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Professionisti della disinformazione: Le bufale più clamorose dei mass media
Professionisti della disinformazione: Le bufale più clamorose dei mass media
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Professionisti della disinformazione: Le bufale più clamorose dei mass media

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«Enrica Perucchietti ha fatto un lavoro straordinario, meticoloso e chirurgico: un affondo definitivo e giustamente spietato nei confronti di coloro che hanno avuto la faccia tosta di autodefinirsi “professionisti dell’informazione” ma che in realtà – alla prova dei fatti – si sono rivelati nient’altro che dei perfetti ciarlatani». Dalla prefazione di Matteo GracisI media mainstream – come testimonia l'informazione sulla pandemia e sul conflitto russo-ucraino – hanno perso la loro credibilità: non hanno più l'indipendenza né l'onestà intellettuale necessaria per offrire un'informazione oggettiva. Sono diventati il megafono delle istituzioni e la cassa di risonanza della propaganda del Sistema. I padroni delle idee sfruttano la disinformazione, l'ingegneria sociale e la propaganda per plasmare e controllare l'opinione pubblica. La battaglia contro le fake news è diventata inoltre un grimaldello per scardinare la libertà di informazione ed espressione, oscurando il confronto che dovrebbe essere basilare in democrazia. Il pensiero critico viene perseguitato e censurato tramite una moderna forma di Inquisizione digitale, con un nutrito apparato di debunkers e fact-checkers. Il Potere vuole creare una "informazione certificata", in modo che il giornalismo diventi dogmatico e che l'atteggiamento dei cittadini sia di totale accondiscendenza nei confronti delle notizie col "bollino": il dubbio non è consentito potrebbe contagiare gli altri cittadini e portare a un risveglio collettivo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 19, 2022
ISBN9791221435993
Professionisti della disinformazione: Le bufale più clamorose dei mass media

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    Professionisti della disinformazione - Enrica Perucchietti

    Capitolo 1

    LA PROPAGANDA

    COME "INGEGNERIA

    DEL CONSENSO"

    Dalla Commissione Creel

    a Colin Powell

    L’espressione fake news è entrata a pieno titolo nel lessico giornalistico nel 2016, grazie alla ricercatrice Sarah Churchwell, sebbene, come ricorda Francesco Santoianni, fosse stata già usata quasi un secolo prima, dal presidente Woodrow Wilson, allora contrario all’entrata degli usa nella Prima guerra mondiale, per ridicolizzare le voci di atrocità commesse dall’esercito tedesco.¹

    Nel suo discorso alla nazione del 19 agosto 1914, Wilson aveva addirittura raccomandato a ogni singolo cittadino di non manifestare pubblicamente alcuna preferenza politica per nessuno degli schieramenti.² Nel 1917, però, la versione della Casa Bianca si ribaltò, sfruttando come un casus belli l’affondamento del Lusitania e il rieletto Wilson fece un discorso alla nazione per giustificare l’entrata in guerra che solo due anni prima aveva esorcizzato con forza, parlando proprio di fake news.

    Quella virata improvvisa era stata giustificata da una false flag, l’affondamento del transatlantico britannico Lusitania ma anche dalla creazione di un intero comitato per influenzare i media e plasmare l’opinione popolare.

    Il caso Lusitania

    «Cosa farebbero gli americani se i tedeschi affondassero una nave da crociera con a bordo passeggeri americani?», aveva domandato con un sorriso beffardo il ministro degli esteri britannico Sir Edward Grey al principale consigliere del presidente Wilson, il colonnello Edward Mandell House qualche tempo prima del tragico incidente.³ Questi si era limitato a ribattere che «un’ondata di indignazione travolgerebbe gli Stati Uniti e questo sarebbe di per sé sufficiente a farci entrare in guerra».⁴ House aveva capito benissimo che cosa gli stesse suggerendo il ministro britannico. Era possibile inscenare un falso attentato in modo da traumatizzare l’opinione pubblica e rendere necessario l’intervento a sostegno degli alleati in Europa. Maggiore sarebbe stato il numero delle vittime statunitensi, maggiore sarebbe stata l’ondata di indignazione della nazione.

    I propositi di Grey si avverarono con l’esplosione della nave da crociera Lusitania.

    All’inizio della Prima guerra mondiale, proprio per evitare che le navi da crociera dotate di supporti bellici partecipassero alle operazioni in funzione ausiliaria o rifornissero la Madre Patria di materie prime, la Germania aveva disposto un blocco navale intorno alle coste dell’Inghilterra.

    Non volendo intraprendere una guerra contro gli Stati Uniti, il 22 aprile 1915 l’ambasciata tedesca, con il consenso del capo del servizio segreto tedesco, Franz von Papen, si era premunita di pubblicare a proprie spese un avviso sul «New York Times» in cui si ammonivano i civili americani a non imbarcarsi sul transatlantico britannico Lusitania.

    L’annuncio non ebbe l’esito sperato perché il 7 maggio 1915 la nave da crociera venne volutamente spinta nella zona dove era dislocata la flotta militare tedesca e come previsto venne silurata e affondata da un sommergibile tedesco U-20. Lo scoppio del siluro si limitò a far sbandare la nave. Pochi minuti dopo l’impatto, però, ci fu una seconda esplosione, dovuta alla presenza del carico di munizioni e altro materiale bellico che era a bordo, stivato dietro la paratia che dava sulla sala caldaie. Il comandante tedesco Schwieger si accorse solo dopo l’attacco di aver colpito il Lusitania che non avrebbe dovuto trovarsi, come da accordi, nelle acque tedesche.

    Il Lusitania affondò completamente appena 18 minuti dopo il siluramento; delle sue 48 scialuppe soltanto 6 raggiunsero Queenstown portando a termine la loro opera di salvataggio. I morti furono 1201, di cui 123 statunitensi e 3 tedeschi che si erano imbarcati per ordine dell’allora addetto all’ambasciata tedesca negli Stati Uniti, Franz Joseph von Papen, per cercare e fotografare il materiale bellico a bordo.

    La notizia del disastro giunse a Londra la sera stessa durante un pranzo di gala all’ambasciata americana, dove il colonnello Edward Mandell House colse al volo l’opportunità – già anticipata da Sir Grey – per caldeggiare l’entrata in guerra degli Stati Uniti entro la fine di maggio.

    Era tutto pronto e Washington aveva il suo casus belli da proporre all’opinione pubblica per poter entrare in guerra. Ma questo non bastava perché la nazione era ancora riluttante.

    Wilson, dopotutto, nel 1916 aveva ottenuto il suo secondo mandato con la promessa di mantenere la neutralità.⁶ Per convincere gli americani che era necessario entrare in guerra, il Presidente creò il Committee on Public Information (cpi), per concentrarsi sulla promozione dello sforzo bellico.⁷

    Un comitato per convincere

    gli usa a entrare in guerra

    Per dirigere il comitato, Wilson nominò un brillante uomo di pubbliche relazioni politiche, George Creel. Carismatico e instancabile, Creel pensava in grande e fuori dagli schemi. Non gli piaceva la parola propaganda, che associava alla lunga campagna di disinformazione della Germania. Per lui, l’attività del cpi era più simile alla pubblicità.

    Veterano delle due campagne presidenziali di successo di Wilson, Creel sapeva come organizzare un esercito di volontari, reclutando uomini e donne al suo servizio. L’ufficio di Washington era in parte un ufficio di comunicazione del governo e in parte un conglomerato dei media, con divisioni per notizie, pubblicità, film e altro ancora, volto a condizionare il consenso. L’obiettivo era semplice: inondare il Paese di comunicati stampa di carattere patriottico (e di demonizzazione dei soldati tedeschi) camuffati da notiziari, in modo da alimentare il disprezzo sociale verso il nemico, galvanizzare l’opinione pubblica e trasmettere al popolo americano la volontà di vincere.

    Eppure, dopo due mesi dalla sua istituzione, Creel e Wilson si resero conto che l’entusiasmo popolare per la guerra non era neanche lontanamente vicino al risultato sperato. Il popolo americano rimaneva isolazionista e recalcitrante all’idea dell’ennesima belligeranza.

    Si dovette pertanto attingere a tutte le tecniche di condizionamento mentale per piegare la volontà del popolo americano.

    La News Division, addetta alla gestione delle informazioni, diffondeva con frequenza martellante le menzogne più atroci riguardanti i militari tedeschi, che venivano accusati di deliranti efferatezze e raffigurati, per esempio, come torturatori di bambini.⁸ Strumentalizzando la tecnica della semplificazione e della paura, la narrazione mediatica si fece via via sempre più feroce nel riferire i dettagli delle violenze del nemico. Più questi dettagli riguardavano gli innocenti (come i bambini, appunto), più ottenevano una reazione di sdegno, odio e paura nelle masse.

    Il reparto noto come Film Division, che faceva capo a Hollywood, iniziò invece la distribuzione di pellicole antigermaniche (Gli artigli dell’unno, Il Kaiser la belva di Berlino, All’inferno con il Kaiser, Il delinquente prussiano,⁹ ecc.) volte a plasmare l’immaginario delle masse e a inculcare l’isteria collettiva, sfruttando invece la tecnica dell’empatia e la forza delle immagini.

    Nel giro di pochissimo tempo la portentosa macchina di propaganda governativa produsse e diffuse milioni di poster – tra cui quello realizzato da James Montgomery Flagg dello Zio Sam che con l’indice puntato e lo slogan I want you for us Army si rivolge direttamente ai cittadini¹⁰ – e migliaia di volantini.

    Il 2 aprile 1917 Wilson tenne un discorso al Congresso per motivare le sue ragioni per l’entrata in guerra:

    «Eccoci sul punto di impegnare la lotta contro il nemico naturale della libertà. Impiegheremo, per annientare le sue mire, le forze dell’intera nazione. È necessario garantire la sicurezza della democrazia del mondo. La pace deve riposare sulle salde fondamenta delle libertà politiche. Non abbiamo nessuna mira egoistica; non desideriamo nessuna conquista, nessuna indennità per noi stessi, nessun compenso materiale. Saremo soddisfatti quando i diritti dell’umanità saranno garantiti, precisamente perché senza odio aiuteremo scrupolosamente una guerra onesta e leale».¹¹

    Il 14 giugno 1917, Wilson rincarò la dose e approfittò dell’occasione del Flag Day per puntare gli occhi del Paese su un obiettivo preciso: la distruzione del governo della Germania, che era incline al dominio del mondo.

    Nel loro sforzo di coalizzare il Paese per convincere il popolo americano a un coinvolgimento diretto nella Prima guerra mondiale, Wilson e Creel hanno diffuso quelle fake news che il Presidente americano aveva deplorato pochi anni prima. Bollettini incompleti, di parte, falsati, notizie che dipingevano il nemico come un subumano, parodiandone le caratteristiche in modo da aizzare l’odio dei cittadini e sfruttare il patriottismo come scusa per avallare la guerra e la violenza.

    Sebbene Creel non amasse il termine, è chiaro che il lavoro del suo Comitato rientrasse a pieno titolo nella propaganda. Quella stessa propaganda bellica che oggi viene utilizzata in democrazia per plasmare l’opinione pubblica ed eterodirigere il consenso e che, come vedremo nei prossimi capitoli, viene anche sfruttata dai professionisti della disinformazione per sottostare a linee editoriali, vendere quotidiani o spazi pubblicitari, ma di fatto per manipolare e controllare le masse.

    Durante i 20 mesi del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra, il cpi ha emesso quasi tutti gli annunci del governo e ha inviato 6.000 comunicati stampa scritti nel tono semplice e sobrio degli articoli di giornale.

    Alle spalle di questa efficientissima macchina per la propaganda c’è anche il nipote di Freud, Edward Bernays, fondatore, insieme al pubblicista e pubblicitario statunitense Ivy Lee, della scienza delle Pubbliche Relazioni.

    Edward Bernays

    Il ricorso alla propaganda bellica anche in democrazia per modellare e orientare il consenso è ben noto, semmai è sconosciuto alle masse che mantengono l’ingenua illusione che in democrazia non esista manipolazione e che questa semmai venga utilizzata solo sotto i regimi. La propaganda, invece, serve a condizionare i cittadini, a piegare le resistenze e a giustificare, per esempio, agli occhi dell’opinione pubblica una nuova spirale di violenza o, più in generale, misure impopolari. Le masse destabilizzate dal terrore di una minaccia globale iniziano a diffidare di tutto ciò che le circonda e che non si livella sul consenso comune; le persone si trasformano così in solerti controllori e accettano misure che normalmente non avrebbero tollerato (ne abbiamo avuto conferma negli ultimi due anni…).

    E non importa nemmeno se mutano le alleanze, le strategie di propaganda e le tecniche di manipolazione mediatica rimangono invariate.

    L’illusione romantica che ci è stata trasmessa è, come anticipato, che la propaganda esista soltanto nei regimi, quando, invece, anche le democrazie occidentali fanno ricorso alla manipolazione capillare dell’opinione pubblica. Nella società democratica, cioè, le opinioni, le abitudini e le scelte delle masse vengono indirizzate, come spiegava nel 1928 proprio Edward Bernays, da un «potere invisibile che dirige veramente il Paese».¹² Secondo Bernays, la propaganda è fondamentale per dare forma al caos. Le tecniche usate dal potere per plasmare l’opinione pubblica sono state inventate e sviluppate negli anni, spiegava Bernays, «via via che la società diventava più complessa e l’esigenza di un governo invisibile si rivelava sempre più necessaria».¹³

    Bernays elaborò molte delle sue tecniche partendo proprio dallo studio dei lavori di Freud mettendole però al servizio della grande industria, della pubblicità e della nascente arte delle Pubbliche Relazioni. Andò oltre al lavoro del suo predecessore, Ivy Lee, che si può considerare il primo spin doctor della storia: uno dei suoi incarichi più importanti fu la collaborazione con il magnate John D. Rockefeller quando, nel 19¹⁴, Poison Ivy si impegnò a farlo scagionare dall’accusa di pluriomicidio.

    L’intuizione vincente di Bernays fu, spiega l’avv. Francesco Carraro, che

    «si poteva agire sulla porzione abissale della mente umana per prenderne al laccio i desideri inconsci, quelli più tenaci nell’indirizzare il contegno, le voglie e, in definitiva, anche le scelte apparentemente razionali dell’uomo e della donna moderni».14

    Affidandosi pertanto alla potenza delle emozioni, Bernays elaborò una metodologia per plasmare l’immaginario collettivo ed eterodirigerlo non solo verso scelte commerciali e pubblicitarie, ma anche politiche. Si trattava in definitiva di ingegneria del consenso, in quanto il nipote di Freud aveva compreso che la manipolazione poteva essere ingegnerizzata, «cioè analiticamente studiata e soprattutto scrupolosamente applicata secondo protocolli razionali e scientifici così da amplificare al massimo grado la sua efficacia».¹⁵

    Le tecniche manipolative che insegnava Bernays furono infatti impiegate dai più famosi dittatori della storia recente (Mussolini, Hitler e Stalin):¹⁶ in particolare Goebbels fu un grande ammiratore del lavoro di Bernays, come ebbe modo di raccontare nel settembre del 1933 al corrispondente statunitense dei quotidiani del gruppo Hearst e analista della politica europea, Karl von Wiegand.¹⁷ Goebbels confidò a Wiegand che «stava utilizzando il suo libro del 1932 Crystallizing Public Opinion come base per la sua campagna deliberata e pianificata di distruzione degli ebrei in Germania».¹⁸

    Come spiegato dallo stesso Bernays, queste tecniche vengono utilizzate ancora oggi anche e soprattutto in democrazia per mistificare la realtà e dare forma al caos.

    Abbiamo visto che quella che viene definita la più grande democrazia al mondo ha mentito all’opinione pubblica per ottenere il consenso per partecipare alla Prima guerra mondiale; questo caso di ricorso alla propaganda bellica non è stato isolato e un altro esempio più recente è stata la disinformazione per legittimare la guerra contro l’Iraq.

    Colin Powell, il padre delle moderne fake news

    Nell’ottobre 2021 la notizia della morte di Colin Powell ha fatto il giro del mondo. L’ex Segretario di Stato americano ai tempi della presidenza di George Bush Junior, dal 2001 al 2005, si è spento per complicazioni legate alla Covid, nonostante fosse vaccinato.¹⁹

    I media non hanno potuto non ricordare che Powell ha segnato la storia recente con una delle menzogne più celebri e drammatiche che valse anche come pretesto per spingere la Casa Bianca a lanciare la guerra globale al Terrore. I mezzi di informazione hanno ricordato la figura dell’ex Segretario di Stato cercando di minimizzare la macchia più tragica della sua carriera, come egli stesso la definì nel 2005.

    Primo afroamericano nella storia degli Stati Uniti a ricoprire il ruolo di capo di Stato maggiore delle forze armate statunitensi e quello di capo della diplomazia americana, Powell è infatti passato alla storia per una delle messinscene (e conseguente fake news) più tragiche della storia recente, che ha innescato una spirale di violenza, guerra e morti.

    Ci riferiamo al celebre discorso al Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite, che Powell tenne il 5 febbraio 2003, quando parlò delle armi batteriologiche in possesso dell’Iraq, mostrando ai rappresentanti degli altri Paesi, con un gesto teatrale, una fiala che conteneva una polvere bianca.²⁰

    Agitando la fiala, Powell accusò l’Iraq di essere in grado di produrre circa 25 mila litri di antrace, secondo quanto dicevano gli ispettori delle Nazioni Unite. Nel suo discorso Powell fece anche riferimento al «grosso faldone dei servizi segreti sulle armi biologiche dell’Iraq» e di laboratori mobili per la produzione di quelle armi, di testimonianze che accreditavano quanto riportato, mentre alle sue spalle il direttore della cia George Tenet seguiva le sue parole con espressione seria e coinvolta.²¹

    Il ricordo delle lettere all’antrace, diffuse all’indomani dell’11 settembre era ancora vivo nell’opinione pubblica e l’immagine di quella fiala ancorò l’idea, poi dimostratasi falsa, di una minaccia estrema e globale che proveniva da Saddam Hussein.

    Amerithrax: gli attacchi all’antrace del 2001

    Per diversi mesi, a partire dal 18 settembre 2001, si diffuse il panico per la diffusione di missive contenenti antrace. Una serie di pacchi con spore di carbonchio venne inviata a uffici giornalistici e a due senatori del Partito Democratico (Tom Daschle e Patrick Leahy), causando la morte di 5 persone e l’avvelenamento di altre 17.

    Il clima di terrore e di esasperazione in seguito agli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono portarono a elaborare la tesi ufficiale che le missive velenose rientrassero nella seconda parte dell’attacco dell’11 settembre.

    I misteri e le coincidenze su questo caso sono però molti, come ha evidenziato Giulietto Chiesa. La prima vittima fu il foto editor Robert Stevens. Stevens lavorava per il Sun, il tabloid il cui direttore era Mike Irish. La moglie di costui, Gloria Irish, aveva affittato due appartamenti a due dei 19 presunti dirottatori dell’11/9: Marwan al-Shehhi e Hamza al-Ghamdi.²²

    I due senatori democratici che ricevettero le lettere mortali, Daschle e Leahy erano invece i due uomini chiave per far passare in Senato il famoso usa Patriot Act che dopo l’attentato venne approvato «con l’intero edificio del Senato evacuato, senza che i senatori nemmeno potessero leggere la fine della Costituzione americana che stavano firmando».²³

    La responsabilità dell’invio della posta avvelenata fu inizialmente attribuita ad al Qaeda. Il Segretario di Stato americano Colin Powell strumentalizzò tale minaccia per convincere il mondo della necessità di attaccare l’Iraq, in quanto Saddam Hussein avrebbe avuto i magazzini pieni di antrace.

    Si scoprì però successivamente che le spore usate negli attacchi appartenevano a un ceppo particolarmente potente, denominato Ames, usato in almeno una dozzina di laboratori di ricerca degli Stati Uniti per testare i vaccini e le nuove cure per la malattia:

    «Migliaia di ricercatori avevano avuto a che fare con il tipo Ames, ma distinguere l’uno dall’altro i vari stock usati nei laboratori era molto difficile, perché discendevano tutti dai batteri isolati in una mucca morta a Sarita, Texas, nel 1981».²⁴

    Il 4 aprile 2005, dai documenti della fbi, emerse come indiziato principale il nome di Bruce Edwards Ivins, un microbiologo di sessantadue anni che lavorava come operatore di laboratorio presso l’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti proprio a Fort Detrick.²⁵

    Sebbene non avesse confessato, l’11 aprile 2007 Ivins fu messo sotto sorveglianza a causa dell’aggravarsi della sua posizione, che impose la prosecuzione delle indagini.

    Il 27 luglio 2008 morì suicida per un’overdose di tranquillanti, a un mese di distanza dall’annuncio della sua incriminazione e il caso venne chiuso.

    Due giorni dopo, il senatore Chuck Grassley e il deputato Rush Holt richiesero²⁶ di leggere la documentazione fino ad allora prodotta dal Dipartimento della Giustizia e dall’fbi, ma il 19 febbraio 2010 i federali chiusero definitivamente le indagini.²⁷

    Ivins venne così offerto all’opinione pubblica come il classico lupo solitario che avrebbe tenuto in scacco l’America per mesi e il caso venne facilmente insabbiato.

    Dopo tredici anni di ricerche, un professore di una delle più prestigiose università canadesi, Graeme McQueen della McMaster University in Ontario, ha pubblicato il risultato delle sue indagini in un saggio inchiesta che è stato osteggiato e non ha trovato distribuzione né negli Stati Uniti né in Europa: Il caso truffa dell’antrace 2001. Una cospirazione interna agli Usa. Nel libro McQueen sostiene che

    «Gli attacchi all’antrace fanno parte dello stesso piano dell’11 settembre. Sono stati funzionali all’Amministrazione Bush per poter lanciare la guerra al terrore. Un vero colpo di Stato a livello mondiale. L’antrace è anche servito per assoggettare il Congresso al volere dell’esecutivo. Hanno aiutato a stravolgere la Costituzione scritta da Washington, Franklin e Jefferson […] Il combinato 11 settembre-antrace ha prodotto il ritorno a una nuova guerra fredda. Questa volta, però, con un solo attore in campo: la Casa Bianca».

    In sintesi, secondo McQueen,

    «l’ipotesi che al Quaeda e l’Iraq fossero connessi tra loro nell’azione terroristica [dell’antrace] era falsa, era riconosciuta come falsa, non fu dunque un errore, fu diffusa mediante ripetute azioni ingannevoli del governo statunitense durante quel periodo».²⁸

    Amerithrax permise infatti di intraprendere la guerra infinita contro il terrore islamico con l’approvazione del Patriot Act, l’attacco all’Afghanistan e la guerra contro l’Iraq. Il ruolo di Powell fu fondamentale: senza la sua messinscena non si sarebbe ottenuta la legittimazione morale della guerra.

    Il rapporto Chilcot

    Il 6 ottobre 2004 davanti alla Commissione del Congresso usa, il capo degli ispettori americani, Charles Duelfer,²⁹ presentò un rapporto di quasi mille pagine a opera dei servizi segreti americani in cui si smontava l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute segretamente da Saddam, decretando come ingiustificata e illegittima la guerra in Iraq:³⁰

    «Non penso che scorte militarmente significative di armi di distruzione di massa siano ancora presenti in Iraq né credo ce ne potranno essere in futuro».³¹

    Secondo Duelfer, Saddam aveva mantenuto l’intenzione di ottenere armi di distruzione di massa, ma dopo la prima guerra del Golfo del 1991 la capacità dell’Iraq si era drasticamente ridotta.³²

    Le conclusioni di Duelfer sono state confermate, spiega Roberto Vivaldelli,

    «da tutte le inchieste successive e dai numerosi dossier elaborati dal Veteran Intelligence Professionals for Sanity (vips), gruppo di analisti ed ex ufficiali dell’intelligence che aveva messo in dubbio, sin dal primo momento, la narrazione governativa». ³³

    A conferma di ciò l’inchiesta condotta dalla Commissione inglese presieduta da Sir John Chilcot³⁴ che ha esaminato 150 mila documenti e ascoltato più di cento testimoni per cercare di stabilire la verità su una delle pagine più controverse della storia britannica.

    Secondo il rapporto elaborato dalla Commissione, l’intervento militare in Iraq sarebbe stato «una decisione precipitosa» e i piani su cui l’attacco si fondava erano completamente inadeguati. Il casus belli legato al presunto possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Baghdad venne fatta con una certezza ingiustificata.³⁵

    Secondo Chilcot, l’intervento armato non era affatto l’unica risorsa a cui ricorrere e si sarebbero dovuti adottare altri rimedi alternativi e pacifici per raggiungere il disarmo, come per esempio una strategia di contenimento e proseguire con le ispezioni o il monitoraggio.³⁶

    ___________________

    ¹ F. Santoianni, Fake news. Guida per smascherarle, L’Antidiplomatico, 2021.

    ² https://www.lagrandeguerra.net/ggstatiuniti.html

    ³ Cfr. E. Perucchietti, False Flag. Sotto falsa bandiera, Arianna Editrice, Cesena, 2016.

    ⁴ Ibidem.

    ⁵ C. Simpson, The Lusitania, Little Brown & Co., New

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