Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Un Ragazzino all'Augusteo: Scritti musicali
Un Ragazzino all'Augusteo: Scritti musicali
Un Ragazzino all'Augusteo: Scritti musicali
Ebook330 pages5 hours

Un Ragazzino all'Augusteo: Scritti musicali

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Volume numero 12 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola.

A un anno dalla scomparsa di Fedele d'Amico, appare la prima raccolta di saggi «postumi», da lui stesso scelti all'interno di una sterminata opera di critico e studioso.
Alternando impostazioni, durate e obiettivi diversi, D’Amico ha composto un quadro di casi della musica squisitamente calibrati: da Mozart, Beethoven, Rossini e Verdi, a Berlioz, Brahms e Ravel, da Busoni a Schönberg e Nono, i nodi centrali della storia musicale moderna sono passati al vaglio di una intelligenza critica, di un coraggio mentale e di una partecipazione umana straordinaria.
Dietro ogni scritto di D’Amico, nel segno della critica più smaliziata, o nel tono famigliare e autobiografico, o nella proverbiale via polemica, il destinatario della musica, cioè il pubblico, è sempre tenuto presente; la musica eseguita, nella sua percezione sonora, pubblica, è la misura di un giudizio che non conosce debolezze verso preconcetti o impegni di altra natura. I problemi della regia d’opera, dei libretti in lingua originale o tradotti, la poetica del balletto, la vicinanza con gli interpreti, l’immediatezza delle cose viste e sentite, si innestano sui ritratti dei grandi autori o all’interno di polemiche più scottanti, rincalzandole di illuminazioni decisive.
Chi temeva che D’Amico maestro e virtuoso della conversazione e del racconto fosse perduto per sempre, lo ritrova qui vivo in tutta la sua sincerità: in una scrittura critica che resterà un modello per l’acutezza e l’esattezza con cui ha fissato le scoperte di una sensibilità e di una cultura con pochi riscontri in tutta la tradizione musicologica italiana.

LanguageItaliano
Release dateOct 14, 2022
ISBN9788869348129
Un Ragazzino all'Augusteo: Scritti musicali
Author

Fedele d'Amico

Fedele D'Amico (Roma 27 dicembre 1912 - Roma, 10 marzo 1990) è stato uno dei più grandi musicologi italiani del secondo Novecento. Figlio del critico teatrale Silvio, dopo la laurea in Giurisprudenza studiò musica con Alfredo Casella e iniziò a collaborare come critico musicale a "Il Tevere" di Telesio Interlandi, legandosi poi al mondo antifascista e, in particolare, al gruppo dei cattocomunisti Ossicini e Rodano. In questa veste fu direttore dal 1943 al 1944 del giornale “Voce operaia”. Nel 1938 sposò Suso Cecchi, dalla quale ebbe tre figli, Masolino, Silvia e Caterina. Dopo la caduta del fascismo riprese l’attività intellettuale e di critico musicale, occupandosi in particolar modo di Rossini, Puccini, Menotti, Petrassi, Mascagni, Berlioz, Strauss, Schönberg, Berg (fornendo sue versioni in italiano di varie opere) e collaborando a varie riviste (“Cultura e realtà”, “Vie nuove”, “Melos”, “Scuola e cultura”, “Paragone”), all’Enciclopedia dello Spettacolo e al Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti della UTET. Fu consulente musicale della RAI e curatore dei programmi di sala del Teatro dell’Opera di Roma. Dal 1967 al 1989 fu critico musicale de “L’Espresso”, e dal 1963 professore di Storia della musica all’Università La Sapienza di Roma. Einaudi pubblicò sue versioni del teatro di Bertolt Brecht e dell’Egmont di Goethe. Per Garzanti curò la storia di Giuseppe Verdi postuma di Gabriele Baldini; per Il Saggiatore, insieme a Luigi Dallapiccola, il volume di tutti gli scritti sulla musica di Busoni. Per Adelphi introdusse Il paese del melodramma, raccolta di Bruno Barilli.  

Related to Un Ragazzino all'Augusteo

Related ebooks

Music For You

View More

Related articles

Reviews for Un Ragazzino all'Augusteo

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Un Ragazzino all'Augusteo - Fedele d'Amico

    Fedele d’Amico

    Un ragazzino all’Augusteo

    Scritti musicali

    A cura di Franco Serpa

    Prefazione di Masolino d’Amico

    Premessa di Franco Serpa

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    e-Isbn 9788869348129

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione

    scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Classici Bibliotheka: Pierluigi Pietricola

    FEDELE D’AMICO

    Roma 27 dicembre 1912 - Roma, 10 marzo 1990

    È stato uno dei più grandi musicologi italiani del secondo Novecento.

    Figlio del critico teatrale Silvio, dopo la laurea in Giurisprudenza studiò musica con Alfredo Casella e iniziò a collaborare come critico musicale a Il Tevere di Telesio Interlandi, legandosi poi al mondo antifascista e, in particolare, al gruppo dei cattocomunisti Ossicini e Rodano. In questa veste fu direttore dal 1943 al 1944 del giornale Voce operaia.

    Nel 1938 sposò Suso Cecchi, dalla quale ebbe tre figli, Masolino, Silvia e Caterina.

    Dopo la caduta del fascismo riprese l’attività intellettuale e di critico musicale, occupandosi in particolar modo di Rossini, Puccini, Menotti, Petrassi, Mascagni, Berlioz, Strauss, Schönberg, Berg (fornendo sue versioni in italiano di varie opere) e collaborando a varie riviste (Cultura e realtà, Vie nuove, Melos, Scuola e cultura, Paragone), all’Enciclopedia dello Spettacolo e al Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti della UTET.

    Fu consulente musicale della RAI e curatore dei programmi di sala del Teatro dell’Opera di Roma.

    Dal 1967 al 1989 fu critico musicale de L’Espresso, e dal 1963 professore di Storia della musica all’Università La Sapienza di Roma.

    Einaudi pubblicò sue versioni del teatro di Bertolt Brecht e dell’Egmont di Goethe.

    Per Garzanti curò la storia di Giuseppe Verdi postuma di Gabriele Baldini; per Il Saggiatore, insieme a Luigi Dallapiccola, il volume di tutti gli scritti sulla musica di Busoni. Per Adelphi introdusse Il paese del melodramma, raccolta di Bruno Barilli.

    Editato per la prima volta nel 1991 da Einaudi , torna in libreria "Un ragazzino all’Augusteo, uno dei testi più importanti della critica musicale.

    Il Don Giovanni

    Don Giovanni, scena ultima. Partito il Commendatore e «profondato» il Dissoluto fra le fiamme infernali, tutti accorrono richiamati dalle sue grida e Leporello, unico testimone, racconta come può. Giustizia è stata fatta, e la calma subentra. Don Ottavio prega donna Anna (invano) di concedergli finalmente le nozze, donna Elvira dichiara che si chiuderà in un convento, Zerlina e Masetto che torneranno a casa, «a cenar in compagnia», Leporello che se ne andrà all’osteria, «a cercar padron miglior». Segue la morale, intonata a sei: «Questo è il fin di chi fa mal! ǀ E de’ perfidi la morte ǀ alla vita è sempre ugual».

    Fino a una sessantina d’anni fa ben pochi conoscevano la semplice esistenza di questa scena perché quasi tutti i teatri di lingua tedesca – i soli, allora, che tenessero il Don Giovanni nel repertorio corrente – la sopprimevano: al gusto teutonico quella scena suonava anticlimax sacrilegamente frivolo, e soprattutto welsch, cioè italiano; tant’è vero che lungo l’Ottocento la principale eccezione a questa prassi si dette all’Opera di Dresda, teatro di tradizioni italianizzanti. D’altra parte, una volta divenuto il taglio abituale, l’opera divenne in effetti, almeno tendenzialmente, ciò che quel gusto la riteneva: concludere con la scena della dannazione fatalmente ridusse, nell’immaginazione dello spettatore, il peso del comico incontrato fino allora, oscurandogliene il significato.

    Così suppergiù accadde alla critica ottocentesca – germanica per la più gran parte – : la quale del Don Giovanni intese indubbiamente moltissimo, non però che il comico vi fosse inseparabile dal «serio» come l’ombra dalla luce, e più. Ed ecco che, degenerando questa deficienza, il nostro secolo ha potuto partorire sul tema alcuni mostri, illustre fra tutti la monografia di Pierre-Jean Jouve, per la quale il comico nel Don Giovanni si direbbe irreperibile, il tutto non consistendo che in diverse gradazioni e varianti del demoniaco. Mentre al polo opposto partivano dall’Inghilterra inviti a non scaldarci troppo, culmine il Mozart’s Opera di Edward Dent, per il quale il Don Giovanni, opera musicalmente certo geniale ma comunque inferiore all’Idomeneo, andrebbe letto in chiave puramente buffa: compresa la scena della dannazione, di cui il personaggio decisivo (né più né meno che nei vari convitati di pietra dei comici dell’arte) verrebbe ad essere il servitore.

    Il libro di Jouve è del 1942, l’ultima edizione riveduta di quello di Dent è del 1955 (I ed. 1913). È strano che posizioni così unilaterali si proponessero come esaurienti quando ormai come immagine veridica di Mozart s’andava diffondendo quella del genio «sferico», che quanto più alto tocca tanto più diviene contemporaneamente accessibile da punti di vista diversi: cioè musica da godersi sia come canto sorgivo che come organismo complesso, immediatamente popolare eppure supremamente «artistico»; in cui prelibate inflessioni contrappuntistiche si celano sotto apparenti monodie accompagnate, e una scrittura eminentemente sinfonica è sottesa all’aperto vocalismo delle opere liriche (dove poi la minuta analisi della parola miracolosamente coesiste con l’autonomia della forma chiusa); e soprattutto verità e finzione, burla e poesia, comico e tragico, possono darsi come due volti della stessa realtà.

    Questo appunto permise, e permetterà sempre, approcci unilaterali, in sé legittimi e anche soddisfacenti. Tuttavia l’unicità di Mozart sta nel nesso che lega e insieme trascende quegli opposti; ora, che questo punto si sia fatto per noi sempre più chiaro, si deve soprattutto alla straordinaria proliferazione d’intrecciati significati che s’addensa appunto nel Don Giovanni; dove l’ambivalenza è più che mai non semplicemente una dato di partenza ma la sostanza del messaggio. Né soltanto si tratta della compresenza di due punti di vista: per esempio quella per cui i tre scontri fra don Giovanni e il Commendatore – ci sono mostrati «anche» (non «soltanto», come Dent vorrebbe) dal punto di vista del servitore. C’è di più il comico agisce anche, direttamente, sul dramma: la nostra pietà per donna Elvira s’accresce appunto nella misura in cui il ridevole – aria del catalogo, travestimento di Leporello – s’accumula sul suo capo. Più in generale, un’osmosi continua corre fra dop Giovanni, personaggio d’estrazione incontestabilmente «buffa» (checché ne pensasse Busoni) in corsa verso la tragedia e gli altri; i quali tutti salvo il Commendatore – come Albert meglio d’ogni altro ha spiegato – assumono carattere e contegno in riferimento a lui, che a sua volta va via via travestendosi in funzione dell’interlocutore da conquistare, ingannare vincere. E si veda Leporello che nell’aria del catalogo, partito per denunciare le malefatte del padrone, a poco a poco invece se ne esalta, e in proprio, entrando nei suoi panni.

    Ma quel che più conta è la duplice immagine del protagonista: da una parte don Giovanni è visto come un delinquente, giustamente punito in fine, dall’altra come una figura irresistibilmente affascinante, l’eroe positivo. Evidentemente la censura dell’epoca non avvertì la contraddizione ma le censure, si sa, sono formaliste, e che il «fin» del seduttore fosse sentito dalle sue vittime come un lieto fine le bastò. Non bastò invece, per dirne una, all’inflessibile moralismo di Beethoven, il quale non perdonò a Mozart d’aver comunque eretto un monumento ad un libertino.

    La via d’uscita da questo vicolo cieco fu aperta da coloro che nel mito di don Giovanni seppero vedere qualcosa di più del libertinaggio: come, vivente ancora Beethoven, E. Th. A. Hoffmann, e poi, meglio di tutti, Kierkegaard (1843); per il quale, data l’organica indeterminazione etica dell’espressione musicale, quel «demonismo dei sensi» di cui don Giovanni sarebbe l’esponente (come Faust di quello dello spirito) è dalla musica sottratto al giudizio morale. Dunque solo la musica poteva dar ragione di quel mito, e viceversa non potrà mai, la musica, realizzare la propria essenza profonda sulla scorta d’una ispirazione diversa: paradosso che a suo modo s’intona con la non ancora smentita profezia di Goethe, 31 dicembre 1797, che nessun’opera sarebbe più nata, che raggiungesse il livello di questa.

    Ciò che ancora sfuggiva a Kierkegaard è che accanto alla musica, eticamente indeterminata, ce n’è, nel Don Giovanni, di determinatissima. Da un lato, infatti, c’è la vitalistica urgenza del «libertino», la sua corsa che scatena e sconvolge e trasmuta tutto un mondo al suo passaggio, sospinto dall’ilare soffio del comico; ma dall’altro, il Commendatore. E lui non soltanto. Il commento finale, cioè la citata «scena ultima», dopo aver rapidamente toccato tasti diversi non escluso quello buffonesco («Resti dunque quel birbon ǀ con Proserpina e Pluton»), affida la morale conclusiva alla vertigine d’un pseudofugato «presto» che rende improvvisamente l’espressione improvvisamente ermetica: fino a svanire nel nulla. Con imparzialità sovrumana Mozart ha governato dall’alto così l’apoteosi della vita irresponsabile come le inconfutabili ragioni del suo contrario; e ora si rifiuta di pronunciarsi.

    Tutto ciò, ormai, è di dominio pubblico, voglio dire che finalmente la «cultura», la «critica», ne ha preso coscienza discorsiva. Tuttavia già i praghesi di duecent’anni fa l’avevano sentito, e così tutti i pubblici che in quest’opera fiutarono un unicum, e così gl’innumerevoli musicisti che su questa partitura si chinarono come su una bibbia. Perché l’uomo, ha scritto una volta Benedetto Croce, ha sempre pensato il vero.

    «Così fan tutte…»

    Dei suoi meno che trentasei anni di vita (26 gennaio 1756 – 5 dicembre 1791) gli ultimi dieci Mozart li passò a Vienna; e furono i favolosi dieci anni della sua maturità piena, quella esplosa, quasi improvvisamente con l’Idomeneo, re di Creta (Monaco, 29 gennaio 1781). Ora i viennesi tenevano il suo nome in considerazione grandissima; ma la sua attività concreta, un po’ meno: presso di loro la sua gloria era maggiore del suo successo. Si pensi, per esempio, alla fatica che durò per farsi accettare sulle scene: il blocco dei diritti quesiti, degl’interessi creati, che si cristallizzava presso la corte imperialregia, bastò a fargli su questo punto la vita difficile. Fu così che al trionfo del Ratto al serraglio (16 luglio 1782), diana di riscossa dell’opera di lingua tedesca, non seguì quell’immediata commissione di un’altra opera che sarebbe stato lecito aspettarsi. L’opera successiva, cioè Le nozze di Figaro, venne poco meno di quattro anni dopo (I maggio 1786), italiana e non tedesca, libretto di Lorenzo Da Ponte. E fu bene accolta; no però con quel delirio che suscitò alcuni mesi dopo a Praga, e al quale l’impresario che l’aveva allestita colà, Pasquale Bondini, reagì commettendo immediatamente alla coppia un’opera nuova. E questa fu il Don Giovanni (29 ottobre 1787), cioè un altro trionfo; non però a Vienna, dove, quando sei mesi dopo ci arrivò, non soltanto non piacque se non ad un élite ma sempre più diffuse la persuasione che la musica di Mozart fosse sì quella d’un genio, ma «difficile». Sta di fatto che a Vienna non riapparve – in tedesco e in un teatro minore – che nel ’92, ossia dopo la morte di Mozart, e nel Teatro di Corte non prima del ’98. Riapparvero però, nell’estate dell’’89, Le nozze di Figaro, e questo rialzò un poco le sue azioni stimolando la benevolenza dell’imperatore a incaricare la coppia d’un’opera nuova.

    E questa fu Così fan tutte ossia La scuola degli amanti. Il cui spunto, a quanto pare, fu suggerito dall’imperatore stesso, a seguito d’un fatto realmente accaduto a Vienna, o a Venezia, o più probabilmente a Trieste; e che nelle mani di Da Ponte divenne, in succinto, quanto segue.

    Per deridere la cieca fiducia che due giovani gentiluomini napoletani, Ferrando e Guglielmo, nutrono nella fedeltà delle rispettive fidanzate, le due sorelle Dorabella e Fiordiligi, il «vecchio filosofo» don Alfonso scommette con loro che, purché essi si prestino a recitare lealmente la mascherata che vorrà lui (con la collaborazione, da un certo momento in poi, di Despina, cameriera delle due fidanzate), la loro infedeltà si manifesterà ben presto. Così i due fingono di partire per la guerra e, ripresentandosi immediatamente travestiti da albanesi, corteggiano ognuno la promessa sposa dell’altro, e con successo; sì che si dà mano alla festa nuziale delle coppie nuove, omologata da un notaio che altri non è se non Despina mascherata. Quand’ecco che Don Alfonso precipitosamente annuncia l’inaspettatissimo ritorno dei guerrieri, «richiamati da regio contrordine», provocando il panico nelle infedeli; naturalmente i due «albanesi» escono in fretta di scena, per riapparire subito nella loro identità reale, e poi rivelare la burla giocata col mettersi addosso un po’ della loro mascheratura. Ma in realtà «il vecchio filosofo» li aveva già persuasi a rassegnarsi, considerando che «così fan tutte». Donde la riconciliazione.

    Il titolo era nato da una battuta di don Basilio nelle Nozze di Figaro, nella scena in cui il Conte, sollevando la coperta gettata da Susanna sulla poltrona dove s’è rannicchiato Cherubino, scopre il paggio: «Così fan tutte le belle ǀ non c’è alcuna novità». Per il 31 dicembre Mozart convocò in casa Haydn e il commerciante Michael Puchberg, un suo mecenate, ad una prova dell’opera, che dunque supponiamo compiuta entro l’anno. Il 20 gennaio (1790) cominciarono le prove con l’orchestra, e il 26 andò in scena: al Burgtheater, cioè al Teatro Nazionale di Corte. Interpreti furono Adriana Ferraresi Del Bene (Fiordiligi), sua sorella Louise Villeneuve (Dorabella), Dorotea Bussani (Despina), Vincenzo Calvesi (Ferrando), Francesco Benucci (Guglielmo) e Francesco Bussani (don Alfonso): tutti cantanti ben noti a Mozart, che aveva già composto per loro (per Benucci, addirittura la parte di Figaro, per la Bussani quella di Cherubino).

    Il successo fu eccellente; ma dopo le prime cinque recite – 26, 28 e 30 gennaio, 7 e 11 febbraio – lo spettacolo fu sospeso per la morte dell’imperatore (20 febbraio); solo altre cinque ne seguirono più tardi: 6 e 12 giugno, 6 e 16 luglio, 7 agosto. In vita Mozart, che sarebbe morto il 5 dicembre dell’anno successivo, l’opera fu ripresa soltanto nell’immancabile Praga, e a Dresda (dove nessun’opera di Mozart era mai apparsi fino allora).

    Subito dopo cominciò la diffusione nei teatri di lingua tedesca, in traduzioni innumerevoli: giacché il costume tedesco dell’epoca voleva che quasi ogni teatro proponesse una traduzione propria. Senonché nella varietà stavolta si andò ben oltre, perché in gran parte queste traduzioni furono in realtà rifacimenti radicali, segnalati ogni volta da un titolo diverso; sì che il soggetto mutò sino a farsi irriconoscibile. E non solo nei paesi tedeschi: in Francia Barbier e Carré, i libretti del Faust di Gounod, adattarono alla musica nientemeno che una commedia di Shakespeare, Pene d’amor perdute. Del resto operazioni del genere si consumarono spesso, nell’Ottocento, anche in Italia, su opere italiane; ma per ragioni di opportunità pratica, principalmente in vista della censura. Stavolta invece la ragione era la profonda ripugnanza che il mondo germanico, dal Romanticismo in poi, provava per il libretto di Da Ponte, dappertutto giudicato immorale, futile, e soprattutto inverosimile.

    Al buonsenso si tornò solo alla fine del secolo, quando Hermann Levi – il grande direttore wagneriano, primo e per alcuni anni unico interprete del Parsifal – ne approntò una traduzione fedele; ma non per sé, che come direttore s’era ormai messo a riposo: la sua versione servì per la prima volta a Richard Strauss, che la diresse a Monaco nel 1896, quindi a Gustav Mahler (Vienna, 1900), e così l’opera fu riavviata alle scene nella sua identità.

    Magra comunque, come di qualsiasi opera di Mozart, fu la carriera di questa in Italia, sino a pochi decenni fa. Arrivata nel giugno 1797 al S. Pietro di Trieste (con la Ferraresi), tornò nel 1805 a Varese, quindi colse alla Scala un bel successo nel 1807 (38 recite) ma uno minore nel 1814 (una decina): sempre in quell’Italia, dunque, che politicamente era parte dell’impero. Seguì nel ’15 un’apparizione al Fondo di Napoli, una nel ’16 al Carignano di Torino, quindi un silenzio lunghissimo, destinato a riaprirsi, nel secolo, soltanto presso teatri minori: nel ’70 a Napoli (Fondo), nel ’72 a Torino (Gerbino) e a Bologna, nel ’74 e nell’’80 a Firenze. Sin che il non mai abbastanza lodato Teatro di Torino fondato da Riccardo Gualino nel 1925 non ne offrì nel ’27 un’esecuzione finalmente degna sotto la direzione di Vittorio Gui, destinato a diventare, di quest’opera, l’apostolo italiano principe. Ma il suo stabile ingresso nei repertori appartiene all’ultimo dopoguerra.

    Per circa un secolo il giudizio sfavorevole sul libretto di Da Ponte si ripercosse, nel contegno della critica, sulla musica: culmine la famosa dichiarazione di Wagner (in Opera e dramma, 1851) che se su un tal testo di Mozart avesse dispiegato un’inventiva pari a quella del Figaro o del Don Giovanni avrebbe «disonorato la musica». Solo negli anni ancora abbastanza prossimi alla morte di Mozart s’incontrano giudizi autorevoli risolutamente positivi su Così fan tutte, tali quelli di Bernhard Anselm Weber (1797) e. Th. A. Hoffmann (1819). In progresso di tempo, per trovare una firma risonante sotto un ditirambo alla nostra opera bisognerà aspettare, salvo errore, il 1867, per uno scritto di Hippolyte Taine, il ben noto storico e filosofo; che però ne considera la musica come una vittoria sopra un testo che è soltanto una «pièce satirique et bouffonne». Significativo, più che la disistima, è il disinteresse. Nei grandi dibattiti della cultura tedesca dell’Ottocento, pur tutta in ginocchio davanti a Mozart, sulla musica e il teatro musicale, Così fan tutte resta fuori campo: un compositore attivissimo nella critica e nella polemica estetica come Schumann, per esempio, non la nomina mai; e neppure Busoni (idem idem), morto addirittura nel 1924. Comunque, anche là dove una simpatia per l’opera traspare, il libretto è più che altro benevolmente tollerato, esempio da G.B. Shaw (1890). Nella stessa grandiosa biografia mozartiana di Otto Jahn (I ed. 1856-59), quella che nel rifacimento moderno di Harmann Albert (1919-21) sarebbe diventato il capolavoro della storia musicale tutta, l’ammirazione per la novità, in alcuni luoghi, della musica, parte pur sempre dal principio che il libretto di Da Ponte le faccia da palla al piede.

    La prima rivalutazione critica radicale s’incontrerà in uno scritto di Richard Strauss, steso nel 1910 ma che evidentemente rispecchia una pionieristica ammirazione di molto tempo prima (vedi infatti sopra). Strauss non solo vede nel testo il libretto più fine di Da Ponte, alla pari con quello del Figaro, ma capovolge Wagner affermando che la musica di quest’opera possiede una straordinaria penetrazione psicologica, e appunto in rapporto alle proposte del libretto; e che appunto il malvezzo di presentare questo libretto in versioni gravemente alterate aveva minato alle basi questo rapporto, rendendo la musica irriconoscibile.

    Fu quel saggio una svolta decisiva. Già per Edward Dent (1913) questo libretto sarà il capolavoro di Da Ponte, e così per Alfred Einstein (1937), che vi godrà «il piacere estetico che dà una partita di scacchi perfettamente riuscita»; mentre Gaston de Saint-Foix (1946) vi sottolineerà oltretutto la capacità di offrire alla musica pretesti di lirismo puro, di «poesia». A tutto questo corrisponde una piena rivalutazione dell’opera, ormai unanimemente corrente da circa mezzo secolo: dimostrandosene che appunto accettarne il testo era la chiave per intenderla.

    E naturalmente l’interpretazione decisiva, come sempre in materia mozartiana, la fornì il citato Albert; per il quale Così fan tutte è un mondo fittizio, umbratile, a cui Mozart partecipa completamente, ma al tempo stesso contemplandolo dall’alto con una felicità propriamente divina. E niente satira, niente caricatura, nessun pessimismo: fra le pieghe delle maschere l’ironia scopre l’umano. I personaggi non sanno che cosa realmente accada loro, ma pur sembrano sospettare una potenza superiore; che alla fine cala su di loro un sentimento di redenzione.

    Eppure a questa interpretazione, che sembra suggerita da ciò che qualunque spettatore schietto percepisce istintivamente in quest’opera, ne seguirono altre molto divergenti, e infine opposte. Si cominciò col tirare in ballo l’illuminismo, il «razionalismo»: non si sa bene a che titolo. Quindi la «denuncia» della corrotta e morente società del tempo. Ma questo era ancora niente. Già nel ’32 Henri Ghéon ci aveva descritto la terribile indifferenza che Mozart avrebbe manifestato verso i suoi personaggi in quest’opera, perentoriamente definendola «il capolavoro più disumano che si conosca». E di questa linea apocalittica si fece divulgatore René Leibowitz in un disastratissimo articolo steso nel ’46 e poi ripubblicato nella sua sedicente Histoire de l’opéra; dove sotto il titolo «La tragedia in forma di gioco» non solo si parla (come in Ghéon) di indifferenza dell’autore verso i suoi personaggi, ma di «crudeltà», e addirittura (che vorrà mai dire?) di «architettura brutale». Ora appunto su questa strada si muove ancora oggi l’opinione di alquanti «addetti ai lavori», purtroppo scampati alla disoccupazione: che il «razionalismo» di Così fan tutte sia un miscuglio di «denuncia», pessimismo e cinismo, una cosa sinistra insomma, da lasciarci costernati pressappoco quanto un testo di Beckett (altrimenti, a che titolo interessarsene? Solo al «negativo», pare assodato, andrebbe oggi riconosciuta «validità»; se dunque quest’opera fosse per avventura l’opposto, non resterebbe che riesumare la sentenza di Wagner).

    Eppure non c’è deformazione della verità senza un fondo di verità. Una tale lettura non è che degenerazione d’una constatazione di fatto: il gioco che quest’opera conduce è in effetti, inafferrabilmente, inquietante, prodotto com’è da una dialettica tra finzione e realtà che il libretto già prefigura, anche se il compito di trasfigurarlo in ambiguità arcane spetti alla musica. Ma per quali vie e con quale esito?

    Materia dell’azione, l’abbiamo visto, è una burla: condotta, nella specie, secondo una drammaturgia talmente esatta da parer semplicissima, il più elementare dei sillogismi; ma in realtà raffinata assai, portata avanti com’è da personaggi nettamente differenziati tra loro, che solo a poco a poco ci additano il significato della parabola.

    Ben presto, in limine, distinguiamo tra loro tre coppie. La prima, radicalmente diversa dalle altre due, è formata da don Alfonso e dalla sua occasionale collaboratrice Despina, personaggi completamente realistici: beninteso di quel realismo spicciolo, quotidiano, che è proprio dell’opera buffa. Vocalmente, Alfonso è ai confini tra l’attore e il cantante, tanto che la sua parte s’affida spesso ad artisti di età avanzata ossia dalla voce non più fresca né agile: l’estensione è ristretta e lo stile sempre sillabico (un minimo di colorature s’incontra solo nel terzettino «Soave sia il vento»; ma non a caso, perché in quel luogo il disincantato «filosofo» recita solidarietà con le due donne davanti alla finta partenza degli amanti, perciò assimila il suo linguaggio al loro).

    Questo risalta particolarmente nei pezzi d’insieme, per esempio nel terzetto con i due gentiluomini nel quale enuncia la sua filosofia con la quartina divenuta proverbiale¹: «È la fede delle femmine ǀ come l’araba fenice, ǀ che vi sia ciascun lo dice, ǀ dove sia nessun lo sa»; e il suo stile sillabico si contrappone a quello fiorito dei due amanti, quasi gettando acqua sul fuoco. Inoltre gli è assegnata una sola aria, che poi è tale solo sulla carta perché dura quaranta secondi. Eppure la sua presenza domina, nello sfondo, l’opera tutta. E questo, per buona parte, grazie appunto alla spiccata diversità del suo linguaggio da quello degli altri; la quale diversità non è solo vocale ma anche formale. Straordinaria per esempio, sia stilisticamente che formalmente, è l’originalità del breve recitativo accompagnato che inopinatamente esplode fra due frammenti di recitativo secco successivamente al citato terzettino «Soave sia il vento» («Nel mare solca e nell’arena semina ǀ e il vago vento spera in rete accogliere ǀ chi fonda sue speranze in cor di femina»). E ancora, quella dell’arioso con il quale, a scommessa vinta, induce i due traditi alla rassegnazione: «Tutti accusan le donne, ed io le scuso», eccetera, sino al conclusivo «ripetete con me: così fan tutte». Alla base, c’è la miracolosa capacità di Mozart di mettere a fuoco ogni battuta del suo personaggio, del resto già dai versi dotata di quella «parola scenica» che Verdi avrebbe preteso dai suoi librettisti, e nella quale Da Ponte insuperabilmente eccelleva.

    Analogamente immune da lirismi belcantistici, e perciò da colorature, è la spregiudicata Despina, impermeabile al «sentimento», e non soltanto per danaro collaboratrice del «filosofo». Ignora, è vero, che la partenza dei due amanti è falsa, e che i due albanesi non sono tali; comunque, l’idea che una donna debba fedeltà ad un uomo le riesce risibile, e tanto le basta: la sua prezzolata ruffianeria coincide con le sue convinzioni. Nessuna ambiguità è dunque in lei: crede in quello che predica, e quando si maschera da medico o da notaio sa di recitare. Tuttavia è bene una soubrette, e a differenza di Alfonso «canta», e irresistibilmente: due arie e lunghi squarci nelle scene d’insieme, in una vocalità asciutta, pungente, non bisognosa di virtuosismi, né di estensione rischiosa.

    Funzione di questi due personaggi è di provocare o sostenere la azione vera e propria, ad un fine ben preciso; essi ignorano i sottintesi, perciò si danno a conoscere per quel che sono al primo apparire. Non così gli altri, quelli che dell’azione vera e propria sono i soggetti; i quali nel portarla avanti vi s’impigliano, si contraddicono, e possono via via svelare risvolti che non avevamo sospettato. Essenziale, a intendere questo punto, è osservare che non solo i due uomini fingono, ma anche le donne, sebbene altrimenti, cioè senza confessarlo a se stesse. Ce lo dice l’iperbolica disperazione che esibiscono alla notizia della chiamata alle armi dei loro promessi, dopo un duetto che ce le ha presentate, tra sfumature di appena percettibili ironie, a gingillarsi in svenevole ammirazione dei loro ritratti. Il loro amore, hanno tutta l’aria di recitarlo. E ancora incliniamo a crederlo all’inizio del successivo quintetto degli addii («Di scrivermi ogni giorno ǀ giurami, vita mia») con quei singulti dei quattro delicatamente stilizzati in sillabe staccate l’una dall’altra, mentre al basso il filosofo va borbottando: «io crepo se non rido». Tuttavia dopo appena sei battute i

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1