillon l’ergastolo, malgrado le vigorose ma inutili argomentazioni dell’avvocato della difesa.
Tuttavia si era vendicato dell’affronto, e da quel giorno nessuno si sognò mai di molestarlo, nemmeno per cose ordinarie e lontane da qualsiasi forma di aggressione violenta.
Successivamente, dopo due tentativi di evasione mal riusciti da bagni penali ‘standard’, fu chiamato Doc Papillon, nickname illustre ancora in uso all’epoca dei fatti.
Fu trasferito in una prigione di massima sicurezza.
CAPITOLO 4
ANGELO AZZURRO
Discussero del piano. Era stato suggerito, da Doc Papillon, di tentare l’evasione la notte, staccare le sei sbarre metalliche dalla finestra, calarsi all’esterno con lenzuoli attorcigliati presi dalle loro cuccette, raggiungere il muro di mattoni rossi ignorandone il colore, penetrare nella zona est da un qualche passaggio superiore, forse dal tetto (questa era una parte del piano ancora da definire), introdursi nello spazio addetto al trasferimento sozzerie, nascondersi dentro i sacchi di iuta, e poi via verso la libertà, una volta piazzati dentro qualche furgone dagli addetti ai lavori. Il piano era ancora fluido, molto. Anzi, sconclusionato e improbabile. Un piano banale, da ragazzini cretini, o da film di serie C a bassissimo budget.
E quando? La notte? - disse Angelo Azzurro - ma perché sempre queste cose scontate!? È esattamente durante la notte che questi si aspettano evasioni, ammesso che se lo aspettino. D’accordo… la notte, il buio, meno facile essere visti… ma quasi tutte le evasioni avvengono la notte nei film o nei romanzi. Stronzi… dobbiamo trovare qualcosa di più originale, e per due ragioni!
Quali?
Due, poi vi dico…
Angelo Azzurro nella sua vita pre-carceraria era stato professore di letteratura, storia e filosofia. Era un tipo solitario, corpulento, capelli radi, corti e bianchi, in