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Cicatrici a forma di quadrifoglio
Cicatrici a forma di quadrifoglio
Cicatrici a forma di quadrifoglio
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Cicatrici a forma di quadrifoglio

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About this ebook

Ci sono incontri che possono cambiare per sempre la nostra vita. Così è stato per Alba, una ragazza di diciassette anni che un giorno incontra Angelo. Con lui scoprirà la forma di amore più innocente e spontanea di adolescente, ma allo stesso tempo le ferite mai guarite del passato ritornano prepotentemente a galla increspando la sua tranquilla quotidianità. Non sempre è facile fare i conti con il passato e proprio quando pensavamo di aver dimenticato e superato i drammi vissuti e ciò che ci ha fatto soffrire, scopriamo invece che il passato è molto più presente e vicino di quanto pensavamo tanto da sconvolgerci la vita. L’amore di Alba e Angelo li salverà o li porterà nel profondo di un abisso senza fine? La loro storia ci terrà legati alle pagine, in una sorta di viaggio interiore alla scoperta della parte più nascosta e segreta di noi stessi.

Gaia De Giorgi è nata nel 1998 a Pietra Ligure (SV). Fin da bambina, alla scuola primaria, si è distinta per il suo interesse nei confronti della letteratura e in particolare della scrittura. Ha iniziato a scrivere tenendo diari per poi approdare ai primi esperimenti biografici e narrativi durante l’adolescenza. A diciassette anni ha iniziato a scrivere il suo primo libro Cicatrici a forma di quadrifoglio che oggi ha deciso di pubblicare. Nel 2021 si è laureata all’Università triennale di Lettere Moderne per poi continuare gli studi all’Università Magistrale di Filologia e Letterature Moderne. All’interesse nell’ambito letterario ha abbinato quello teatrale frequentando dal 2011 la scuola del “Barone Rampante” di Borgio Verezzi, per poi diventare socia ancora oggi della medesima Compagnia teatrale. Oggi lavora come insegnante nella scuola dell’infanzia e primaria. 
 
LanguageItaliano
Release dateAug 17, 2022
ISBN9788830669789
Cicatrici a forma di quadrifoglio

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    Cicatrici a forma di quadrifoglio - Gaia De Giorgi

    RINGRAZIAMENTI

    I miei primi ringraziamenti non possono che andare ai miei genitori, per avermi sostenuta sempre nelle mie scelte lasciandomi talvolta la libertà e il privilegio di sbagliare, e per le loro mani sempre tese per aiutarmi ad alzarmi: grazie a Barbara e Pierangelo.

    Grazie a Nicolò e Simone, che sono fatti della mia stessa pasta e che con questa pasta spesso ci facciamo la carbonara.

    Grazie a Elena e Giorgia, che sono la mia capsula del tempo e che con loro il tempo lo vorrò passare per sempre.

    Grazie a Veronica e Valerio che fondendosi insieme hanno dato vita al personaggio di Valentina, quell’amica che è più di una compagna di vita.

    Grazie a Iacopo, Gaia e Anita, spero che questo libro faccia emergere un po’ della mia arte che voi mi avete insegnato di avere e di cui voi siete colmi.

    Grazie a Marcella e a tutto, a davvero tutto, Il Barone Rampante, per avermi dato gli strumenti per tirare fuori questa arte.

    Grazie a Mattia che per primo ha creduto in queste pagine e in tante altre cose.

    Grazie ad Anna e Anna, le due donne che saranno per sempre dentro di me.

    Grazie ad Adelaide, Giorgia, Ludovica, Maria Laura, Francesco, Sabrina, Alessandro, Just, perché avere delle persone come loro nella vita è sempre bello.

    Grazie a tutta la mia grande famiglia per potermi permettere di chiamarla così, e per aver condiviso con me tanti momenti sotto il sole della Pianura Padana.

    Grazie alla me di diciassette anni che per scappare dalla confusione e dalla paura dell’adolescenza ha deciso di scrivere un libro.

    Grazie a Pupina per rappresentare l’innocenza.

    Grazie al posto in cui sono nata e cresciuta per permettermi di regalare ai miei testi sempre degli scenari immaginari mozzafiato.

    I miei ultimi ringraziamenti invece li rivolgo a Emanuele, che in questo lungo elenco è stato l’ultimo ad entrare nella mia vita ma che più di tutti mi ha dato qualcosa che tutte le parole di questo libro non potrebbero spiegare: grazie Lele.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo 1

    Mercoledì 22 maggio 2019

    Lo guardo da lontano.

    Lui non mi vede.

    È così bello da qui.

    Sembra un ragazzo qualunque, sconosciuto, ma bellissimo.

    Potrebbe essere un diciottenne sbandato che aspetta il suo pusher, un figlio di papà che ha bucato una gomma della sua nuova Audi, un trentenne con la sindrome di Peter Pan che non accetta di buttare via le sue Adidas e i suoi jeans strappati per diventare una persona matura, o un ragazzo straniero che si è perso e cerca qualcuno a cui chiedere indicazioni.

    Ma io so chi è.

    E so che non vorrebbe che io stessi lì a fissarlo da lontano, o forse non vorrebbe nemmeno che io esistessi.

    Sta camminando lentamente intorno a una panchina davanti a scuola: è agitato e lo noto dal modo in cui le sue gambe ballano goffamente per non rimanere ferme e da come continua a torturarsi le mani tra di loro. Ogni tanto sbuffa e guarda il cielo, poi torna a fissare il selciato.

    È capitato così tante volte di litigare che dovrei essere abituata. Invece sono qui, indecisa se farmi avanti o continuare a guardarlo da lontano.

    Io so quello che ho fatto. Ma lui, lo sa? Non ci sentiamo da quella sera, da tre giorni ormai, eppure qualcosa mi dice che non avrebbe evitato di rispondere alle mie chiamate e ai miei messaggi, se non lo avesse saputo.

    Sono passati dieci minuti da quando sono arrivata.

    Almeno da qui posso fingere che vada tutto bene, che lui è così su di giri perché non vede l’ora di vedermi e che, una volta davanti a lui, mi bacerà e mi terrà stretta. Ma non andrà in questo modo.

    Quando gli sarò davanti nemmeno si degnerà di guardarmi negli occhi. È così che fa quando lo ferisco, quando lo deludo, perché io sono la sua più grande delusione. E lui, che è la cosa più bella che ho, forse la cosa più bella che esiste al mondo, non vorrà più vedermi.

    So che ho sbagliato e so anche che questo incontro sarà inutile, perché lui non vorrà sentire nemmeno una parola da me e, se anche fosse, io non saprei cosa dire. Dovrei girarmi e tornare a casa: niente addii dolorosi, né lacrime o rabbia eccessiva.

    Solo silenzi... sarebbe tutto così facile.

    Ma non posso fargli questo, l’ho fatto soffrire troppe volte e devo almeno concedergli l’onore di essere lui a lasciare me, perché tutto è irrecuperabile ormai.

    Nella mia mente sorgono a sprazzi intensi ricordi di noi due, così belli eppure così dolorosi. Lui ha sperato immensamente di potermi cambiare, di pianificare la mia vita programmando ogni cosa. Ne era così convinto che per un attimo aveva convinto anche me.

    Ma alla fine, non potevo indossare i panni di quella ragazza perfetta che non mi appartiene. E anche se l’ho deluso e se ora tutto è irrecuperabile, almeno non ho perso me stessa ed è l’unica certezza che mi rimane a cui aggrapparmi.

    Lo guardo da lontano. Lui non sa ancora che io sono qui.

    Prendo un respiro e decido di avvicinarmi.

    Il primo passo è il più pesante, gli altri vengono spontanei. Mi concentro sul respiro per mantenere la calma, decido di sciogliermi i capelli per coprirmi il viso e in quel momento si accorge di me.

    Smette di ballare, ferma le mani e mi aspetta. Non viene avanti, devo essere io ad andargli incontro.

    Ora siamo uno di fronte all’altro. Mi sento tanto piccola davanti a lui che come avevo immaginato, evita lo scambio di sguardi.

    Mi fissa le labbra... smettila ti prego.

    Sono rosse e gonfie per il pianto, le mordicchio con i denti per evitare che escano parole inutili, ma se continua a guardarle così mi verrà voglia di baciarlo e non posso farlo.

    Sembra solamente arrabbiato ed è un bene. Pensavo di trovarlo fuori di sé.

    Mi ero immaginata che mi prendesse a schiaffi, che mi tirasse un secchio di vernice addosso, che mi ricoprisse di insulti davanti alla gente, ma come ho potuto anche solo ipotizzarlo? Non è da lui fare queste scenate: è da me. Sarebbe troppo facile, sconterei la mia pena e saremmo pari. Ma lui non si abbasserà mai a queste cose, perché sta zitto, aspetta che il mio senso di colpa mi sbrani da dentro, senza darmi la possibilità di alleviare la mia pena vendicandosi.

    Passano pochi secondi di silenzi interminabili, poi fortunatamente, lui si muove. Non mi dice niente, mi guarda, si volta e inizia a camminare, io capisco che devo seguirlo.

    Imbocchiamo la stradina per andare al ‘Giardino’, il parco dietro alla scuola, così chiamato perché è dove tutti gli studenti della mia scuola vanno a nascondersi per fumare erba. Lui non sopporta questo posto: lo considera il degrado della società adolescenziale e io mi sono sempre divertita a prenderlo in giro con questa storia. ‘Il bravo bambino’, lo chiamavo ironicamente e lo istigavo con frasi come: ‘occhio che poi la mamma si arrabbia‘. E lui, permaloso com’è, mi rispondeva sempre: ‘cazzo sfotti stronza, vediamo poi chi morirà a vent’anni per un tumore ai polmoni’. Per lui una canna ogni tanto fa di me un caso perso. E forse lo sono, ma la colpa non è dell’erba, è sua.

    Ho sempre pensato di essere una persona forte, che non si sarebbe mai fatta vincere da una stupida dipendenza. E per tutta la mia vita ho resistito al fascino delle cicche alla menta, dei programmi tv, del profumo di benzina e di quelle maledette bollicine d’aria scoppiettanti sulla carta da imballaggio, insomma quelle cose che piacciono a tutti.

    Ma poi è arrivato lui, che è entrato nella mia vita come capitano tutte le emozioni più vere: in una giornata a caso e senza preavviso. Ed è diventato la mia dipendenza più grande.

    Ogni volta che mi guarda, che mi tocca, è come una scossa di adrenalina che mi libera l’aria nei polmoni e mi fa iniziare a respirare, come se non lo avessi mai fatto prima.

    Mi ha insegnato l’amore e l’odio, la felicità e l’amarezza, il coraggio e la paura.

    L’ho amato e lo amo alla follia, con una dedizione tale da non capire più quello che volevo e che mi ha portata ad affidare alle sue mani la costruzione della mia vita. E lui ne è diventato l’architetto, i muri, il tetto, il camino, colui che progetta, che mi sorregge, che mi protegge e che mi tiene al caldo tra le sue braccia. La mia vita è diventata la sua mano che stringe la mia quando ho paura.

    Gli cammino dietro e penso al perché io sia arrivata a tanto. Forse le cose sono cambiate e le ferite che aveva provato a guarire si sono riaperte. Mi ha salvata da i miei incubi, ma io non gli ho mai chiesto di farlo. Si è imposto e mi ha obbligata a sopportare tutto una seconda volta.

    Ha preso il controllo della mia vita, l’ha guidata e condotta dove voleva lui e io gliel’ho lasciato fare.

    Quando ritorno con la mente nella realtà, siamo ormai arrivati al parco.

    Ho ancora un forte mal di testa per l’altra sera, le tempie mi pulsano e mi sembra di perdere l’equilibrio.

    Vado diretta a sedermi al solito muretto ma lui non si siede vicino a me, rimane in piedi. Gira su sé stesso e non mi guarda.

    Passano secondi, poi minuti.

    Io non so cosa fare, non so cosa dire: e se lui davvero non sapesse nulla, perché siamo qui? È arrabbiato per qualcos’altro?

    Nei minuti di silenzio ripenso a tutte i motivi per cui potrebbe essere arrabbiato. Me ne vengono in mente molti, ma nulla di così grave da giustificare la sua assenza. Può essere solo quello.

    Si ferma e con tutta la calma di cui è dotato e che gli ho sempre invidiato, mi fissa. Respira profondamente e mi chiede l’inevitabile.

    ‘‘Allora Alba, è vero?".

    Non respiro, non rispondo.

    "Non negare me lo ha già detto Francesco. Ma voglio la tua conferma, Alba’’.

    Francesco, il suo migliore amico. Dovevo aspettarmi che glielo avrebbe detto, ma nemmeno mi ricordo di lui quella sera. Pensavo fosse anche mio amico e che non sarebbe andato a raccontarglielo alle mie spalle. Glielo avrei detto io, prima o poi, senza aver bisogno del suo aiuto.

    Altro silenzio.

    Lui sa bene che non gli risponderò e infatti non mi lascia nemmeno il tempo di sospirare che mi afferra per le braccia. Le stringe forte, mi fa male, ma non dico niente. Ho paura che se proverò a parlare scoppierò in un pianto e so che lui mi seguirebbe a ruota. Non voglio vederlo piangere, fa troppo male.

    Ma lo vedo che sta per cedere, per esplodere, vorrebbe prendere a pugni qualsiasi cosa gli capiti davanti, ma per sua fortuna, o sfortuna, ci sono solo io difronte a lui. Entrambi sappiamo bene che l’ultima cosa che vuole è che io mi faccia del male, per questo siamo qui.

    Ricomincia a camminare nervosamente per calmarsi.

    Io continuo a tenere la testa bassa. Non ho il coraggio di incrociare i suoi occhi. Ogni tanto però quando sento il suo respiro allontanarsi e capisco che si è girato alzo gli occhi e lo guardo per pochi secondi.

    È così bello.

    È incredibile che in tutto questo casino l’unica cosa a cui io riesca a pensare è a quanto sia fottutamente bello anzi, bellissimo: sembra un angelo.

    È una cosa che ho sempre odiato di lui, la sua bellezza perché io non sono come lui e non ho mai capito cosa ci trovasse in me. So di non essere l’unica a pensarlo, lo vedo negli occhi delle ragazze che ci vedono passeggiare mano nella mano, in quelli dei suoi amici, in quelli di suo padre. Eppure lui è sempre stato il più geloso, chissà cosa ci ha visto in me.

    Continuo a guardarlo di nascosto.

    I capelli disordinati come un nido sulla sua testa, i suoi movimenti goffi, le vene sporgenti sulle sue braccia, per me è tutto ciò che c’è di più bello al mondo.

    Ora tocca a me a parlare, dovrei dire qualcosa ma ogni parola che mi viene in mente mi sembra inutile, così la rimando indietro da dove è nata e ritorna nel mio stomaco. Siamo in silenzio da troppo tempo. Non è abituato alla mia bocca chiusa, di solito si diverte a dirmi di chiudere il becco e che i miei aneddoti saprebbero ripeterli perfino i muri della sua stanza da quando sono ripetitiva. Una volta mi ha chiamata ‘logorroica’ davanti a tutti i miei amici e così gli ho tirato un pugno sulla pancia. Ovviamente non gli ho fatto il minimo dolore, ma lui ha capito di non dovermi chiamare mai più così. Ecco, in questo momento avrei solo voglia di tirargli un altro pugno, perché lo odio quando s’incazza con me.

    Lui si sta innervosendo sempre di più, me lo sento, manca ancora poco e non riuscirà più a trattenersi. Mi decido a parlare. Dico la cosa più ovvia e sensata. Via il dente e via il dolore, no?

    ‘‘Scusa Angelo".

    Capitolo 2

    Lunedì 27 maggio 2019

    La sveglia suona alle 06.30 per avvertirmi dell’inizio di una nuova giornata, sembra volermi dire: ‘non importa se hai passato due giorni a letto a piangere, senza dormire e mangiare e se hai due solchi sotto gli occhi, alza il culo e vai a scuola’.

    Merda la scuola.

    Non sono mai stata una cima, al contrario di Angelo che porta ottimi voti a casa per i suoi, e ho sempre odiato condividere l’ossigeno con quegli zombie dei miei compagni per cinque ore al giorno.

    Dopo mercoledì, il giorno del mio incontro con Angelo, mia madre mi ha permesso di stare a casa. È abituata alle nostre litigate e sa cosa aspettarsi. Ma questa volta è diverso.

    Ieri sera però, dopo un lungo discorso sulla vita e le responsabilità, mi ha detto che oggi sarei dovuta tornare a scuola e si è offerta di portarmi lei in macchina a patto che ci vada.

    Quindi mi tocca iniziare la giornata, alzarmi dal letto dopo quattro giorni, farmi una doccia e rendermi presentabile per la società. Mancano ancora tre settimane di scuola e poi inizierà l’estate e potrò scomparire dal mondo per tre mesi, posso farcela.

    In questi quattro giorni non ho visto nessuno. Ho passato le notti sveglia con le parole di Angelo che mi rimbombavano nella testa senza darmi tregua: ‘Sei un’egoista Alba’.

    Egoista, come se lui c’entrasse in tutto questo. Come se dovessi chiedergli il permesso per fare quello che voglio o come se le mie decisioni dipendessero da lui.

    ‘Vattene a fanculo te e le tue droghe di merda. Mi sono rotto di starti dietro come se tu fossi una bambina!’.

    Nessuno gli ha mai chiesto di farlo, non ho cercato il suo aiuto, è lui che ha deciso di trattarmi come una bambina.

    ‘C’hai diciotto anni la vuoi mettere a posto quella testa di cazzo che ti ritrovi?’.

    Proprio perché ho diciotto anni posso permettermi di fare quello che voglio senza dovermi giustificare con nessuno.

    Ho diciotto anni e voglio sbagliare, voglio divertirmi, voglio essere libera. Se ci penso, trovo una risposta per tutto quello che mi ha detto e che non sono riuscita a dire quando lo avevo davanti.

    Sono sicura di avere ragione.

    Poi però, mi risuona nelle orecchie l’ultima frase che ha pronunciato prima di lasciarmi lì al parco, da sola.

    ‘Pensavo avremmo potuto farcela, ma non posso combattere da solo. Non ce la faccio più Alba, è finita’.

    È finita. Si è girato e se ne è andato. Non mi ha nemmeno lasciato il tempo di rispondere.

    Questa è la frase peggiore. Quella che non mi ha fatto chiudere occhio. Mi ha fatto sudare e insieme avere i brividi. Nelle notti insonni non riuscivo a stare al buio, la sua voce mi sembrava più forte, così tenevo la luce accesa e cercavo di distrarmi. Leggevo, guardavo un film o mettevo a posto camera mia per tutta la notte. Di giorno poi dormivo. Così evitavo le domande di mia madre. Non ho risposto ai messaggi dei miei amici che mi chiedevano di vederci. Ma ora devo uscire da casa, devo vedere la luce del giorno, le persone, centinaia di persone di cui non mi importa niente.

    Dopo una doccia e una colazione approssimata, con mia madre che mi ha fissata tutto il tempo per assicurarsi che mangiassi qualcosa, sono pronta.

    Mi sono messa un paio di leggings perché fa troppo caldo per i jeans e una camicetta azzurra, che ad Angelo piace molto, la stessa che una volta stava per rompere quando con tanta foga voleva sfilarmela per fare l’amore. Un crampo mi colpisce in pieno stomaco e mi sento quasi mancare. Respiro profondamente cercando di pensare ad altro. Prendo il cellulare in mano ma non ho messaggi a cui rispondere e così lo rimetto nella tasca davanti dello zaino.

    Mi guardo allo specchio, schifo.

    I miei occhi sono assenti e gonfi. Il solito colore verde ora sembra essersi mischiato a un grigio spento, forse per il poco sonno. Provo a sistemare i capelli ma è inutile. La mia faccia sciupata si nota in ogni caso. Decido di raccoglierli in una coda. Sono cresciuti parecchio, raccolti riescono ad arrivarmi sotto le spalle.

    Provo a coprire le occhiaie con un po’ di trucco e di colorare la mia carnagione pallida.

    Mia madre mi raggiunge in salotto e usciamo di casa.

    Quando arrivo davanti all’entrata della mia scuola la saluto frettolosamente e scendo dalla macchina. Non incrocio nessuno sguardo famigliare, ma li sento tutti puntati su di me.

    Angelo, Angelo, Angelo, Angelo, Angelo, Angelo, dove sei?

    Non lo vedo. Nel parcheggio non trovo la sua auto. Cerco la sua cartella inconfondibile di un rosso acceso, ma niente. Nemmeno nel suo solito gruppetto di amici. Lì però, c’è Francesco.

    Io lo fisso e lui si accorge di me. Mi precipito nella sua direzione. Lui si allontana dal gruppo e mi viene incontro. Quando mi è vicino tenta di abbracciarmi, ma le mie mani si muovono da sole, più veloci del mio cervello e colpiscono Francesco in piena faccia con un pugno. Non so come, ma le mie piccole mani riescono a fargli sanguinare il labbro.

    I nostri coetanei in silenzio si limitano a osservarci. Non è una cosa strana assistere a una rissa in un liceo, in un luogo che obbliga centinaia di adolescenti in preda agli ormoni a stare insieme.

    Francesco si tocca il labbro sanguinante. Mi guarda, un po’ spaventato e un po’ dispiaciuto. Non c’è bisogno che io gli dica niente, sa perché ho reagito così.

    "Alba scusa ma cosa avrei dovuto fare?’’.

    Lo dice con un filo di voce per giustificarsi ed io, senza dargli segno di averlo ascoltato, mi volto in direzione opposta alla scuola.

    Non posso entrare in queste condizioni.

    Mentre cammino cercando di allontanarmi il più possibile dagli occhi di tutti, incontro un mio compagno di classe, Matteo. È in ritardo ma sembra non interessarsene. Procede lentamente mentre si gira una canna. Ci salutiamo e mi offre di saltare la prima ora di lezione con lui. E così facciamo.

    Andiamo a rintanarci nel solito parco. Oltrepasso il muretto su cui ero seduta qualche giorno fa, quando Angelo mi ha lasciata.

    Mi si ferma il cuore per qualche secondo, so che è impossibile, ma è successo.

    Ci sistemiamo dentro una piccola casetta giocattolo di legno. Matteo mi guarda in modo strano, non so il perché ma forse ha saputo quello che è successo e ne è felice. Ha sempre odiato Angelo e la cosa è ricambiata. Diciamo che sono due tipi di persone completamente diverse: Matteo si diverte a farsi di canne e bere birra alla spina in un locale qualsiasi con i suoi amici, Angelo no, non tocca quella roba, quando lui e i suoi amici si vogliono divertire non fanno come noi, rubano dalle taverne dei genitori qualche vino pregiato e si ubriacano nella piscina di uno di loro. Ecco, io non sono come loro. Io sono come Matteo.

    "Alba asciugati le lacrime e fumati ‘sto cannone’’.

    È tutto quello che dice, senza domande, ed è quello di cui io ho bisogno.

    Dopo qualche minuto, la canna fa effetto.

    Provo a pensare a qualcosa che mi faccia salire la botta felice. Guardo fuori dalla piccola finestrella della casa di legno: nel parco ci sono quattro alberi pieni di foglie verdi, le aiuole sono piene di fiori su cui le api volteggio ingorde.

    Poveri fiorellini, inermi con quelle sanguisughe che li prosciugano da tutto quello che di buono hanno da offrire. Gli uccellini cantano felici per l’arrivo dell’estate. O almeno così me li immagino io. Inizio a fischiettare cercando di imitarli e Matteo mi segue.

    Intorno alla casetta di legno c’è dell’erba con molti trifogli. Allungo la mano fuori dalla finestra e sposto l’erba per cercare un quadrifoglio. Portano fortuna e io ne avrei davvero bisogno, ma dopo dieci minuti di ricerca, mi arrendo. Eppure io so dove trovare un quadrifoglio. Abbasso la testa e mi guardo il braccio sinistro. C’è una piccola cicatrice quasi invisibile che io conosco a memoria e che mi ricorda la forma di un quadrifoglio. Avvicino il braccio alle labbra e gli scocco un piccolo bacio. Matteo mi guarda e scoppia a ridere. Poi butto di nuovo entrambe le braccia giù, mi appoggio con la schiena alla casetta di legno e lascio andare la testa indietro. Sul tetto è pieno di scritte. ‘Irene troia’ con tanto di numero di telefono. Potrei chiamarla e sentire cos’ha da dirmi, o almeno avvertirla che il suo numero di telefono è scritto su una casetta di legno. Magari è proprio Irene che lo ha scritto per farsi contattare.

    ‘Giada e Andrea 4 ever’ con una X sopra il nome di Andrea. Povero Andrea. Vorrei dire a questo Andrea di prendersi il numero di Irene per consolarsi, potrebbe nascere un grande amore. Ma l’amore fa schifo. È meglio che Andrea rimanga da solo a godersi la vita lontano dai problemi e dalla sofferenza.

    Continuo a leggere le varie scritte sul soffitto ma inizia a girarmi la testa, così chiudo gli occhi. Restiamo al parco per circa mezz’ora parlando poco. Io non ho più niente da dire, sono senza parole.

    Quando entriamo a scuola le nostre strade si dividono, lui va diretto in classe mentre io voglio prima passare in bagno a darmi una sciacquata e a lavare via l’odore di erba dalle mani.

    Sono chiusa dentro al bagno, mi gira ancora un po’ la testa, forse dovevo dare retta a mia madre e mangiare di più a colazione. Abbasso la tavoletta del gabinetto e mi ci siedo sopra. Sulla porta del bagno chiusa davanti a me ci sono delle scritte nere, esattamente come nel tetto della casetta di legno. Prendo una penna dal mio zaino e mi avvicino alla porta. Scrivo ‘Irene e Andrea 4 ever’.

    Sento bussare prepotentemente da fuori. Qualcuno sta battendo forte le mani contro la porta per farsi aprire, la spalanco e mi ritrovo davanti Valentina.

    Vale è quella che potrei definire la mia migliore amica, il mio Francesco insomma. Noi però abbiamo un rapporto un po’ più complicato, ma si sa che le amicizie tra femmine non sono mai semplici come tra maschi.

    Mi guarda con un’espressione severa ma io non ho voglia di parlare con lei dopo l’altra sera perché è colpa sua se è andata a finire così. Aspetto che sia lei a dirmi qualcosa.

    "Ora fumi senza di me?’’.

    Valentina non mi rompere il cazzo.

    Le rispondo scandendo le parole, voglio che mi lasci stare.

    Ma cosa ti prende? Non mi rispondi ai messaggi, non ti sei fatta vedere questo weekend, e ora mi tratti così? Guarda che lo so cosa hai fatto e che Angelo si è infuriato ma lascialo perdere, poi gli passa.

    Angelo non si è infuriato, mi ha lasciata.

    Valentina non risponde. Non so cosa possa pensare, lei ha sempre avuto da ridire su Angelo, ma poi mi ha sempre aiutata a rimediare ogni volta che ho combinato un casino. Forse le dispiace. Magari ha capito che è colpa sua e non sa cosa dire per farsi scusare.

    Sono arrabbiata con lei, ma ho bisogno del suo aiuto. Quando Angelo mi ha chiesto cosa ho fatto quando ero sotto effetto dell’ecstasy, io non ho saputo rispondere, ma lui mi ha detto che è proprio per quello che mi stava lasciando e non perché mi fossi drogata. Devo sapere cosa ho fatto, cos’è successo. Non mi ricordo niente.

    "Vale mi spieghi che cazzo ho fatto? Io non me lo ricordo, aiutami ti prego’’.

    Valentina abbassa la testa.

    Non lo so Alba, mi ha portata via Michele e quando ti ho vista l’ultima volta stavi bene. Cioè no… eri un po’ incazzata con Angelo, ma come sempre insomma, pensavo che poi saresti andata via con lui.

    Angelo è venuto alla festa, questo me lo ricordo. Avevamo litigato poco prima quella sera e sono andata con Valentina fino alla discoteca e non con lui.

    L’ultima immagine che ho di quella serata è Valentina che se ne va mentre io la chiamo per chiederle aiuto, ma forse l’ho solo pensato e non ho detto nulla. Ma lei mi ha lasciata lì da sola, non si è presa cura di me, ed è successo quello che mi ha portata in questa situazione.

    Aspettavo solo la sua confessione per poter litigare e sputarle in faccia tutto quello che penso.

    "Quindi tu brutta stronza mi hai lasciata da sola in quello stato?’’.

    Alba non eri da sola, eri con Matteo e c’era Angelo che ti stava cercando.

    Ma avevo bisogno di te. È tutta colpa tua!.

    "Quello che hai fatto è colpa tua, non mia, volevo aiutarti ma ero ubriaca e fatta ed era già tanto se riuscivo a stare in piedi io. E poi abbiamo litigato, non ti ricordi?’’.

    No, non mi ricordo niente, possibile che non riesca a capirlo. La odio quando fa così. Invece che aiutarmi deve rinfacciarmi un piccolo litigio per qualche stronzata a caso.

    "Valentina ma vaffanculo’’.

    Mi allontano così: alterata per l’effetto della marijuana che sta finendo e cercando di non scoppiare in un pianto isterico.

    Non qui, non qui.

    Non è la prima volta, io e Vale litighiamo in continuazione, ma dopo pochi minuti torna tutto come prima. Questa volta però è diverso, non la perdonerò tanto facilmente.

    Continuo a camminare per i corridoi, provo a calmarmi per entrare in classe e affrontare le ore di scuola che restano. Sento gli occhi dei miei compagni di scuola puntati tutti su di me. Non capisco se sia vero o se sono troppo paranoica e me lo sto immaginando. Devo sapere cos’è successo quella sera.

    Mi viene da piangere, ma non posso farlo.

    Non saprei con chi farlo.

    Non ho più nessuno.

    Capitolo 3

    Giovedì 30 maggio 2019

    Cerco su Google: ‘conseguenze dell’ecstasy’, ‘amnesia dopo ecstasy’, ‘effetti collaterali dell’ecstasy’.

    Leggo: ‘L’MDMA ha una primaria influenza a livello comunicativo ed emozionale, svelando la psiche dell’individuo… Effetti psicologici: forte sensazione di benessere, accresciuta confidenza con gli altri, rimozione delle barriere emotive e comunicative, esaltazione delle sensazioni, maggiore capacità di percepire il ritmo e la musica… Consumata insieme a bevande alcoliche alle quali conferisce un retrogusto amaro, provoca un

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