Coriandoli di memoria
By Rita Caruso
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Coriandoli di memoria - Rita Caruso
PROLOGO: IL MIO RETRO-DIARIO
Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: «Non c’è nulla da vedere», sapeva che non era vero […] Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio.¹
Ed io ho ripreso il mio viaggio, un retro viaggio per ri-prendere
nuovi cammini.
Così, senza neppure accorgermi del filo dei miei pensieri, mi sono trovata a riempire le mie giornate di riflessioni sul tempo andato, sugli anni della mia infanzia e della mia adolescenza, ripensando ai mutamenti che lungo il percorso della mia vita hanno interessato la nostra società.
E dunque, mi sono chiesta: «Chi sono io, davvero?».
Certo, so di essere nata nel 1947. Sono quell’anziana signora che mi guarda dallo specchio, orgogliosa dei capelli candidi e dell’età che dichiara con entusiasmo. Sono sempre io quella che ha imparato a stare al passo con i tempi attuali, che sa destreggiarsi tra computer e smartphone e muoversi su internet nei vari uffici con Spid e password.
Ma come sono diventata tutto questo, io, nata nel 1947?
In fondo in fondo sono anch’io figlia della guerra. Anche se la guerra alla mia nascita era finita da qualche anno, mia madre la raccontava ancora.
Nei suoi ricordi di quegli anni uno era ricorrente e la vedeva giovane di appena diciotto anni, incinta di mia sorella, beccata a raccogliere fichi in un campo vicino al casolare in cui avevano trovato rifugio lei e le sue due cognate.
Il proprietario del campo, comparso all’improvviso, le aveva puntato contro un fucile e mia madre, lasciando cadere i fichi dal grembiule in cui li aveva nascosti, mise in evidenza la sua pancia. Il contadino le corse incontro, le raccolse i fichi da terra e dicendole «Figliuzza mia, perdonami, prendi tutto quello che vuoi», le regalò tutta la frutta matura degli alberi del suo campo. Mia sorella nacque nel febbraio del ’44, con la guerra ancora in corso.
Dunque, per me ragazzina spensierata, nata nel 1947, la guerra diventava una bella storia narrata da mia madre.
Persino la bella Costituzione Italiana alla mia nascita non era ancora entrata in vigore e le esperienze della mia vita bambina, fanciulla e poi giovane donna erano quelle che consentivano le condizioni del tempo di dopoguerra. Se poi, come me, si nasceva in una cittadina di provincia del sud, da una famiglia operaia di modeste condizioni economiche, la vita che ne sarebbe derivata non avrebbe potuto essere diversa dalla mia, ovvero piena di sogni da inseguire e realizzare con grinta e determinazione, ma soprattutto senza dare nulla per scontato.
Ho riflettuto con particolare intensità su alcuni aspetti della mia vita passata scoprendo che la mia ordinaria quotidianità dell’infanzia e dell’adolescenza era comunque straordinaria per ricchezza di personaggi, emozioni, esperienze.
Oggi i luoghi e i personaggi che mi hanno visto bambina appaiono favolistici ma sono proprio quei luoghi e quei personaggi, che mi hanno accompagnato giorno dopo giorno, ad avermi aiutato a diventare quella che volevo essere.
Mi sono rammaricata di non aver mai tenuto un diario personale che oggi avrei potuto sfogliare per trovare conforto e forza nella memoria delle tante esperienze dei miei anni andati, ma poi mi sono accorta di non aver bisogno di un diario con le sue pagine scritte perché in effetti mi sono affiorati nella memoria ricordi del lontano passato, fotogramma per fotogramma, come se componessero un filmato al rallentatore.
E allora mi sono scoperta a scrivere un retro-diario
in cui hanno trovato spazio tanti ricordi. La mia vita ordinaria si è colorata di emozioni, di affetti, di esperienze, di incontri e mettere nero su bianco, senza un preciso ordine cronologico, alcuni episodi che hanno costituito passaggi significativi del mio vissuto ha dato senso a tante domande e mi ha aiutato a rispondere a quella domanda iniziale. Chi sono io davvero?
Nei quadri
della mia memoria ho ritrovato personaggi, luoghi e situazioni che mi hanno proiettato nel mio presente con un senso di stupore e, quasi, di incredulità…
Gli scherzi della memoria mi hanno gettato incontro quasi mio malgrado tanti episodi che il mio quotidiano attuale, tutto ciò che oggi mi circonda, il comfort della mia casa, gli oggetti tecnologici da cui sono servita
mi hanno fatto apparire antichi come fossero stati vissuti da un’altra persona, in un tempo così arcaico che non può riguardare proprio me.
Tutte questa strane sensazioni hanno accompagnato i miei giorni del tempo presente e mi hanno fatto nascere il desiderio, anzi l’urgenza, di scrivere e descrivere con le parole i quadri della mia vita.
E questo è il mio retro-diario, che mi piace condividere con voi, con lo sguardo al passato proiettato verso il futuro.
Il modo migliore per fare i conti con me stessa e ri-prendere
nuovi cammini.
¹ José Saramago, Viaggio in Portogallo.
CAPITOLO I
LUOGHI E PERSONAGGI
I luoghi della mia infanzia e della mia adolescenza avrebbero potuto essere descritti, con molta più maestria di quanto possa fare io, da narratori di favole e miti.
Ambienti fantastici, popolati da personaggi reali che sembravano aver rubato stranezze e originalità a folletti immaginari.
Oggi quei luoghi non esistono più; la modernità li ha omologati e resi banali ma nella mia memoria il loro fascino è più vivo che mai.
La casa dei primi ricordi
Era una casa molto carina,
senza soffitto, senza cucina.
Non si poteva entrarci dentro,
perché non c’era il pavimento…²
Ricordo ancora la casetta in cui sono nata nel 1947 e in cui ho vissuto i miei primi anni di vita.
Quella piccola casa era fuori città, non proprio in campagna ma in una zona non ancora urbanizzata.
Intorno c’erano campi per lo più incolti, stradine deserte e polverose con qualche bel giardino e fiori profumati, curati da chissà chi.
Era una casetta monofamiliare, circondata da tante altre abitazioni con le stesse caratteristiche costruttive, tutte a un solo piano, con pochi gradini che portavano su un pianerottolo su cui si apriva la porta di accesso. Una sola era diversa, più grande e con un secondo piano mansardato.
Oggi quelle casette sono state in gran parte demolite. Al loro posto, moderna via Gluck di una qualunque cittadina del sud, sono sorti condomini di grandi palazzi e le sole due che hanno resistito all’assalto del cemento sembrano lasciate lì quasi a testimonianza di un passato troppo lontano, che però non si vuole cancellare del tutto.
Era un quartiere abitato per lo più da operai e artigiani, di modeste condizioni economiche che però formavano una comunità affiatata e solidale. L’unica casa grande era abitata dalla sola famiglia abbiente di tutto il comprensorio, la famiglia Gargiulo, titolare di una pasticceria che era, allora come oggi, tra le più rinomate della città.
In un’altra abitazione viveva un’attempata signorina, la signorina Battaglia, che aveva messo su una sorta di scuola dell’infanzia che raccoglieva i bambini più grandicelli che si sarebbero poi dovuti iscrivere alla scuola elementare e che frequentò anche mia sorella, di tre anni maggiore di me.
Quelle casette erano popolate da ragazzini di ogni età che giocavano perennemente all’aperto, al sicuro da qualsiasi pericolo anche senza il controllo dei genitori, nei prati e giardini che si stendevano tra una casetta e l’altra.
Dei primissimi anni della mia infanzia trascorsi in quella casa, così lontani nel tempo, conservo ricordi precisi, alcuni diretti, altri solo rievocati da mia madre. Infatti, noi due abbiamo ricordato quella casa, i giochi con cui ci divertivamo, il tempo delle mie prime esperienze così tante volte che ricostruire alcuni episodi vissuti da me bambina di soli tre, quattro anni è stato immediato, come leggere degli appunti scritti sul palmo delle mie mani rugose.
Nei racconti di mia madre appariva evidente il rapporto straordinario che io avevo con mio padre, burbero e taciturno, che però da me accettava coccole e affetto. Una storia ricorrente mi vedeva, ancora molto piccola, aspettare con ansia il suo rientro dal lavoro, corrergli incontro e porgergli le pantofole, farmi prendere in braccio e baciarlo.
Un altro racconto di me bambina, quasi una bella e buffa favola, era quella che mi ritraeva incantata a osservare papà che si radeva la folta barba scura con un rasoio dalla lunga lama, pennello e tanta schiuma. Ero affascinata da quella scena e mio padre, mettendomi un po’ di schiuma sulla punta del naso, mi prendeva in giro perché non avevo ancora la barba
. Ed io allora, aspettando che la barba mi crescesse, nascondevo i pennelli vecchi in un posto segreto, custodendoli gelosamente.
Amavo mio padre e non avrei smesso mai di amarlo anche quando, crescendo, la sua presenza in casa non sarebbe stata più così serena e rassicurante.
Il rapporto con mia madre invece è stato sempre aperto e fiducioso; lei, così giovane e inesperta, per me era una roccia.
I ricordi più chiari mi vedono giocare con le bambole