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Noi siamo il mare
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Noi siamo il mare

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Noi siamo il mare è una storia d’amore dedicata al mare. Quando lo iodio ti cattura con le sue aeree spirali, non puoi più fare a meno della sua maestosità che a volte ti accarezza dolcemente e a volte ti cattura con il vento e le onde tiranne. I personaggi di questo racconto viaggiano tra passato, presente e infinito futuro, tra simbolo e realtà, tra sogni e ricordi, e hanno un solo grande scopo: difendere il mare che è creatura diventata fragile, perché non più libera di vivere secondo natura; le onde sono le sue braccia liquide che non possono combattere contro la solidità indistruttibile della plastica. Da solo non ha strumenti per cacciare via tutto il veleno che si nasconde nella sabbia, negli anfratti, nelle grotte. Il mare, però, adesso ha uno stuolo di amici giovani che sono diventati le sue braccia e le sue gambe, e non conosce più solitudine.
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2022
ISBN9788893693516
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    Noi siamo il mare - Paola Gileno Fusco

    1

    La spiaggia del Buon Dormire

    Il mare è l’unico essere infinito che si pone umilmente ai nostri piedi, senza mai perdere un briciolo della sua grandezza.

    (Fabrizio Caramagna)

    Ai primi di ottobre, da tanti anni ormai, vado a Palinuro da sola. Perché amo il mare, lo amo disperatamente: la vita ha scelto per me di vivere in una città senza mare, città che ho imparato, solo dopo tanti anni, ad amare.

    Vado a Palinuro anche per celebrare la memoria di un amico speciale che amava il mare come me e voleva morire qui per avere il mare come rifugio per la sua eternità.

    Grazie a lui ho scoperto le spiagge del Cilento e questa caletta unica e speciale che chiamano del Buon Dormire. La storia (o leggenda) narra che due flotte romane non riuscirono a superare il vento fortissimo e la tempesta che si era scatenata sull’imprevedibile Capo Palinuro e affondarono in modo drammatico.

    Il corso delle navi, nei secoli a venire, non si fermò, ma prudentemente i marinai, prima di affrontare la grande incognita del Capo, preferivano aspettare la luce del mattino e fermarsi alla caletta per poter dormire e controllare le ire del Capo.

    In tarda mattinata, quando a ottobre il sole è più generoso, mi faccio accompagnare da un giovane pescatore al Buon Dormire e me ne sto lì incantata a guardare la Bellezza, il verde chiaro dell’acqua che diventa smeraldo, lo scoglio che immemore da secoli si protende sullo stesso mare e, quando il sole è nella giusta direzione, fa ombra allo smeraldo dell’acqua cristallina.

    Le onde lievi e il loro leggero brontolio hanno il potere di sottrarmi ai pensieri che agitano la mia vita come avevano il potere di permettere ai marinai di riposarsi e di dormire prima di affrontare l’umorale capo Palinuro.

    Improvvisamente sullo scoglio che avevo sulla mia traiettoria visiva compare un signore alto, magro, capelli grigio-bianchi con un lieve accenno di barba, probabilmente sceso dalla lunga scaletta di legno che conduce a uno degli alberghi più prestigiosi della zona.

    Dopo avermi rivolto un cenno di saluto, si tuffa dolcemente, senza quasi far rumore.

    L’acqua limpidissima mi permette di vedere il suo corpo disciogliersi e diventare acqua e frammenti di onda: si avverte solo il rumore delle braccia che nuotano veloci e null’altro.

    Continuo assolutamente stupita a guardare quelle braccia di acqua che si allontanano verso il largo, ma riesco ora a distinguere anche le gambe e i piedi che diventano spuma di mare.

    Che strano. Non mi sento agitata e tutto mi sembra naturale, logico. Chiudo gli occhi e sogno di essere anch’io disciolta nel mare, molecola di acqua e vivere in armonia con il tutto mare.

    Senza conflitti. Senza pretese. Senza le persone difficili, senza le falsità, le ipocrisie e i desideri di potere, senza il mio io che contiene in sé i difetti del mondo.

    I miei occhi che si erano persi su altri orizzonti ritornano a vedere l’orizzonte reale.

    L’uomo torna dalla sua nuotata con le sue braccia e le sue gambe di carne e si stende a godersi l’ultimo sole.

    Decido senza nessuna esitazione di avvicinarmi a lui, una vicinanza senza parole.

    «Ti aspettavo» mi dice (e il suo sguardo è pura luce), sapevo che avrei suscitato la tua curiosità e il tuo desiderio di capire.

    Essere acqua e diventare mare è un desiderio di pochi, devi saper amare, devi impedire al rancore, alla rabbia di arrivare a te, nella profondità di te stesso, dove c’è la linea di confine che ci separa dal mare e dall’essere.

    A me ci è voluto il dolore, ma non uno solo, tanti dolori, uno dietro l’altro. Dolore come scalpello, dolore come capacità di trasformare la vita in un percorso dove la meta è la strada per costruire te stesso, quello vero che ha occhi per vedere le persone e l’immenso bisogno d’amore.

    Nasci con le sembianze di uomo ma sei solo l’ombra di te stesso. Credi di essere, ma non sei, credi di potercela fare da solo, credi che la fortuna dipenda da te e cadi nell’inganno.

    Il dolore ti sveglia dal sonno e finalmente resusciti, recuperi la vita e assisti a un miracolo: non sai che cosa sia successo, non puoi applicare più criteri razionali, vivi l’incanto del giorno che hai davanti a te e non ti chiedi più niente. Vivi, vivi e basta. E ami, ami e basta, senza porti inutili interrogativi.

    Qualcuno ti tende le braccia e ti chiede aiuto, tu tendi le tue e lo sollevi dalla melma del malessere, ma tu non ti fai domande. Hai solo una risposta: sollevare dalla melma.

    Senza fare filosofia. La risposta è dentro di te, nelle tue braccia che sollevano qualcuno dal fango senza chiedersi nulla.»

    La risposta mi nasce spontanea: «Non riesco a non farmi domande. Sollevo qualcuno dal fango dell’ignoranza, ma il fango è talmente alto che mi sembra spesso di non fare abbastanza, di non essere abbastanza e di non valere abbastanza.

    Anch’io ho accumulato dolori, ma gli ultimi non li ho accettati. Troppi. Tutti insieme. Inutili per la crescita, anzi un regresso vero e proprio e tanta, tanta rabbia.

    Forse siamo tutti egoisti, ci leghiamo al nostro dolore come se fosse l’unico, il vero dolore e vediamo gli altri egoisti e indifferenti nei confronti del Dolore con la D maiuscola che è solo il nostro.»

    Che cosa strana, mi chiedo. Io, questo signore non lo conosco eppure parlo con lui come se lo conoscessi da sempre e gli do del tu senza problemi.

    Mi domando se sia una persona reale e inizio una conversazione reale.

    «Come ti chiami?» gli chiedo.

    «Francesco» mi risponde.

    «E tu, come ti chiami?» mi chiede.

    «Paola» gli rispondo.

    «Francesco era mio padre» gli dico.

    «E Paola è mia figlia che è stata un regalo inaspettato e non precisamente voluto; sai, questi regali arrivano non richiesti e inaspettatamente ti danno una gioia infinita. Non ho saputo capire il suo desiderio di libertà, la sua volontà di essere solo sé stessa e non la costruzione che di lei aveva fatto la mia mente. Non ha voluto studiare quello che avevo deciso io per lei. È andata via dopo uno stupido litigio. Sette anni ho camminato per ritrovarla, come la nonna Lucia di Carducci:

    Sette paia di scarpe ho consumate

    Di tutto ferro per te ritrovare...

    Che strano, penso. Quest’uomo così sicuro di sé, quest’uomo che sembra avere il mondo in tasca rivela una profonda fragilità e addirittura si mette a recitare una poesia davanti a una sconosciuta. Si vede che quei versi sono diventati parte di sé, della sua pelle.

    La nonna e la saggezza. I cipressi che a Bolgheri alti e schietti conservano la memoria, un po’ come il mare e le sue onde:

    Deh come bella, o nonna, e come vera

    È la novella ancor! Proprio così.

    E quello che cercai mattina e sera

    Tanti e tanti anni in vano, è forse qui...

    Gli occhi di Francesco diventano di luce, di stelle, di universo. Mi spiega che alla fine si sono ritrovati al mare, proprio a Capo Palinuro, facendo una immersione. La sua passione per i mari era diventata la passione della figlia, trasmissione di passione per osmosi e non per contatto diretto. Solo dopo, quando, una volta andata via, aveva voluto sperimentare la profondità e il silenzio del mare che non aveva voluto vivere al tempo del padre, la nuova passione geneticamente trasmessa, era diventata il suo lavoro.

    I gesti del nuoto sono i più simili al volo. Il mare dà alle braccia quello che l’aria offre alle ali; il nuotatore galleggia sugli abissi del fondo.

    (Erri De Luca)

    2

    Francesco, il nuotatore libero

    Francesco non si è voluto sposare: un uomo libero, mi racconta lui, ama profondamente ma non accetta inutili legami voluti da una società arcaica, perché sono in massima parte destinati a diventare noia, ripetizione, litigio, sopportazione in nome della famiglia; l’uomo (e la donna) ama se rimane libero di essere sé stesso.

    Con Anna, però, ha avuto una figlia e l’emozione allo stato puro è entrata nella sua vita. Docente di storia moderna e contemporanea, Francesco. Concreto, razionale, competitivo e allo stesso tempo ricercatore pieno di passione. Bravo, molto bravo. Le sue lezioni seguitissime. Regalava emozioni quando spiegava agli studenti.

    Un bell’uomo, Francesco, e bravo di quella bravura che gli ha permesso (con i dovuti tempi, s’intende) di fare carriera all’università di Napoli con l’aiuto e la stima del suo professore che non faceva sconti e pretendeva i migliori. Era tra i docenti più onesti che Napoli avesse mai avuto.

    Il vero storico deve prima di tutto fare una seria ricerca documentale, ma essere poi capace di immergersi nel contesto utilizzando la propria capacità creativa e vivere il passato partendo dalle emozioni che suscita.

    Quella culletta lì in ospedale era la Storia con la esse maiuscola, la storia dell’essere umano racchiuso in un corpicino apparentemente fragile e indifeso.

    La osservava incantato e guardava Anna felice. Anna, innamorata di lui dal tempo del mare di Procida, non gli chiedeva nulla perché non era necessario. Lei sapeva, aveva sempre saputo che la più forte, la più determinata era lei. Francesco non avrebbe mai potuto fare a meno di Anna, del suo amore così naturale, così al di fuori di qualsiasi schema. Quando si dice: erano una sola anima, nel loro caso era vero.

    Il loro amore non chiedeva nulla all’altro e quindi poteva vivere all’infinito; l’amore che chiede sempre ricatta e non è amore.

    Anna muore a quarantacinque anni: Anna, espressione dell’universo più puro, non ha potuto sperimentare più a lungo le faccende della vita, ma ha avuto la fortuna morendo di non vivere altro disinganno, altre delusioni e tradimenti, altre paure.

    Anna se ne è andata così, da un giorno all’altro, come da un giorno all’altro sparisce quel frammento minuscolo di felicità che ogni tanto la vita regala.

    Paola ha quindici anni quando vede morire la madre e non ha parole, neppure per suo padre.

    Anna aveva detto a Francesco nei suoi ultimi giorni coscienti: «Ce la puoi fare, tu, senza di me. Io sto morendo.»

    Ce la puoi fare, tu, era diventato per lui un mantra, la consolazione dei momenti bui dove sentiva la sua voce ripetere all’infinito questa frase. Così stringeva i denti e andava avanti con il lavoro che gli accarezzava l’anima e le ribellioni continue di Paola dalle quali preferiva stare lontano.

    Andava avanti con tutti i suoi sensi di colpa che la morte di una compagna ancora così giovane suscitano e lui finisce per sentirsi fango, lui con le sue fughe, lui con la sua incapacità di essere padre senza Anna.

    La famiglia di Francesco è originaria di Monte di Procida; quando da generazioni si respira aria di mare, diceva scherzando il padre farmacista di Baia e dintorni, l’ossigeno che immetti nel sangue contiene particelle di vita marina che ti rendono in sintonia totale con gli abissi infiniti del mare e quando il dolore ti invade e ti devasta, c’è un solo modo per sopravvivere: andare in fondo al mare, depositare il bagaglio di sofferenza e risalire alleggeriti. Perché il mare scioglie il dolore, ma conserva la memoria della bellezza: il mare non può piangere, perché è una enorme gigantesca infinita lacrima, ma ricorda tutto.

    Non solo. Essere nato a Monte ti mette al centro di una storia che l’incuria atavica e l’ignoranza hanno scioccamente ignorato: presso i Romani tutta l’area flegrea e in particolare Baia (veniva chiamata la pusilla Roma, la piccola Roma) era considerata una importante località turistica, grazie al clima e alla bellezza straordinaria delle sue coste. Virgilio non a caso scelse Cuma, l’antro della Sibilla e il lago d’Averno per ambientare la discesa agli inferi di Enea.

    Francesco, quando il dolore si faceva più lancinante andava a fare immersione ricordando i consigli del padre (il mare si prende il tuo dolore e lo custodisce) tornava su sempre rasserenato da quell’infinito che lo avvolgeva e lo accarezzava e sentiva tangibile e concreta l’eternità di ciò che siamo.

    Fin da piccolo amava i racconti, non distingueva come tutti i bambini la storia dalla leggenda e pensava spesso al trombettiere Miseno conosciuto attraverso il racconto della mamma che aveva dato il nome al promontorio dove da piccolo andava molto spesso a fare i bagni.

    Così la passione infantile si trasformò in amore per la storia, quella considerata vera, seria e fu proprio da quegli inizi che, da adulto e da docente, riuscì a dare un nuovo volto alla ricerca storica che teneva conto anche del mito che dà un valore universale alla storia.

    Quando si apprestava ad aprire un libro di uno storico che sentiva in sintonia con lui, le sue mani vibravano e non leggeva solo con gli occhi, tutto il suo corpo partecipava alla lettura e le parole penetravano nella sua profondità interiore.

    Nessun libro, però, avrebbe mai potuto regalargli l’emozione di cercare la storia delle sue origini sotto il suo mare; poi in giro per il mondo le immersioni sono state per lui non solo passione ma soprattutto lo strumento per ritrovare nelle acque profonde le storie sepolte o segrete degli uomini.

    Ma a Procida sotto il mare ritrovava Anna e nessun luogo gli fu mai così caro.

    Anna, un regalo che veniva grazie al mare: Anna del Nord si innamorò delle acque dei Campi Flegrei e di Procida dove era venuta in vacanza a settembre, quando i turisti sono solo gli appassionati, i nuotatori infaticabili. Anna, del nord non aveva molto: capelli neri, occhi scuri e profondi, origini siciliane, un particolare legame con la terra di origine dei suoi genitori e soprattutto la passione per la bellezza in tutte le sue forme. Anna era una fotografa e fin da ragazzina aveva cominciato a leggere libri sulla fotografia e a trarre ispirazione per le sue foto domestiche da ciò che andava apprendendo dai libri.

    Dopo aver preso il diploma della maturità, decise subito quello che aveva intenzione di fare come lavoro: la fotografa.

    Aveva compreso che l’immagine era già dentro di lei, e l’occasione per esprimere la sua interiorità era la persona, lo scorcio, il vicolo, il cibo.

    A Torino dove viveva andò a bottega da un anziano fotografo napoletano amico di suo padre e da lui apprese l’arte e le tecniche, ma lui stesso

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