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Ali nella fiamma
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Ali nella fiamma

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About this ebook

Pubblicato dall'editore Sonzogno nel 1939, "Ali nella fiamma" narra la vicenda di Carina, una ragazza che, pur nei suoi diciotto anni, agli occhi della zia Bice continua ad essere una bambina. Ma Carina, in effetti, bambina non lo è più: in occasione di una vacanza a Portofino, infatti, la ragazza fa una conoscenza molto speciale. E, con lo sguardo tipico della grande narratrice che è sempre stata, Flavia Steno ci accompagna nell'avventura di una gravidanza extramatrimoniale, in un'Italia che è ancora provinciale e moralista. La colpa, il riscatto e l'emancipazione sono al centro di un romanzo dai contorni delicati, cadenzato da un'indescrivibile sensibilità... -
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateOct 28, 2022
ISBN9788728447949
Ali nella fiamma

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    Ali nella fiamma - Flavia Steno

    Ali nella fiamma

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1939, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728447949

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    ALI NELLA FIAMMA

    PARTE PRIMA

    I.

    — Carina!

    La voce squillante di zia Bice conteneva, adesso, anche una venatura d’impazienza.

    — È la terza volta che ti chiamo!

    Invece di scusarsi, la fanciulla alzò gli occhi alla finestra dove zia Bice s’era affacciata e dove adesso, inondata di sole, pareva la figurazione stessa dell’inoltrata primavera con la blusa bianca che ringiovaniva di grazia la floridezza del suo busto e il casco dei biondissimi capelli pieni di luce, di riflessi, di bagliori, e disse:

    — Come sei bella, zietta!

    — Piacere. Ma se non ti sbrighi, addio partita, stamane. Sono le dieci.

    — E io sono prontissima — fece Carina balzando in piedi.

    — Non ti vesti? — chiese tra sgomenta e sorpresa la zia raggiungendola poco dopo in giardino.

    — Non ti sembro vestita? Abito bianco; cintura rossa; scarpe da tennis…

    — Ma tutto già sciupato dalla gita in barca di poco fa. A proposito: a che ora sei uscita? Doveva essere appena giorno o poco più.

    — Che esagerazione! Erano le sei suonate e siamo di maggio, il che vuol dire che almeno da un’ora era giorno alto. Sapessi che mare! Una bellezza!

    — Immagino. Sei andata con Steva?

    — Naturalmente.

    Mentiva. Ma non poteva dire a zia Bice che era andata con Tassilo Polzer, nella barca a vela che egli si era fatto dare da Rosetti e che li aveva portati lontano, assai oltre la punta di Portofino, in mare aperto dove l’illusione di essere soli al mondo diventava realtà e il baciarsi perdutamente sotto il sole, sperduti nella luce d’oro e azzurra pareva soltanto risposta a un comandamento di vita.

    Per un attimo, il ricordo che era ancora sensazione viva in tutte le sue vene parve sopraffarla; dovette fare uno sforzo per tenere aperti gli occhi e non cedere alla tentazione di ricontemplare dentro di sè, sotto le palpebre calate, la figura gagliarda e svelta di Tassilo ritto sullo sfondo candido della vela con i nerissimi capelli scomposti dal vento, il sorriso luminoso di tutto il volto ebbro di un trionfo confessato con gioia quasi infantile.

    — Carina! Piccola cara! Piccola donna mia…

    E trasalì udendo invece quella di zia Bice che le chiedeva:

    — Avete pescato?

    — No.

    — Peccato! Contavo proprio su un bel fritto di pesce per stamane.

    — Se non è che questo… mandi la Rosa giù alla riva e ne trovi quanto vuoi.

    — Allora diglielo tu giacchè sali a metterti in ordine.

    — Ti pare proprio che ne abbia bisogno?

    Trasse dalla borsetta che aveva deposto sulla panchina uno specchietto nel quale verificò la freschezza della parte superiore dell’abitino candido, semplicissimo e rettificò l’ondulazione della sua zazzeretta bruna.

    — Una ripassatina di cipria e sto benissimo — disse.

    — Niente berretto?

    — Niente.

    — Bada che il sole comincia a scottare.

    — Ma il tennis di Villa Christie è a ponente.

    — Non ci avevo mai fatto caso.

    — Perchè non giuochi a tennis.

    — Ci mancherebbe altro alla mia età.

    — Ma se non hai quarant’anni!

    — Ebbene? Mi vedi correre e scalmanarmi dietro a una palla facendo salti di metri come fai tu?

    — Potresti giocare senza fare i salti. C’è tanta gente che gioca a tennis composta e tranquilla!

    — Be’, quello, poi, non mi piace… Ma… che hai? — chiese concitata a un tratto vedendo Carina che ricadeva a sedere sulla panca, pallidissima.

    La fanciulla non rispose subito. Si passò invece una mano sulla fronte, poi alzò il viso a respirare forte l’aria.

    — Che hai? Ti senti male?

    — Non so. Ho fatto per alzarmi e ho visto girarmi tutto intorno. Una vertigine, credo.

    — Santo Cielo! Ma allora stai male. Hai preso niente, stamane, prima di andar fuori?

    — No. Era troppo presto.

    — E quando sei tornata?

    — Nemmeno; era già troppo tardi.

    — Bel giudizio! Sei dunque digiuna. Capisco che tu abbia le vertigini. Digiuna, alla tua età e con due ore di barca! Presto: sali a prendere un caffè e un panino.

    — Ma arriveremo a Villa Christie quando gli altri se ne andranno!

    — E vorresti giocare a tennis con le vertigini per la fame?

    La prospettiva decise Carina che si rialzò per avviarsi verso la cucina della villa posta a pian terreno. Non aveva però fatto due passi che si fermò un po’ impressionata, stavolta.

    — Mi riprende — disse rimettendosi a sedere — e ho anche nausea. Forse non è fame, zia.

    — È fame, è fame! Cosa vuoi che sia? Fosse autunno direi che puoi aver preso freddo; ma di questa stagione… o faceva freddo, di’?

    — Un po’ — fece Carina avvilita.

    Non era abituata a star male; godeva di una salute di ferro ed era allenatissima a tutti gli sport, per cui quella improvvisa e inesplicabile indisposizione la mortificava e smontava di colpo.

    — Ma guarda cosa mi deve succedere!

    Tentò di sorridere ma non ci riuscì.

    — Mi viene persin freddo. Devo essere verde, no?

    — Vieni a sdraiarti un momento — disse la zia alzandosi e prendendola sotto le ascelle quasi a sorreggerla totalmente; — ti do un fernet e poi un buon caffè e latte. E fammene ancora di queste sorprese di uscirtene digiuna!

    — Non sgridarmi, zietta!

    Sulla soglia della sala da pranzo, la fanciulla si sciolse a un tratto dalle braccia che la reggevano.

    — Che fai?

    — Zia, zia, mi è passato. Tutto a un tratto, così come era venuto!

    Sorrideva felice, ritornata immediatamente la Carina di prima.

    — Dammi un panino, però, perchè ho una fame da lupatto. E andiamocene.

    Stupita, zia Bice la vide correre in cucina e tornarsene quasi subito con la tazza del caffè fra le mani.

    — Ma ti è passato davvero?

    — Non vedi?

    — Sono sbalordita. Mai visto una cosa simile.

    Cinque minuti dopo le due donne camminavano vicine sulla strada che da Portofino scende a Paraggi; la fanciulla, già dimentica del malessere di poco prima; la zia, un po’ preoccupata perchè la salute di Carina era la cosa che più importava, nella vita, non soltanto per lei ma anche — e soprattutto — per il proprio cognato, il padre di Carina, che le aveva affidato la fanciulla rimasta orfana di madre e fidava in lei totalmente.

    Appunto per la salute della piccola — florida, d’altronde, e solidissima, — zia Bice soleva approfittare di tutte le frequenti assenze da Genova del cognato che la sua situazione di generale dell’Esercito chiamava spesso a Roma, per fare dei brevi soggiorni in Riviera dove il generale Dazio Signoretti possedeva, lungo la strada di Portofino, poco dopo Paraggi, alta sulla strada di una ventina di metri, la Villa Stenia, così chiamata dal nome della madre di Carina.

    Stavolta, assente il Generale per una missione che durava da quasi due mesi e che si sarebbe prolungata ancora, zia Bice e Carina si trovavano in Riviera dai primi di aprile e, naturalmente, avevano partecipato a quella lieve e pur faticosa esistenza tutta chiusa fra lo sport e la mondanità che la presenza a Rapallo di una florida colonia forestiera rendeva inevitabile.

    Il susseguirsi di partite a tennis; di gite in barca, in automobile, a piedi; di svaghi a getto continuo, faceva parte integrale di quel programma di vita all’aperto che zia Bice riteneva necessario alla salute di Carina e che, senza che ella se lo confessasse, rispondeva anche ai suoi gusti, e, forse, al bisogno della sua gioventù che, se era alquanto stagionata, era tuttavia ancora lungi dal tramonto.

    Aveva trentotto anni, zia Bice, e se da dieci, ormai, aveva rinunziato a pensare a un avvenire suo per consacrarsi tutta alla bimba della sua unica e amatissima sorella, non per questo aveva spento dentro di sè il bisogno di sentirsi vivere.

    Fortunatamente, le condizioni sue e del cognato le permettevano di rispondere a quel bisogno con un tenore di vita nel quale — amore a parte — c’era posto per tutte le risorse e le gioie dell’esistenza. La sua natura piuttosto superficiale l’aiutava felicemente a trovare nel flirt un surrogato dell’amore sufficiente a soddisfare la sua vanità di donna; nella direzione della casa del cognato, uno scopo alla vita; nell’affetto per Carina, un derivato al naturale istinto della maternità.

    Era contenta del suo stato, zia Bice; e Carina era contenta di lei.

    I loro rapporti non erano forse precisamente quelli che il generale Signoretti supponeva: c’era più fiduciosa amicizia che non severa vigilanza nel modo con cui zia Bice esplicava la sua maternità e più spirito d’indipendenza che non rispetto nell’atteggiamento di Carina per lei; ma l’affetto che le avvinceva reciprocamente era vivo e profondo e questo bastava a far serena la loro vita in comune.

    A diciott’anni, e con tanto di licenza liceale, Carina continuava a essere, nel concetto di zia Bice, una bimba. Che i tenaci capricci infantili risolti sempre con crisi disperate di lagrime fossero diventati passionalità chiusa, vigilata da un orgoglio che apparentemente doveva costituire la salvaguardia più sicura della fanciulla, non vedeva la zia. Ella sapeva Carina schietta e un po’ distante sempre, dritta e volitiva, e per questo, anzichè vigilarla nel significato materno della parola, si accontentava di starle accanto lasciandosi rimorchiare da lei, pronta sempre ad accontentarla, preoccupata unicamente di saperla sana, forte e lieta.

    Anche adesso, mentre le camminava accanto, la guardava di quando in quando spiando se il bel visetto bruno della nipote portasse le tracce del malessere di poco prima.

    Non pareva.

    Carina marciava spedita col suo bel passo elastico di sportiva, gli occhi grandi e grigi bene aperti alla luce del sole, del mare, dell’azzurro; i brevi capelli soffici offerti alla brezza che li sollevava un poco. Sentendo su di sè lo sguardo della zia, disse:

    — Sto benissimo. Era fame.

    Soggiunse subito, poichè svoltavano all’ultimo tratto della strada, quella che chiude, a destra, la piccola insenatura di Paraggi e rivela l’altro braccio di strada, a sinistra della spiaggetta, verso il castello:

    — Guarda: sono aperte le finestre del castello. La signora Doretti dev’essere tornata.

    — E c’è la barca dei San Vito in acqua — disse a sua volta la zia accennando all’insenatura dove una vela palpitava come un’ala bianca riflessa dal basso fondale limpido fino all’inverosimiglianza.

    — Già. Vuol dire che Gabriella è tornata. Chissà che non la troviamo su a Villa Christie?

    Ora, le due donne attraversavano la spiaggetta tenendo gli occhi fissi all’acqua come ammaliate dall’incantesimo del piccolo golfo di cobalto liquido e luminoso che pareva attingere la luce dal fondo.

    — Che mare! — disse la voce della fanciulla diventata grave per la commozione. — Non ci si stancherebbe mai di guardarlo! Par sempre nuovo!

    — Proprio così!

    Una voce, alle loro spalle, trillò scherzosa:

    — Cucù!

    — Mara! — esclamò Carina voltandosi mentre un colpo di racchetta si abbatteva lieve sulla sua spalla.

    — In ritardo anche voialtre; meno male!

    Mara Sandri stava bene accanto a Carina: aveva la stessa sua snellezza, ma era più vivace di lei e più volentieri sorridente.

    — Mi hanno già telefonato due volte da Villa Christie. Ci sono tutti. Anche l’Antinoo — soggiunse con intenzione.

    Zia Bice sorrise. E sorrise anche Carina.

    Sapeva perfettamente ciò che significava l’allusione di Mara Sandri. Sapeva anzi assai di più. Per l’amica, per la zia, per tutto quel piccolo mondo, Cesco de Asaro — soprannominato l’Antinoo per la sua bionda bellezza di giovane iddio — aveva uno spiccato debole per lei; ma ella sapeva che le attenzioni del giovane nascondevano un sentimento vero. Era cosa che datava da Genova e da oltre un anno, quando ancora ella faceva l’ultimo corso liceale e Cesco de Asaro l’ultimo anno di lettere. Bellissimo, de Asaro, e intelligente, e ricco. Zia Bice lo aveva già qualificato un probabile conveniente partito che forse sarebbe stato, a suo tempo, accetto anche al padre di Carina.

    Sì, se ella avesse voluto. Ma non aveva voluto, non voleva. Non aveva mai pensato all’amore mentre studiava. Non ci aveva pensato nemmeno venendo a Rapallo con propositi tutti di divertimento e se era stata stupita di trovare anche qui, e sempre sui suoi passi, il bell’Antinoo biondo, la sua presenza non aveva però alterato di una linea il suo equilibrio sereno.

    Non avevano mai pensato all’amore i diciott’anni di Carina fino al giorno in cui, sulla spiaggetta, appunto, di Paraggi, i suoi occhi grigi — ancora tutta candida interrogazione alla vita — non si erano incontrati in quelli neri e predatori di Tassilo Polzer.

    Bellissimo anche Polzer, ma l’opposto di Cesco de Asaro: bruno quanto questi era biondo; maschio quanto de Asaro era efebico; con un che di feroce nel sorriso della dentatura perfetta che era invece smentito dalla dolcezza vellutata dello sguardo.

    Veniva fatto istintivo di pensare, guardandolo, che riposare fra le sue braccia doveva dare la sensazione della perfetta sicurezza contro tutte le insidie della vita.

    Era stata quella sensazione inconscia e oscura che aveva perduto Carina.

    Perduto. Perduto.

    Come fosse avvenuto, ella non avrebbe potuto dire e, d’altronde, non se lo chiedeva mai, anzi, non lo avvertiva nemmeno, chiusa com’era nel cerchio incantato della passione che aveva fatto di lei un’altra creatura e trasfigurato, intorno, tutto il mondo nel quale si moveva.

    Forse che è possibile dire come avvengono queste terribili e fatalissime cose? Ci si trova insieme al tennis, al ballo, sulla spiaggia, in mare: due occhi vi seguono, vi investono, vi frugano, vi penetrano, vi comandano; un braccio circonda la vostra vita esile trasportandovi nelle volute di un valzer suggestivo; una voce precisa appena ciò che i silenzi intensi rivelano, implorano, impongono; e la dedizione avviene prima che gli occhi si siano aperti sulla realtà e che la volontà abbia avuto modo di intervenire per abdicare o per resistere.

    Il romanzo di sempre.

    Il romanzo di Carina.

    Di Tassilo Polzer ella sapeva appena che era transilvano — una sottigliezza alla quale egli teneva per distinguere che non si riteneva nè ungherese nè rumeno; — che aveva ventisei anni; che doveva essere ricco poichè abitava al Kursaal; che eccelleva in ogni genere di sport con bravura uguale all’audacia; che parlava tutte le lingue con identica disinvoltura; che sapeva perdere al giuoco con elegante indifferenza.

    Molto. Niente.

    Ma sapeva che era perdutamente innamorato ed ella lo era altrettanto perdutamente.

    E questo solo contava.

    Mentre Mara Sandri le comunicava, con intenzione maliziosa, che Cesco de Asaro l’attendeva a Villa Christie, ella pensava che anche Tassilo Polzer ci sarebbe stato. Si erano dati appuntamento colà, lasciandosi, quella mattina, dopo la gita in barca.

    A Villa Christie per il tennis; poi, all’Imperiale per il bridge; poi, la sera, in qualche posto, per il ballo. Dovunque egli avrebbe trovato un momento per isolarsi con lei magari tra la folla, l’atteggiamento di un bacio offerto da lontano.

    Chiuse un attimo gli occhi, presa improvvisamente dal languore che la investiva tutta solo a pensare le labbra di Tassilo e la luce filtrante dai suoi occhi socchiusi.

    Si riscosse alla voce di Mara che squillava gioiosa:

    — Ciao! Ciao! — accompagnando l’esclamazione col gesto del braccio alzato a salutare.

    Guardava in alto, l’amica; verso il terrazzo di Villa Christie che già appariva in capo alla breve salita sovrastante lo sperone del castello di Paraggi.

    — Gabriella — disse zia Bice. — Avevamo visto la sua barca giù.

    — È arrivata stamane — informò Mara che era cugina della San Vito; — ha imbarcato al largo anche Oscar Hallberg che ha trovato quasi intirizzito. Figuratevi che s’era buttato a nuotare alle tre di stanotte!

    — Bel tipo! Deve discendere da un tritone — disse zia Bice sorridendo.

    A un tratto, guardando su verso il terrazzo, Mara avvertì:

    — Attenzione!

    Aveva scorto Cesco de Asaro ritto in vedetta sul terrazzo poco distante da Gabriella San Vito.

    — Quello — soggiunse — meriterebbe di chiamarsi Costante.

    — Monella! — fece zia Bice dandole un buffetto sulla guancia.

    Ma sorrideva perchè l’attenzione della quale Carina era oggetto, da parte di un giovane come Cesco de Asaro, la lusingava nella sua maternità ideale.

    In quell’istante, Carina si staccò dal gruppo e corse su per la scaletta che abbreviava la salita alla villa. Voleva vedere Tassilo prima di lasciarsi bloccare da de Asaro.

    Sboccò sul piazzale del tennis proprio mentre egli giocava contro Nadia Elston, una lunga, snellissima e biondissima russa che formava, col giovane, un contrasto interessante.

    Inutile sperare di attirare il suo sguardo, tutto preso com’egli era dal giuoco. Carina rimase invece immobile a guardarlo rapita, insieme, e dalla sua bellezza e dalla sua bravura.

    Qualcuno disse, alle sue spalle:

    — Che coppia elegante!

    Si volse.

    — Addio, Rosetti.

    — Oh, Minervetta!

    Il pittore Mingo Rosetti la salutava col nome che egli aveva trovato per lei e che, nella sua intenzione, racchiudeva l’omaggio reso dalla sua vecchia amicizia protettrice alla cara figliola che egli giudicava non soltanto bella e intelligente, ma anche saggia appunto, come una piccola Minerva.

    La conosceva dalla nascita, e, prima di lei, aveva conosciuto sua madre che gli era stata maggiore di qualche anno.

    Ricco e celibe, Rosetti amava vivere nella società dei giovani dove i suoi quaran’tanni, pieni di spirito e di arguzia, non stonavano mai. Aveva fama di originale e, forse, lo era effettivamente, ma con un solido fondo di buonsenso prettamente genovese che lo faceva acuto conoscitore di uomini e preciso apprezzatore di eventi e di situazioni.

    — Ben costrutta, quella russa! — egli disse, seguendo con occhio soddisfatto le evoluzioni e gli scatti che mettevano in evidenza la linea fine e solida di Nadia Elston. — E quell’avventuriero balcanico giuoca come un dio!

    Carina gli si rivolse, aspra.

    — Prima di tutto — disse, — Polzer non è balcanico ma transilvano.

    — Oh, è press’a poco la stessa cosa.

    — Affatto; non sapete la geografia, Rosetti: in Balcania ci sono i Balcani; ma nella Transilvania, i Carpazi.

    — Ma come siete brava, Minervetta!

    La scrutava, incuriosito a un tratto, più che da quella precisazione, dalla vivacità dell’intervento che l’aveva determinata.

    Carina intuì, forse, la sorpresa che il suo scatto aveva suscitato perchè soggiunse, sorridendo:

    — Licenza liceale fresca! Ma poi — riprese, — perchè lo chiamate «avventuriero», Tassilo Polzer?

    — Ma cosa volete che sia uno di quei paesi laggiù che se ne sta qui solo a fare una vita passabilmente stupida, e non conosce nessuno, e non ha nessuno che lo conosca?

    — Che sciocchezze, Rosetti! Allora potreste giudicare alla stessa stregua anche Oscar Hollberg e Victor Buczany, per non parlare che di due che vedo qui.

    — No, invece. Oscar Hollberg, intanto, è campione di nuoto conosciuto come tale non solo in Isvezia, sua patria, ma in tutto il mondo. E Victor Buczany è in relazione con il Console di Ungheria che lo ha presentato a tre o quattro famiglie genovesi che a loro volta gli hanno procurato amicizie. Solamente quel Tassilo là nessuno lo conosce.

    Innervosita, Carina replicò:

    — E che vuol dire? Anche voi, se vi prendesse il ticchio improvvisamente di andare, poniamo, al Cairo, non conoscereste nessuno e nessuno vi conoscerebbe, laggiù.

    — Lo dite voi. Al Cairo, io conosco almeno cinquanta persone, compreso un bey, Mohammed Alì. Ma se anche non conoscessi nessuno, mi affretterei a far sapere chi sono per mezzo del mio Console.

    — Siete tutti invidiosi della superiorità di Polzer — concluse Carina che metteva del puntiglio nel non abbandonare il suo difeso.

    Rosetti non ebbe campo, nonchè di rispondere, neppure di meravigliarsi, perchè il colloquio fu interrotto dal sopravvenire di due signorine che si tenevano allacciate per le braccia al disopra delle spalle e che affrontarono Carina parlando insieme:

    Tu me dois ma revanche, chérie!

    What did yousay, darling?

    Invece di rispondere, Carina presentò:

    — Conoscete il pittore Rosetti? E voi, Rosetti, conoscete le mie amiche Dora Brown e Marguerite Mortier?

    — Conosco miss Brown — egli disse sorridendo a quella fra le due ragazze che evidentemente era la maggiore e non mostrava affatto di preoccuparsi della primissima giovinezza passata ormai, tanto evidente era, sul suo viso senza ritocco e nella semplicità quasi trasandata del suo vestire, la sua indifferenza a piacere.

    — E questa è Marguerite —

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