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Ho lasciato le chiavi sotto lo zerbino. Ciao!
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Ho lasciato le chiavi sotto lo zerbino. Ciao!

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About this ebook

Viola è una bimba come tante.
Nasce e cresce in una famiglia che potrebbe essere definita "normale", nella provincia industriale, circondata da persone alienate dal lavoro e da montagne.
Come tante è cresciuta da genitori imperfetti.
Un padre anaffettivo ed una madre che non la capisce.
Niente di straordinario.
Una nonna amatissima, che le apparirà anche dopo la morte.
Amicizie sbagliate, che la porteranno quasi sull'orlo del precipizio.
Tanti sogni, pochi realizzati.
La passione improvvisa per i lievitati, che la porterà a vivere una nuova dimensione.
Il suo essere mamma in modo così diverso, coi suoi figli, col coraggio di ammettere che diventare "mamma" non è sempre una conseguenza della gravidanza.
Viola verrà sconfitta, si rialzerà, e poi verrà sconfitta di nuovo.
E si rialzerà ancora.
Tutto questo non è che la normalità.
Eppure raccontare la normalità è una delle cose più difficili.
Passando attraverso i primi amori, le delusioni, la droga, gli eccessi, la maternità, le relazioni sbagliate, Viola racconta di se come potrebbe raccontare di mille altre donne.
Ed è là, proprio nella banalità di tutti i giorni, che si nasconde la straordinarietà della vita.
Perché nasciamo e poi moriamo più volte, nel corso della stessa vita, solo che a volte non ce ne rendiamo conto.
E cerchiamo di raggiungere l'impossibile, quando è nel possibile che possiamo davvero apprendere.
E crescere.
Una storia normale.
Di una vita normalmente straordinaria.
LanguageItaliano
Release dateOct 18, 2022
ISBN9788869829741
Ho lasciato le chiavi sotto lo zerbino. Ciao!

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    Book preview

    Ho lasciato le chiavi sotto lo zerbino. Ciao! - Chiara Alice

    PREFAZIONE

    A cura di Judith Pinnock

    La storia di Viola è quella di una persona comune, che rappresenta alla perfezione il contesto e il periodo in cui si svolge. Eppure, questo libro è un racconto necessario e singolare, per niente banale o scontato. Lo sostengo intanto per la scarsità di storie di donne: la storia che studiamo è una storia di uomini, altrettanto lo sono la storia della letteratura, o dell’arte, della musica. Come se quel 52% di esseri umani avesse l’unica funzione di incorniciare la vita e le gesta maschili. Inoltre, questo racconto tocca molti temi critici nella vita delle donne. A partire dall’amore romantico, quell’ideale – l’amor cortese – che sembra nato appositamente per rafforzare due cose: l’istituto del matrimonio, rendendolo un po’ più umano del puro accordo commerciale che era, e il mito del cavaliere. Cioè dell’eroe salvifico e potente. Ecco giustificata la necessità della cornice: chi sarebbe il cavaliere se non avesse una principessa da salvare? Dovrebbe limitarsi a sconfiggere draghi, che lo metterebbero in costante rischio di vita e non avrebbero nemmeno una piacevole ricompensa da offrire. La principessa, d’altro canto, senza principe che la salva è condannata a dormire sopraffatta dall’incantesimo di una donna potente e maligna. In questi personaggi è racchiuso tutto il mondo di stereotipi che affligge la vita di uomini e donne.

    Viola non è indenne da questa cultura, arriva quasi ad immolarsi all’altare dell’amore perfetto, totalizzante, quello in cui ci si annulla. Ma Viola ha un’arma segreta, che è a disposizione di tutte le donne. Il corpo femminile. Il nostro corpo, capace di generare, ci mette a contatto con la vera essenza della vita. Lo fa tramite due righe rosa su uno stick, lo fa ammalandosi perché non sopporta la gabbia nella quale ci infiliamo volontariamente, lo fa con un guizzo di ribellione quando, come Viola, ci sentiamo dire che valiamo perché sei una donna con le palle, che sappiamo bene di non avere così come sappiamo di avere le ben più potenti ovaie.

    È il sapere del corpo che ci rende competenti, capaci di sottrarci all’abominio di dover chiedere il permesso al proprio compagno di invitare un’amica a casa, è il sapere del corpo, così terreno ma anche così lunare, a permettere che nella nostra vita regni a volte il caos, non l’ordine prescritto. Perché Viola è, fin dalla nascita, ribelle, non ha paura di essere scomoda invece che a disposizione, non ha paura di pagare un prezzo pur di respirare a pieni polmoni l’aria cui ha diritto solo in virtù del fatto di essere nata, non perché quel diritto lo debba conquistare accontentandosi di ciò che qualcun altro, per misericordia o compassione, le lascia. La nostra vita non coincide con una chiave lasciata sotto uno zerbino.

    Nel caos, grazie al caos, Viola scopre la trama della sua vita e pazientemente, attraverso i saperi delle donne, ne tesse l’ordito.

    Un lavoro che non finirà mai, ma che permette a Viola, e a noi che ne spiamo la vita, di scoprire che la felicità non può dipendere da niente e nessuno che sia al di fuori di noi, che l’unico modo per conquistarla è sviluppare il proprio carattere, così com’è, e le proprie capacità, in modo da liberare il proprio originale e unico potenziale. L’amore non può basarsi su una fuga da se stesse per cercare di incarnare l’ideale dell’uomo che dice di amarci, ma che spesso in noi cerca solo uno specchio; ed è così fragile quest’uomo che quando poi vede la sua stessa immagine riflessa in noi la rifugge, perché non riesce a piacersi. O forse perché la scopre molto più piccola di quella che si aspettava.

    Basta parlare di Viola; la sua storia continuerà e starà ad ognuna di noi immaginarla, forse aiutarla a scriverla. Ora voglio dire qualcosa ad Alice Chiara: grazie per aver lottato nel cercare una chiave che aprisse la porta della tua gabbia; la chiave che hai trovato apre anche le gabbie di tutte le altre. Grazie per aver lasciato parlare l’oranga che è in te. Ti auguro una meravigliosa foresta dove il genere umano non metta mai piede.

    Esplorazione

    L’AMORE MATURO, QUELLO VERSO SE STESSI

    Non sai come dirlo.

    Però vorresti dirlo, anche se sai che l’avranno già detto mille persone prima di te. La realtà è che vorresti essere la più originale di tutti, ma non ti riesce quasi mai, o forse non credi di esserlo nemmeno tu, così originale.

    Di amore, solo di questo si parla.

    Oh, sì dai, anche di politica, ma a quanti quella interessa davvero?

    Gli amori finiscono; è sempre successo e sempre succederà. Tutti hanno sofferto, almeno una volta nella vita, per amore. Ma di amore non si muore. Oppure sì, è pur sempre una scelta.

    Facile parlarne…quando succede a qualcun altro, siamo tutti bravi a dare consigli.

    Finché non tocca a noi.

    Ed è così che succede, ti svegli ancora in piena notte in lacrime, con lo stomaco stretto in una morsa, anche se ormai sono passati mesi.

    La fatidica frase restiamo amici ammazza più di una coltellata, diciamolo onestamente.

    Essere friendzonati (termine che potrebbe usare mio figlio) da chi amiamo è una delle cose peggiori che ci possa accadere, soprattutto quando succede come un fulmine a ciel sereno.

    Ed è paradossale, se ci si pensa, perché in fondo non era già il tuo migliore amico pure prima?

    Lo era?

    Oppure era semplicemente l’ennesimo uomo sbagliato che ti avrebbe finalmente portata ad aprire gli occhi e a riprendere in mano la tua vita?

    Aspettativa.

    Attesa.

    Attaccamento.

    Le tre A che niente hanno a che vedere con l’amore.

    Ma perché il distacco improvviso da qualcuno che crediamo di amare ci fa così male?

    Perché delimita definitivamente il rapporto, mette dei paletti fisici, delle barriere architettoniche. Come quando vorresti sciare ma hai solo uno sci e ti senti un po’ deficiente, no?

    O come quando tuo padre decide che da quel giorno devi imparare ad andare in bicicletta senza rotelle.

    Beh, ne prendi di botte dolorose prima di trovare un equilibrio.

    Una cosa incompleta, una cosa parziale.

    Che quando hai avuto la felicità tutta intera è difficile accontentarsi di averne solo un pezzetto.

    Ma perché accade questo?

    Perché ci hanno fatto sempre credere che, per essere felici, abbiamo bisogno di qualcuno vicino, di qualcuno che ci completi.

    E che stare soli non si può.

    Quando mettiamo la nostra felicità nelle mani di qualcun altro il rischio è proprio quello di non essere felici mai.

    Eppure, è così, il sentimento umano è così astratto, così veloce, così fugace.

    Le persone cambiano, le persone vengono, le persone se ne vanno. Saper mettere il cuore in stand-by sarebbe una grande conquista, avere -tipo- un pulsantino che mentre lo pigi ti dica: congelare fino alla prossima stagione, ricordare di inserire il ghiaccio una volta al giorno al fine di un ottimo mantenimento dell’organo.

    E niente, gente. Non si può proprio fare. La verità è che soffrire fa benissimo, dicono. Fa crescere, impari tante cose, entri dentro te stessa, capisci davvero chi sei, fai la maglia, impari il lancio del giavellotto e molte altre cose divertenti. Che quando la gente sui social capisce che sei tornata single ha tante di quelle perle di saggezza che ti chiedi come mai allora paiano tutti depressi.

    Che anche le amiche più comprensive e pazienti a un certo punto non ti sopportano più.

    E quando anche loro non hanno più voglia di ascoltarti ti visualizzi come le litanie di radio Raphael mentre bevi del pessimo vino da supermercato.

    E capisci quanto cazzo sei pesante.

    Ecco perché, arrivata alla fine di un ciclo della mia vita intenso, meraviglioso, distruttivo, indimenticabile, doloroso, ho deciso finalmente di raccontare, di raccontarmi. Di conoscermi davvero.

    Perché quando tocchi il fondo non ti resta altro che risalire.

    Così sono tornata alla radice della mia vita, ricordando chi sono stata, chi sono e lavorando su chi sarò. Facendo un viaggio dentro me stessa, dentro la mia vita, la vita di chi ho incontrato sulla mia via e le esperienze, di gioia e dolore, che mi hanno portata a essere la donna che sono oggi, in continua crescita ed evoluzione.

    Arrivando a nuove consapevolezze.

    Scrivere mi ha aiutata a mettere insieme tutti i pezzi di quel puzzle che è la vita, ripercorrendo le varie fasi, dall’infanzia a oggi, cercando di comprendere il perché degli eventi e fare finalmente pace con me stessa.

    E a rinascere nuovamente.

    Perché succede che, quando arrivi all’apice del dolore puoi decidere di affondare.

    Oppure puoi decidere di guarire te stessa.

    Alice Chiara

    Capitolo 1 - NASCE, CRESCE, CORRE

    C’era una volta una bambina nata già rompipalle.

    O almeno, così narra la leggenda.

    Capelli neri come il carbone, pelle violacea, voce potente.

    Un maschio mancato, così era stata definita dopo i primi respiri della sua vita. Piangeva sempre, notte e giorno, tant’è che la madre aveva pensato più volte di lanciarla dal terzo piano. D’altronde era molto in voga il detto come ti ho creato, così ti distruggo.

    Possiamo dire che questa bambina fosse stata tanto, tanto desiderata.

    Eppure, a volte, è proprio vero che ci si pente di ciò che si desidera troppo, perché poi scopriamo non essere ciò che volevamo per noi.

    Il problema è che, altre volte, non si può più tornare indietro. In certi casi non si può cambiare strada, ci sono volte nella vita in cui le scelte che facciamo cambiano il nostro percorso in modo definitivo.

    Destino e libero arbitrio sono la medesima cosa?

    C’è chi pensa che ognuno di noi abbia un destino già scritto e che lo percorra, magari facendo delle deviazioni momentanee, ma che poi sia comunque destinato a tornare sulla propria strada per arrivare fino allo scopo della propria vita.

    E chi, invece, pensa che il libero arbitrio possa cambiare drasticamente il nostro percorso facendoci imboccare strade completamente diverse e cambiando radicalmente il corso delle cose.

    Una volta credevo essenzialmente alla prima ipotesi, col tempo ho cominciato a orientarmi più sulla seconda.

    Questo forse perché non credo in Dio, o chi per lui.

    Anzi a volte mi irritano le persone che mettono tutto nelle mani di Dio, del destino o della vita. Credo che faccia molto comodo pensare che qualcuno possa decidere per noi, mentre sono certa che ogni decisione sia presa in modo libero e ognuno goda o paghi per le sue scelte.

    Questo non significa che non esistano il destino, il fato, la casualità. Ognuno è comunque libero di agire costruendo giorno per giorno il proprio percorso, nonostante le vicissitudini della vita.

    I suoi genitori si erano conosciuti da ragazzi.

    Sua madre aveva sedici anni, si chiamava Teresa. Suo padre ne aveva diciotto, si chiamava Mario. Erano entrambi bellissimi.

    Teresa aveva i capelli biondo scuro, dei grandi occhi color nocciola, un naso perfetto. Labbra sottili, seno prosperoso, gambe lunghissime.

    Mario era moro, occhi verdi, fisico asciutto, sguardo profondo.

    Quando Viola guardava le loro foto pensava sempre che, un tempo, avrebbero potuto essere una coppia da copertina.

    Si sposarono giovani: la madre aveva diciannove anni, il padre ventuno. Quel giorno lei indossava un vestito color panna castigato, con un cappuccio di velo trasparente ornato da un orlo a giorno.

    Aveva i capelli corti e mossi, il trucco leggerissimo, appena accennato, e le unghie curate, con applicato lo smalto bianco perlato. Fu l’unica volta in tutta la vita in cui riuscì a non nutrirsene: soffriva di onicofagia, e non riuscì mai a smettere di mangiarsele compulsivamente.

    Lui aveva un completo elegante, azzurro carta da zucchero, la cravatta rossa. Sembrava più un cresimando che uno sposo. Erano davvero una coppia bellissima. Almeno all’apparenza.

    I loro primi anni di matrimonio furono quelli più belli, spensierati.

    I genitori di Mario regalarono loro la casa, un luminoso e ampio appartamento al terzo piano. Unica pecca per Teresa: la presenza dei suoceri nell’appartamento adiacente, motivo di innumerevoli litigi a causa dell’invadenza di nonna.

    Arredarono la casa con estremo buongusto. La cucina era di una famosa e costosa marca italiana, il padre raccontava spesso che lo stesso modello era stato esposto per un certo tempo al MOMA di New York.

    Dal soffitto penzolava questo strano lampadario rosso e lucido che, a detta del padre, era un pezzo unico. Viola lo trovò sempre molto bello. La sala e il salotto erano un tutt’uno, ma comunque ben distinti. Sopra la televisione c’era la libreria con tutti i romanzi di fantascienza del padre e qualche sporadico, mieloso romanzo sentimentale della madre. C’erano anche dei libri sul sesso, che sparirono quando la madre divenne - con disappunto di tutta la famiglia - una fervente cattolica. Il divano era molto spazioso, grigio scuro, di tessuto spesso, sembrava quasi lana.

    Nell’album di fotografie la madre era ritratta su quel divano mentre allattava Viola appena nata. Il padre, da giovane, ebbe molte passioni, tra cui la fotografia, poi la routine e la noia lo portarono alla decisione di chiudere i suoi scatti nel cassetto. Faceva foto bellissime, proprio come Viola anni dopo, quando lui le regalò una reflex, rendendola la ragazza più felice del mondo.

    Alle finestre erano appesi lunghi tendaggi color avorio; le pareti erano ricche di quadri, alcuni astratti, altri realistici. Sul lungo mobile basso di legno scuro erano adagiate delle belle statuine di ceramica. Una di queste rappresentava due giovani innamorati, lui seduto, lei in braccio a lui, che si guardavano con trasporto.

    Tipica rappresentazione dell’amore che Viola trovava davvero affascinante e che osservava per ore, animando i due innamorati col pensiero e creando un finale diverso ogni volta.

    Teresa e Mario cercarono di concepire Viola da subito. Diventare madre era l’unico desiderio di Teresa. Ma Viola non arrivava mai.

    Passavano i mesi, poi gli anni. Così, la madre di Viola decise di chiedere un parere medico, per capire

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