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I delitti dei Sette Giusti: Indagine tra Torino e Calascio per Baldanzi
I delitti dei Sette Giusti: Indagine tra Torino e Calascio per Baldanzi
I delitti dei Sette Giusti: Indagine tra Torino e Calascio per Baldanzi
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I delitti dei Sette Giusti: Indagine tra Torino e Calascio per Baldanzi

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Un nuovo delitto scuote l’Istituto di Anatomia Patologica di Torino scompigliando anche la vita di un sempre più ritroso Commissario Aurelio Baldanzi costantemente impegnato tra il sognare un divano solitario e il fuggire dall’eterna fidanzata Ornella. Ma ancora una volta le circostanze lo costringono ad agire suo malgrado, visto che la connessione con tragici fatti che vorrebbe dimenticare sembra essere inquietante. Un nome ritorna dal passato e non dà pace né a lui né alla ferrea Giulietta Ottolenghi; un nome che evoca ricordi drammatici e che sembra agire secondo uno schema in cui ogni logica è andata persa. Dalla graziosa Rocca D’Arazzo nel freddo Piemonte Baldanzi si trova catapultato nel bel paese di Calascio in terra aquilana, ai piedi di quella Rocca celebre in tutto il mondo ma che ora si trova a fare da sfondo ad una giustizia vendicatrice che evoca quella dei Sette Giusti che decisero della vita di poveri innocenti. Baldanzi vede il suo destino unito a quello della giovane Anita nei silenzi delle montagne, mentre altri sembrano segnati per mano di chi sa celare bene il suo segreto e i suoi raccapriccianti piani. E ancora una volta la Rocca è testimone.

Luisa Ferrari, classe 1971, veronese di nascita, genovese di ascendenza e piemontese di adozione, è medico anatomopatologo e si interessa da oltre vent’anni di museologia scientifica, principalmente dello studio dei reperti dell’antico Museo di Anatomia Patologica di Torino. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato il suo romanzo di esordio Cadaveri e tacchi a spillo (2020), La villa dei cadaveri (2021) e i racconti Il nano di Venezia e Odio, amore e arrosticini pubblicati nelle Antologie I luoghi del noir (2020) e Odio e amore in noir (2021). Nel 2022 La villa dei cadaveri è risultato primo della classifica al Festival Maggio in giallo.
LanguageItaliano
Release dateNov 2, 2022
ISBN9788869436505
I delitti dei Sette Giusti: Indagine tra Torino e Calascio per Baldanzi

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    I delitti dei Sette Giusti - Luisa Ferrari

    STRADA PER CALASCIO, 4 DICEMBRE 2021. ORE 17:30

    Freddo, freddo intenso di quello che anestetizza l’anima.

    Il respiro le si condensava in buffe nuvolette da cartone animato davanti al naso, mentre si inerpicava per il sentiero e le alte montagne lontane sembravano schernire la sua debolezza.

    La salita era ripida, tutto appariva magico e inquietante senza la luce della luna, in una sorta di fantasy horror dove si era persa senza tasti del telecomando che potessero riportarla nella quiete del suo salotto con i gatti che dormivano sul divano mentre la luce del camino disegnava ombre sul muro affollato di quadri.

    Qui non c’era proprio nessun quadro e nemmeno la pallida luce lunare, mentre Dylan accanto a lei ansimava riluttante tirando indietro il guinzaglio.

    Ma Anita non poteva cedere, non ora che aveva bisogno di spiegazioni e di aiuto. Nessun altro le credeva, tutti le avrebbero solo detto di starsene buona a casa ad aspettare che le cose si rimettessero a posto. In troppi la pensavano solo una privilegiata figlia di papà ed era il momento di dimostrare che si sbagliavano.

    Il piccolo borgo di Calascio le apparve dopo la curva, con le sue case che sembravano tenersi per mano incollandosi sulla montagna. Finalmente qualcosa di reale, la salita l’aveva stremata e iniziava a chiedersi se non stesse definitivamente perdendo lucidità.

    La normalità era da sempre qualcosa che la metteva in crisi, si sentiva così diversa dai suoi coetanei immersi in un mondo ibrido tra reale e social, dove finzione e verità andavano mischiandosi in modo indivisibile quanto un gelato panna variegato all’amarena.

    Il suo mondo era da sempre all’ombra del padre, quello studioso che viveva di scienza e che da sempre aveva sentito parlare solo di scavi e ritrovamenti. Chissà, forse la sua vita di ragazzina avrebbe potuto essere più spensierata, ma non le interessavano minimamente gli amici di foto quanto piuttosto la conoscenza del passato.

    Le ore per lei meglio spese erano quelle trascorse nel deposito nascosto in cantina a studiare le ossa di chi non c’era più ma che ancora raccontava di sé con un minuscolo bozzetto biancastro che sapeva di antiche fatiche ripetute in una vita infelice o laide carie luetiche che parlavano invece di una vita dissipata nel vizio.

    Ossa, tante ossa e spesso anche antichi corpi mummificati.

    La vecchia cantina aveva visto più cose di quanto fosse lecito. Non sempre, infatti, gli studi del padre brillavano per, diciamo così, linearità burocratica, ma ai suoi giovani occhi questo rendeva il tutto un gioco piratesco più che l’infrazione di ogni legge in materia di scavo archeologico.

    Anita adorava suo padre che, seppure con i suoi modi un po’ burberi, non le aveva mai fatto sentire la mancanza di quella mamma che era morta quando lei era così bambina da non poterla nemmeno quasi ricordare. L’infanzia era finita ancora prima di iniziare, ma lei non avrebbe potuto immaginarsi nulla di meglio che quegli anni passati tra cassette di ossa antiche e polvere.

    Ma ora niente più ossa, appunti e misurazioni.

    Il suo mondo tranquillo era stato stravolto dal momento in cui le era arrivata quella telefonata dall’Università, pochi giorni prima.

    Signorina, mi scusi, per caso suo padre è a casa? L’aspettavamo per una riunione, ma non è arrivato….

    Poche semplici parole dette con molta esitazione, e forse troppo imbarazzo, da parte di chi sapeva dei modi poco ortodossi del Professore e coltivava segretamente il timore che tanta disinvoltura gli avrebbe prima o poi procurato guai tremendi.

    Ma proprio nella loro semplicità quelle parole le avevano distrutto ogni serenità, calando sul suo quieto pomeriggio invernale una pennellata nera degna di quella Paint it black dei Rolling Stones, che tanto amavano sentire insieme a tutto volume mentre lavoravano nella cantina.

    E oltre all’angoscia aveva sentito salire anche la rabbia di essere Cassandra inascoltata. Aveva fin da subito avvertito un senso di disagio per l’ultimo studio che tanto entusiasmava invece il padre e forse per la prima volta in assoluto si erano trovati in disaccordo.

    No, quell’ultimo studio non le piaceva proprio e aveva prima chiesto e poi supplicato il padre di lasciar perdere.

    C’erano tanti altri ritrovamenti interessanti da fare sulle montagne, là dove due sassi possono indicare un antico cimitero coperto dall’erba, perché dedicarsi proprio a quello che sarebbe sembrato maledetto anche al più candido degli animi?

    La sua insistenza nel condannare fermamente l’avanzamento dello studio le era valso solo l’esserne allontanata e le sue giornate erano diventate improvvisamente vuote mentre il padre si chiudeva in studio a telefonare o la mandava a fare commissioni inutili per non essere disturbato dal suo sguardo di rimprovero.

    Aveva cercato pure di confidare i suoi timori a un collega del padre, un esperto di conservazione di reperti umani di cui suo papà pareva fidarsi molto. Ultimamente era quasi sempre a casa loro e, dopo molti ripensamenti, un pomeriggio lei lo aveva aspettato in garage vicino alla sua macchina e gli aveva parlato con estrema sincerità, supplicandolo di far desistere il padre dal suo progetto.

    Lui l’aveva ascoltata con interesse o forse più che altro con buona educazione e poi l’aveva esortata a non preoccuparsi perché sarebbe andato tutto bene, frase in genere foriera dell’esatto opposto.

    Anita aveva le idee chiare, ma cosa può valere la voce di una ragazzina, seppure di alto lignaggio, contro chi detiene il potere e di conseguenza il sapere? Il padre non aveva voluto sentire altre ragioni e, saputo dell’interferenza, le aveva proibito categoricamente di infastidire il collega con le sue fantasie.

    Forse non erano solo fantasie e di certo il padre avrebbe fatto meglio a darle retta, visto che ora era semplicemente scomparso nel nulla senza che nessuno fosse in grado di capire cosa potesse essere successo.

    Anita era bella, impavida quanto in quel momento spaventata, col suo ciuffo biondo che sventolava davanti agli occhi di un nocciola chiaro, spazzando le lacrime che cadevano silenziose.

    Perché trovarsi a Calascio a quell’ora seguendo quello che le comandava l’istinto? Forse stava davvero diventando pazza, come quelli che aveva visto in un filmato storico su Collegno, il tristemente famoso manicomio di Torino, povere creature che giravano in tondo senza una direzione. Si rasserenò. Non stava diventando pazza perché sapeva benissimo dove stava andando, il vento era reale così come reale era il ragionamento che l’aveva portata fin lì.

    Guardò nel buio, sentendo solo il fischio del vento. Ripensando ai fatti degli ultimi giorni provava sollievo per quel vento che la raggelava nonostante la pesante giacca imbottita e il caldo colbacco la facesse sembrare la Nikita cantata da Elton John, canzone che papà le aveva detto essere stata la preferita della sua mamma, quando c’era ancora. Rammentava poco di lei, se non che era sempre triste e spesso piangeva accarezzandole piano i capelli. Non era il momento di perdersi in ricordi e pensieri tristi o sarebbe impazzita davvero. Respirò, doveva concentrarsi su quello che stava facendo.

    Il vento gelido la chiamava all’azione. Presto sarebbe arrivata, era scesa dalla corriera troppo presto sbagliando fermata e le era toccato fare quel pezzo di strada a piedi, ma ora le case erano ormai vicinissime.

    Adesso doveva solo trovarlo, farsi ridare ciò che aveva preso e farsi dire quel che diceva di sapere. Al telefono era stato cortese, aveva detto che le avrebbe spiegato tutto quando si fossero visti e che l’aspettava per parlare con calma.

    Anita era stata contenta, forse la fiducia iniziale non era stata mal riposta, le era sempre parso disposto ad ascoltarla. Anzi, era stato l’unico a prenderla sul serio, detestava i troppi sguardi intrisi di compassione inconsistente e i bei discorsi che inneggiavano alla speranza.

    Era così persa nei suoi pensieri da notare solo all’ultimo momento la macchina posteggiata nella piazzola davanti al bar. Un modello a lei familiare, che riconobbe con stupore mentre la portiera si apriva piano, come per non richiamare l’attenzione della signora che stava aspettando impaziente che la corriera la riportasse in città. Dylan iniziò a ringhiare in un modo sordo che lei mai gli aveva sentito prima e lei se ne stupì perché in genere era socievole con tutti. Il vento di montagna, il ringhiare sommesso, le luci dei lampioni contro il buio e le case che sembravano accavallarsi fino a perdersi nel nulla. L’inquietudine saliva in Anita anche se non riusciva a spiegarsene la ragione.

    In quell’istante la corriera squarciò il buio con i suoi fari prepotenti e istintivamente ebbe l’impulso di salire parandosi davanti all’entrata, poi si impose di rimanere calma e lasciò passare la signora che sbuffò qualcosa sulla maleducazione dei giovani prima di sparire nel veicolo. Non c’è nulla di cui avere timore, si ripeté convinta Anita, sentendosi stupida per la paura che l’aveva quasi fatta fuggire.

    Si avvicinò a lui e lo salutò sorridendo e strattonando intanto bruscamente Dylan per farlo tacere. Ma quel volto in genere cortese ed amichevole aveva ora un’espressione così dura e risoluta da spaventarla. Istintivamente si voltò allora verso il bar, ma non ebbe il tempo di chiedere aiuto, il suo grido rimase soffocato dal terrore mentre sentiva quelle braccia forti che l’afferravano.

    Dylan scappò nel buio e si sentì davvero perduta.

    Il vento indifferente spirava gelido e il cielo da schermo scuro divenne tenebra quando il cofano della macchina si chiuse sopra di lei condannandola al nulla.

    TORINO, LUNEDÌ 13 DICEMBRE 2021. ORE 18:30

    Rosaria passava lo straccio con indolenza, incurante del fatto che il pavimento stesse assumendo un curioso aspetto zebrato con alternanza di ben più di cinquanta sfumature di grigio poco sensuali e molto sciatte. Non le interessava finire bene il suo lavoro, le interessava finirlo e basta. Gli studi medici dopo il suo passaggio apparivano generalmente ancora più tristi del consueto, pennellati da un misto di acredine e noia.

    Lasciata la stanza proseguì il suo giro non senza aver dato una rapida occhiata al cellulare, sbuffando perché mancava ancora un po’ all’ora dell’uscita. Si perse a scorrere i social con aria critica, come se da un suo like dipendesse l’avvenire dell’umanità.

    Sorpassò quasi con rabbia i post che parlavano della pandemia, quale che fosse l’argomento trattato. Non ne poteva più, come del resto l’intera popolazione mondiale, ma ormai era diventata una questione privata tra lei e il virus di cui era certa di conoscere origine, evoluzione e destino. I suoi strampalati vaticini, declamati con più carisma di una santa medioevale sul letto di morte, le avevano fatto guadagnare credibilità scientifica presso mezzo quartiere e ora perfino la signora Parelli del secondo piano le chiedeva se le uova sode con le bacche di goji potessero far bene al cognato che dopo l’infezione del famigerato virus non riusciva a distinguere il sapore della bagna cauda da quello del bonet.

    In lei arroganza e presunzione andavano a braccetto con una perniciosa ignoranza che non intendeva in nessun modo colmare, con la ferma convinzione che ciò non conosceva non fosse degno delle sue competenze.

    Eppure quella sera si sentiva stranamente inquieta, come se qualcosa stesse sfuggendo al suo ferreo controllo.

    Il corridoio era silenzioso come sempre a quell’ora in quel piccolo universo parallelo che era l’Istituto di Anatomia Patologica di Torino, dove le malattie venivano ridotte in microscopiche immagini colorate fin attraenti nel loro orrore.

    Rosaria si voltava ripetutamente con un nervosismo che non le era solito, sentendosi irrazionalmente osservata dal nulla.

    Si accanì con una ciocca di capelli che senza motivo la infastidiva, senza pensare al costo esorbitante di quella pettinatura che le conferiva un’aria da diva nei selfie con cui tempestava i social. Poi passò a mordicchiarsi nervosamente un’unghia, incurante sia delle più elementari norme d’igiene sia del rispetto per l’artistico nail art che incideva notevolmente sul suo budget.

    Il nervosismo non le dava tregua mentre i minuti sembravano non passare mai e il silenzio riempiva le stanze. La sua figura snella lasciava ombre allungate e distorte sui muri del corridoio. Ne ebbe inconsciamente paura e riaccese tutte le luci non bastandole quelle notturne. Non riusciva a capire la causa di quella tensione da tragedia imminente, in fondo era totalmente sola e circondata da quel silenzio ovattato, ma una sorta di istinto primitivo continuava a metterla in guardia.

    In molti temevano quell’Istituto, vuoi perché incontrastato regno dei morti vuoi perché aleggiavano fin troppe leggende nere alimentate dai lunghi corridoi dove i passi ridestavano mille insidiosi echi. Rosaria invece non lo aveva mai temuto perché la sua arroganza aveva sempre trovato risibili quei timori.

    Mai, almeno prima di quella sera.

    Scese al primo piano senza un motivo preciso, probabilmente solo per lasciare il secondo dove avvertiva quel disagio nebuloso che le toglieva sicurezza.

    Tentativo inutile, perché la porta apparentemente bianca ed innocente della sala settoria le riportò alla mente i fatti tragici che erano avvenuti tra quelle mura, quando la mano di un folle aveva seminato l’incubo di essere tagliati a pezzetti, senza la minima ombra di quella poesia che aveva ispirato il grande Fabrizio De André nel cantare qualcosa di simile.

    Nessuno voleva parlare di quei fatti, del resto il caso era chiuso.

    O quasi. Già, solo quasi, perché in molti non erano rimasti del tutto convinti dai risvolti comunque abbastanza inverosimili e si erano costruiti una propria versione della storia, certi che il Commissario Aurelio Baldanzi avesse celato al grande pubblico particolari oscuri e non divulgabili.

    Guglielmo Paonetti che lavorava al magazzino aveva un amico con un cugino hacker che giurava di aver letto sul web una relazione segretissima su inquietanti risvolti paranormali della vicenda, che era sempre generosamente disposto a divulgare ad una platea femminile almeno maggiorenne pronta ad affrontare il peso della conoscenza a cena da lui. Forse la parentela delle amicizie del Paonetti non brillava per serietà giornalistica né per moralità, ma certo era che il suo caso non era isolato e a distanza di anni lo spirito del Barone di Rocca D’Arazzo aleggiava ancora inquietantemente nei corridoi, fosse anche per poter parlare di qualcosa di diverso da degli indici di contagio.

    Ma nemmeno questo l’aveva mai particolarmente preoccupata fino a quella sera in cui si trovava a girare per corridoi e studi cacciando svogliatamente lo straccio sul pavimento e accertandosi in continuazione di essere davvero sola.

    Il primo piano non le diede serenità così come il caffè non riuscì a sollevarla dai suoi timori illogici. Fece per scegliere una merendina dal distributore, più per distrarsi che per fame e poi guardò l’ora.

    Si riscosse. Era tardi, avrebbe dovuto essere fuori da almeno dieci minuti. Si era persa nel timore di fantasmi inesistenti, fuori di lì certo si sarebbe sentita subito meglio. Tornò al secondo piano per riprendere il carrello con le scope, già con l’animo alla bollatrice per l’agognato bip che le avrebbe regalato la libertà e pensò sollevata a cosa prepararsi per cena e a quale serie televisiva guardare.

    Disperata voglia di normalità.

    Vide con la coda dell’occhio che la porta dello studio del Professore Anziano era socchiusa e che all’interno la luce era accesa.

    Nulla di strano, si sapeva che era solito fermarsi fino a tardi. tentò di dire Rosaria a se stessa proponendosi fermamente di fregarsene e di andare all’ascensore, ma qualcosa di simile alla coscienza la fermò.

    Strano, invece, eccome se era strano.

    In primo luogo il Professore Anziano era solito chiudersi ermeticamente nello studio e quello spiraglio luminoso era insolito quanto inquietante.

    Ma la stranezza era proprio che fosse lì a prescindere dall’orario dato che da giorni era più a casa che al lavoro, dopo aver accennato con toni vaghi ad una gastroenterite particolarmente antipatica che lo stava infastidendo. Della descrizione accurata dei sintomi tutti ne avevano fatto volentieri a meno, data la ben nota simpatia che nutrivano nei suoi confronti quando scoppiava di salute, figurarsi se era piegato dai crampi addominali.

    Era troppo orgoglioso per farsi visitare, non voleva diventare un caso clinico da discutere. Meglio soffrire nel silenzio del suo studio.

    Solo era e solo rimaneva, nel completo disinteresse generale.

    Molti temevano poi che la causa fosse da ricercarsi nel solito odioso virus per cui facevano giri improponibili attorno all’Istituto se lo vedevano per caso sul viale o si bloccavano di colpo ad ammirare la vetrinetta dedicata agli antichi fasti universitari che si trovava in corridoio pur di non incrociarlo.

    Eppure fino a qualche giorno prima godeva di ottima salute, Rosaria si ricordava benissimo di averlo visto da vicino mentre lui andava via molto presto, un pomeriggio della settimana precedente. Molto presto, anzi prestissimo per i suoi orari consueti.

    Fisicamente stava evidentemente bene, ma le era comunque apparso quasi sconvolto mentre usciva dall’Istituto. Lei stava tornando dalla mensa insieme ad un tale che le aveva offerto una sigaretta, accettata più che altro per poter stare senza mascherina. Erano davanti alla chiesa, nel vialetto fuori dall’Istituto e non aveva potuto fare a meno di notare il Professore Anziano che correva, sì correva quasi, in preda ad una stranissima agitazione.

    Parlava al cellulare ad alta voce e gesticolava, lui sempre così gelido e compassato. Cosa aveva detto? Qualcosa su un incidente, su un qualcosa di importante che si era distrutto e andava sostituito, questo lo aveva capito bene. Sembrava un fatto molto grave, assolutamente giustificate quindi sia l’agitazione sia l’uscita anticipata.

    Qualche giorno dopo aveva iniziato a dire che non stava bene, rendendo le sue apparizioni in Istituto sempre più fugaci.

    La sua presenza nello studio a quell’ora era davvero strana.

    Rosaria cercò di dirsi che probabilmente aveva solo del lavoro da finire, cercando di superare con indifferenza lo studio

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