La sciarpa scozzese
()
Info su questo ebook
ciascuno intorno a un oggetto (dei rapaci impagliati, il fantoccio
di un aviatore, delle maschere, una bandiera del palio...), delineano,
da varie angolazioni, una grammatica dei sentimenti. Solo
uno, “la morte”, non ha oggetto: perché, al centro della morte,
non vi sono oggetti, ma soltanto il vuoto e l’orrore. In questi racconti,
però si celano anche delle domande. Chi è il misterioso
funzionario che, riemerso dal passato, sconvolge la vita d’una
famigliola sotto natale? Perché un’anziana zia, entrata nella sua
stanza, suona davanti al nipotino una Suite di Bach sul violoncello
prima di uccidersi? Come mai un alunno, un “primo della
classe”, accetta la sfida mortale con un compagno? Chi è “la
piccola donnina” che, dopo averlo conosciuto all’oratorio, appare
in sogno, al suo amichetto, con un orribile livido sul braccio?
Domande, queste, destinate a restare senza risposta. Guardare al
cuore umano, al suo abisso, si può. Ma, poi, bisogna ritrarsene al
più presto.
Leggi altro di Nicola Moncada
Il cancelliere Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
Correlato a La sciarpa scozzese
Titoli di questa serie (19)
La sciarpa scozzese Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniHomo pandemicus: Vogliamo davvero rinunciare alla nostra umanità? Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniVittoria, un grande dono: La coraggiosa testimonianza di una madre che per amore non ha mai smesso di lottare Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniL'universo e Fritz Leiber Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniTarek e gli altri Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniIl cibo: un alleato prezioso: Prendersi cura della propria salute a tavola ai tempi del Covid Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniUmanità sotto scacco: Riflessioni filosofiche, psicologiche e scientifiche per affrontare lo stato di emergenza Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniIl telegrafista di Margherita: Il soggiorno a Bordighera della regina Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniDal fango estraggo l'oro: Le parole di denuncia e speranza della Preside più famosa d’Italia Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniEmergenza scuola: I bisogni ignorati dei nostri figli nella crisi sanitaria Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniCoronavirus Covid-19: No! Non è andato tutto bene Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniQuando il corpo dice no: il costo dello stress invisibile Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Malattie, vaccini e la storia dimenticata: dissolving illusion Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLa protesta e l'amore: conversazioni con Luca Bonaffini Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniIl pane degli angeli Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniKhalil Gibran Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLa scuola della guerra Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniPerennia Verba Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniIl filo della danza Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
Categorie correlate
Recensioni su La sciarpa scozzese
0 valutazioni0 recensioni
Anteprima del libro
La sciarpa scozzese - Nicola Moncada
Nicola Moncada
La sciarpa scozzese
Proprietà letteraria riservata. La riproduzione in qualsiasi forma, memorizzazione o trascrizione con qualunque mezzo (elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, internet) sono vietate senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.
Progetto grafico e impaginazione: Stefano Frateiacci (www.studiovagante.it).
Ebook realizzato da: Cristina D'Andrassi
In copertina: Studiovagante, Le città vaganti: Viterbo (particolare)
ISBN cartaceo: 979-12-5524-001-3
ISBN ebook: 979-12-5524-002-0
© 2022 Edizioni sette città
Via Mazzini 87 – 01100 Viterbo
tel 0761 303020
www.settecitta.eu
info@settecitta.eu
ISBN: 9791255240020
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
https://writeapp.io
Indice dei contenuti
Il vento
Il nonno
La basilica
La zia
1
2
3
4
5
6
La sciarpa scozzese
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
I due presepi
Le oche
Il tenente Masters
Le maschere
Fiorella
1
2
3
4
5
I pali
•
•
•
•
La morte
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Il muro
Susanna
Preistoria
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Palio
Attilio Regolo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
L'altalena
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Alla memoria di mia madre,
Stefania Della Palma
Il vento
Era buio. Entrarono nel cinema: li avvolse la luce al neon.
Il padrone, toccandosi i corti, neri baffi, lo additò a suo padre.
- Eh, non sarà troppo piccolo per questo film?
Suo padre si strinse seccato nelle spalle.
- Non credo, - disse. - E comunque, se vedessi qualcosa di strano, lo porterei fuori.
- Accomodatevi, allora… Lo spettacolo è offerto.
- Mi saluti suo genero.
Il padrone, sollevando i rossi, pesanti tendaggi che ostruivano l’ingresso, mostrò loro l’interno. Era scuro. Ma, quasi subito, distinsero la nera massa della platea.
Padre e figlio, arrivati alla prima fila, sedettero.
- O, forse, è preferibile la galleria? Si vede meglio, da lassù…
Si alzarono. E poiché, nella parete laterale di destra, s’apriva una porticina, l’oltrepassarono.
Salirono le scale.
Suo padre, accomodandosi su un sedile, se lo mise sulle gambe.
Lo schermo, sfrigolando all’improvviso, s’illuminò.
Dopo un istante, cominciarono a scorrere le immagini.
Sopra di loro, a un tratto, qualcosa si mosse, sbatté.
- Dev’essere il vento…
Lui, stanco, chiuse gli occhi. Poi, li riaprì.
Aveva caldo, e smaniava.
Guardò il padre. Questi, con dita lunghe e tiepide, gli sciolse i legacci del Montgomery.
L’audio gracchiò.
Lui, alzando la testa, si fece attento.
In una pianura, tra casupole, mulini a vento e torri, si fronteggiavano due eserciti. Da un lato, su un’alta rupe, stava un castello. In basso, invece, in mezzo a un prato, mulinavano spade, picche, alabarde. I guerrieri - degli omini, con pantaloni, corazze ed elmi - si scontravano furiosamente.
Una parte, alla lunga, sovrastò l’altra. Poi, dai campi, ci si spostò in un bosco. Gli alberi, nella vasta, fitta e nera foresta, erano altissimi. E, nell’oscurità, quasi non ci si vedeva.
Qualcosa, sulle loro teste, cigolò e cozzò.
- Da qualche parte, - disse suo padre, - dev’essersi aperta un’imposta. Sì, - aggiunse; - bisogna avvertire il proprietario… Comincia a far freddo, quassù.
E, allacciandone in fratta i bottoni, gli richiuse il Montgomery.
Gli omini, nelle grandi, lucide corazze che li rivestivano, cadevano l’uno dopo l’altro. Le loro teste, tonde e glabre, erano buffe. Qualcuno, contorcendosi sull’erba, piangeva.
- Quello, - gli disse il padre, additando qualcosa in un angolo dello schermo, - è l’ariete.
Era un basso, largo e solido capanno, con un tronco orizzontale. E, a un’estremità del tronco, c’era una testa di capra, dalle corna aguzze.
L’ariete, spinto con foga dagli assalitori, avanzava cigolando sulle ruote. E, mentre li incalzava, i difensori, rompendo le file, indietreggiavano e fuggivano.
Il ponte levatoio che sovrastava il fossato, tutt’a un tratto, si sollevò. Si udì un urlo: gli omini che, ritirandosi, s’erano dovuti fermare, s’erano sentiti perduti.
Dall’acqua del fossato, affioravano verdi, triangolari teste di serpenti. Gli omini, ora, non facevano altro che stridere, che lamentarsi. Piangevano, e si abbracciavano l’un l’altro.
Gli assalitori, levate in alto le picche, urlavano, preparandosi a un nuovo attacco.
Poi, la scena cambiò.
La grande pianura, adesso, era ripresa dall’alto. E, lentamente, sulla sinistra, spuntò un’ombra.
- Eccolo, il mostro… - disse suo padre.
Era enorme. Con un balzo, s’arrampicò sull’alta e nera torre; poi, aggrappandosi mani e piedi alla sommità, con le gonfie, rosse e tese gote, cominciò a soffiare… Aveva occhi tondi, lucidi, strabuzzati… Soffiava: e, dall’immensa pianura, s’innalzavano vortici, sbuffi di fumo.
Gli alberi, squassati dal vento, volavano via da ogni parte. Gli omini, scagliati a grandi altezze, strepitavano. Il mostro (buffo, rotondo, calvo, pauroso) continuava intanto a soffiare. E tutto - le nubi, gli alberi, gli omini, i cavalli, le spade - veniva disperso, sparpagliato. Il mostro, guardandosi attorno, esultava. E, a ogni istante, dalle sue gote, fuoriusciva vento.
Le grida, adesso, erano sempre più stridule, e più fioche. Gli omini morivano, l’uno dopo l’altro.
- Ho pau… a, - disse lui, guardando suo padre. E, intanto, gli si stringeva addosso.
La sala, fredda e buia, era piena di frastuono.
Oltre a loro, non c’era nessuno.
Di nuovo, da qualche parte, una finestra crepitò, e sbatté.
- Strano, - disse suo padre. - Eppure, prima, non c’era vento… Su, non avere paura.
E, con l’ampia e calda mano, gli coprì gli occhi e la fronte. Ma lui, tra un dito e l’altro, vedeva ugualmente.
Ora, piangevano tutti: difensori, assedianti, donne, vecchi, bambini… Piangevano, e invocavano aiuto. E, dalla torre più alta, massiccia e appuntita del castello, il mostro, abbarbicato, iroso e furente, eruttava il vento… Con le lucide, enormi e tese gote, continuava, imperterrito, a soffiare; e non si fermava… Gli occhi, sporgenti, tondi e cattivi, godevano della sottostante distruzione.
- Ma… Sono cartoni animati, - fece il padre, rammaricato: poiché, tra le braccia, sentiva il figlio tremare. - Non piangere. Vieni, ti porto via…
E, sollevandolo, lo mise a terra. Quasi lo trascinò.
Dalle scale, ora, veniva un’aria fredda, insistente, ostile.
Il padre, tenendolo per mano, lo portò nell’androne.
- Aveva ragione, - disse, rivolgendosi al padrone: che, dietro i tendaggi, sembrava attenderli. - Grazie lo stesso…
Il padrone, osservandoli, non disse nulla.
Raggiunsero la porta. E, varcandola, si ritrovarono in strada.
Era freddo.
Padre e figlio, rinfrancati, si allontanarono dall’ampio, sfatto riflesso delle insegne al neon del cinema.
Le insegne, dietro a loro, occhieggiarono a lungo nel buio.
Poco dopo, s’inoltrarono nel largo e grigio stradone che, fiancheggiato dagli alberi, li riportava a casa.
Le auto, sopraggiungendo silenziose alle loro spalle, li sfioravano.
- È un vento freddo, effettivamente… - disse suo padre. E, rallentando, si alzò il bavero del cappotto.
- Ma tu, - disse, - tremi. E non è per il freddo…
Perché,
si stava chiedendo, " lui mi guarda? Perché è così gonfio, così cattivo?"
Il mostro, sull’enorme, nera torre, aveva occhi rotondi, lucidi, sporgenti. E, quando soffiava, le pupille, roteando, quasi sparivano nelle orbite. Degli occhi, restava solo il bianco, convesso, traslucido… Miriadi di omini, con i loro elmi, le loro armature e le loro picche, trascinati dal vento, cozzavano continuamente contro le rocce. E le gambe, le braccia, le teste, sradicate dai corpi, si disperdevano sull’erba… Morivano, a uno a uno.
Le foglie, cacciate dalla tramontana, scorrevano a sciami sul marciapiede. Loro, camminando, le calpestavano: ma le foglie, secche e bucherellate, fuggivano via.
Il viale, man mano che avanzavano, era sempre più vacuo e più buio. E, da qualche minuto, le auto si diradavano. Lassù, sulle loro teste, si accendevano le luci delle finestre; e, nel cielo, d’un cupo azzurro, dilagava la notte. Nubi enormi, grige e sporche, si rincorrevano senza sosta a grandi altezze; e, qua e là, riemergevano squarci di sereno. Non si vedevano stelle.
- Sali, su… - gli disse il padre.
E, accucciandosi, se lo assestò con cura sulle spalle. Poi, si raddrizzò.
Lui, sbalzato verso l’alto, tremò, ed ebbe paura di cadere.
I rifiuti, battuti dal vento, si disfacevano sul marciapiede. Erano ossa, denti d’animali… Lui, piegando in avanti la testolina, chiuse gli occhi.
Poggiava la guancia sulla grande, calda nuca del padre; e aveva sonno.
- Ih, guarda, è la torre di Babele! - gridò d’un tratto qualcuno.
Lui, allora, aprì gli occhi; e tremò.
Un uomo - alto, magro, curvo, con pochi e grigi capelli spettinati sulla nuca -, avvolto in uno scuro, lungo cappotto, scappò via saltellando. Poi, all’improvviso, entrò in un portone. E, mentre spariva, il portone, richiudendosi di colpo dietro di lui, mandò un tonfo.
- Non farci caso, - disse suo padre. - È il matto…
Gli alberi, tutt’intorno, frusciavano.
Il vento, rombando, continuava ancora a inseguirli. Era, sempre più, un vento teso, diaccio… Le orecchie, scottate dal gelo, dolevano.
Non riusciva a parlare, adesso. Ed era stanco.
Il piccolo, accogliente cappuccio del Montgomery, d’un tratto, gli coprì la testa e le orecchie.
- Oh, - fece suo padre.
Si fermò.
Davanti a loro, immobile, stava un uomo. Era piccolo, grasso, buffo, calvo. Aveva la mascella enorme, prominente; e le guance erano lucide, gonfie…
- Buonasera, eccellenza… - mormorò suo padre, imbarazzato.
- Lo facciamo divertire, eh, il bimbino? - disse l’uomo. E, avvicinandosi, protese la corta, grassoccia mano verso di lui. Ma, poiché lui, di fronte a quelle dita, si ritraeva, non riusciva a toccarlo, a carezzarlo…
- Sia puntuale, domani, in ufficio, eh? - disse l’uomo, rabbuiato. E, voltandosi, si allontanò.
In cielo, all’improvviso, apparve un oggetto.
Era altissimo, remoto.
- O…a, - fece lui.
- No, non è l’orologio, - disse suo padre. - È qualcos’altro…
E s’affrettò.
Lui, impaurito, si strinse ancor più a suo padre.
Il padre, fermandosi, si piegò.
Lui, quasi scivolando sulla sua schiena, fu a terra. Ma quella cosa, dal cielo, continuava sempre a fissarlo…
- O…stro.
- No, non è il mostro, - disse suo padre. - Ecco: vediamo se l’indovini, che cos’è.
Lassù, tra gli alberi, in un piccolo, nero squarcio di cielo, si vedeva qualcosa: un rosso, lucido, gonfio oggetto - che, stranamente, sembrava seguirli.
È il mostro; è lui che soffia,
pensò. E rabbrividì.
Sì: era qualcosa di rosso, lucido, gonfio, altissimo. E, mentre loro, di nuovo, si muovevano nel nero viale, continuava a seguirli, e a soffiare…
- È un pallone aerostatico, - disse suo padre. - Di quelli che, per la festa del patrono, si lanciano dal convento… Guarda! Vedi, lì, quella fiammella? È il gas che, riscaldandosi, lo alza, che lo tiene sospeso… Non avere paura.
Il vento, adesso, rinforzava; e, di lassù, quell’oggetto (rosso, remoto, sospeso) li seguiva, avanzando a strappi tra il fogliame.
Lui, con una smorfia, volse la testa. Poi, chiuse gli occhi.
Quando, alla fine, li riaprì, coriandoli, stelle filanti e sabbia gli si cacciarono, a folate, contro il faccino e sui capelli… Dovunque, intorno a loro, s’innalzavano le alte, scure case del quartiere, con le grandi finestre illuminate.
Lui, all’improvviso, sentì un bisogno di caldo, di tepore… Ma, quando guardò di nuovo su di sé, tornò la paura.
- Sì, sembra davvero che ci segua… - disse suo padre, perplesso.
Il vento, da un po’, soffiava tacito, lieve. E, di quando in quando, affioravano lunghi, stanchi squarci di silenzio.
Nell’oscurità, quasi inciamparono su un grosso, duro e sporco mucchio di neve: che, celato tra le foglie, sbarrava loro il cammino.
I viali alberati cessarono. E, presto, entrarono nella lunga, bianca spianata che li portava fino a casa.
Erano arrivati.
Entrambi, prima d’infilarsi nell’androne, diedero un ultimo, rapido sguardo al cielo. Ma, lassù, la cosa rossa non c’era.
- Sei contento? - disse il padre. E, sollevandogli il mento con le dita, sorrise.
Fece sì con la testa. Ma, adesso, era stanco, infreddolito. Inoltre, un vago, oscuro malessere lo pervadeva… Stava male. E, ora, aveva desiderio di vomitare.
Salì le scale. Ma, all’ultima rampa, gli dolevano le gambe; e, a ogni gradino, piegava a fatica le ginocchia.
- Eccoci qua, - disse suo padre. E aprì la porta.
Davanti a lui, c’era la moglie.
Li guardò. Ma, allora, non furono segni di gioia, quelli che diede.
- C’è la mamma, di là… - disse. E, con la testa, accennò a una porta nel corridoio.
- Ah… - fece il marito. - Ma… Non doveva venire domani, tua madre?
- Sì.
La moglie, allontanandosi, si strinse nelle spalle. E, fermandosi per un istante, si allacciò la cintura della vestaglia.
- L’ho messa a letto… - disse. - Ha già mangiato.
- Ah! Va bene… C’è qualcosa, per noi? Lui, - e guardò il figlio, - è stanco; forse, sta male. E ha paura… Eh, s’è preso un bello spavento, al cinema…
- Te l’avevo detto, io, di non portarcelo!
- Ormai, è fatta… Dagli da mangiare.
- È già pronto.
Sul tavolo, c’era una grande tazza di latte caldo, con dei biscotti. Lui, però, non toccò nulla.
Rimase solo, sulla sedia.
La cucina, con le sue bianche, spoglie pareti, era triste. La porta a vetri, inoltre, per quanto chiusa, era scossa dal vento; continuava a vibrare. Il vento, a un certo punto, ne premé le ante con più forza - e, per un attimo, fu sul punto d’entrare…
Nell’altra stanza, quando il frastuono cessava, s’udivano i genitori… Confabulavano. Le loro voci, però, erano troppo basse… Sì, avevano paura anche loro…Perché la cosa, ancora adesso, era lì: lo sentiva. Era lì, sospesa sul terrazzone… Prima o poi, attraverso la cappa del camino, avrebbe urlato, e avrebbe soffiato là dentro…
D’improvviso, oltre la vetrata, si videro lampi, fulmini. Poi, si sentirono i tuoni. Il vento, fischiando, scuoteva la casa, l’avvolgeva tutta.
Entrò la madre.
- Non mangi? Non hai appetito?
La luce, dopo un tuono più forte, scomparve. Una pentola, smuovendo il coperchio, bolliva. I fornelli, con le piccole, tenui fiammelle, rischiaravano, essi soli, l’ambiente.
Urlarono.
Qualcosa, nel buio, cadde intorno a loro…
- Guarda! - fece sua madre mentre, in casa, tornava la luce. - È il vento, che le ha portate…
Sul pavimento, dovunque guardasse, c’erano caramelle.
- Oh… - disse sua madre, delusa: poiché, invece di raccoglierle, restava immobile.
- E va bene… - Sbuffò. - A letto! È ora.
Ma, dopo averlo spogliato e rivestito del pigiamino, disse: - La nonna è di là. Vuole vederti… Andiamo.
E, prendendolo per mano, lo portò con sé.
Uscirono nel corridoio, e si diressero verso la porta.
Proprio allora, sopra di loro, si sentì un tonfo.
- Spezza i camini, sembra… - disse la madre.
Come tacque, andò via la luce.
Lui, piangendo, s’impuntò.
La madre, allora, lo strinse a sé: alla vestaglia, alle gambe…
Ricomparve la luce.
Quando, bussando piano, aprirono la porta, la nonna, per il gran trambusto, non se ne accorse.
- In principio, - leggeva, - Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era informe e vuota. V’erano tenebre sopra l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulla distesa delle acque.
Sedeva, nella poltrona accanto al letto, con un plaid sulle gambe. E, alla luce d’un piccolo, rosso abat-jour, continuava a leggere ad alta voce.
- Sì, aleggiava… Proprio come fanno gli uccelli, quando planano…
D’un tratto, s’avvide di loro.
- Oh, il mio piccolo nipotino!
E, tendendo verso di lui le lunghe, scarne braccia, cercò di stringerlo, di carezzarlo. Lui, però, non volle.
- Ha paura, mamma…Non sta bene… È il vento.
- Ah! - mormorò lei.
E, impermalita, fece cenno che la lasciassero, che se ne andassero.
La madre, chiusa adagio la porta, lo accompagnò nella sua stanza. Poi, s’accinse a lasciarlo. Lui, però, mentre s’infilava nel letto, ruppe in lacrime. Sentiva freddo, e nausea. Inoltre, aveva paura.
Dalle lunghe, sottili commessure della serranda, filtrava adesso una luce strana, palpitante. Una luce rossa, densa… La luce del globo! Sì: il globo era lì, a pochi passi da lui; e, continuando a gemere e a soffiare, non gli dava pace…
- Non mi lascia…e.
Ed ecco: accanto alla madre, era comparso il padre.
Guardò la moglie, poi il figlio.
- Ha troppa paura… - disse. - Portiamolo di là, nel nostro letto, e non se ne parli più.
I genitori, sollevandolo, lo condussero nella camera matrimoniale.
Là dentro, c’era più caldo. Il letto, però, era grande, e ancora freddo… Il lampadario - ramificato, vivido, brillante - si rifletteva, in tutto il suo fulgore, sul vetro della finestra. Lui, assorto, lo contemplava. Ed ecco che, da quel viluppo di luce, si staccò qualcosa: un che di rosso, minuto - appena un puntolino -; che, lentamente, s’allontanava a strappi…
I genitori, tornando nella stanza, abbassarono la serranda, e si coricarono.
Ora, nella stanza, tutto era silenzio, oscurità… Pian piano, i grandi e avvolgenti corpi dei genitori lo scaldarono, lo confortarono. E, nel buio, i capelli e il respiro della madre gli lambirono il viso. - Dorme, - disse sua madre china su di lui.
Il nonno
La madre, aprendogli il Montgomery, lo aiutò a indossarlo. Con dita lunghe, magre e affusolate, gl’infilò i fermagli d’osso nei laccioli. Poi, gli ravviò i folti, fini, ariosi capelli sulla fronte, e lo spinse in strada.
- Su, va’… - disse.
Lui, mentre la porta si richiudeva, scese in fretta le scale.
Il cortile, invaso dall’ombra, gli parve ancora più angusto e più buio. Alte case, arrossate dal sole al tramonto, lo circondavano.
Il cielo, d’un azzurro limpido e profondo, si stava oscurando. Era freddo.
Il camion, stipato di grossi mobili e suppellettili, s’avviò lentamente sulla discesa. E, mentre il padre, venendogli incontro, lo prendeva per mano, scomparve lungo la strada.
- Traslochiamo, - disse suo padre. - Ma tra poco, se Dio vuole, sarà finita. E, stanotte, dormirai nella tua nuova casa.
Il padre, traendogli il caldo cappuccio del Montgomery sulla testa, appariva perplesso.
- Ecco, vedi? Siamo già a due gradi sotto zero. E la notte, - mormorò, - è ancora lunga…
Lui, con le sue piccole e magre gambe, faticava a stargli dietro. Un lembo del grigio, pesante cappotto del padre gli sbatteva, di tanto in tanto, sul viso.
- Ecco… Siamo arrivati.
Dopo un istante, si ritrovò in una lunga, stretta stanza, in fondo a ripidi gradini.
- Su, - disse suo padre, - tenetelo con voi per un po’ . E, mi raccomando, non fatelo annoiare… Traslocare, sapete, è un impazzimento…
Salutò, e scomparve.
Qualcuno, dopo averlo sollevato, lo fece sedere sulle ginocchia.
Il pavimento, cosparso di segatura e di cartacce, era sudicio. Le pareti, tutt’intorno, erano sporche e screpolate. Gli armadietti, con le piccole ante a vetri, contenevano dei fucili. In alto, c’erano delle mensole: e, sopra, v’erano degli uccelli appollaiati. Le loro ali, folte di penne, erano ampie e tese. E i loro becchi, adunchi e affilati, si protendevano nel vuoto.
I loro occhi, piccoli e cattivi, non si staccavano mai da lui.
Un uccello, dal lungo e teso collo, incombeva sulla sua testa. Ed era come se, prima o poi, dovesse piombare su di lui.
Spaventato, chiuse gli occhi. Poi, s’irrigidì: s’aspettava di sentire, da un momento all’altro, gli artigli di quell’uccello conficcarsi, aguzzi e crudeli, nella sua carne.
La stanza, lunga e soffocante, era occupata da un grosso tavolo. Vi sedevano dei vecchi. Giocavano a carte; confabulavano. Le carte, prima di finire sul ripiano, frusciavano e schioccavano. Dalle gole, flosce e grinzose, dei vecchi, venivano suoni strani, mugugni.
Il soffitto, qua e là, era chiazzato di nero. I vecchi, grandi ed eretti, vestivano giacche verdi, slacciate, e spessi pantaloni di velluto. Calzavano stivali, e fumavano. E, dopo aver maneggiato le carte, le gettavano, con gesti rapidi e minacciosi, sul panno verde del tavolo. Intanto, le urla, i rimbrotti e le imprecazioni si susseguivano.
Ma, all’improvviso, si fece silenzio. Il fumo, sempre più denso e più acre, riempiva i polmoni.
L’uomo che, da quand’era lì, lo teneva sulle ginocchia, gli chiuse gli occhi.
- Ecco, - disse. - C’è qui il nonno. Indovina qual è… - E, mentre parlava, gli premeva le dita sui bulbi. - Se non lo indovini, - aggiunse, - ci pensa lui, il falco, a punirti…
E, togliendogli le dita dagli occhi, lo scosse.
I vecchi, posando le mani, larghe e nodose, sulle ginocchia, divaricarono le gambe. Erano - gli parve - l’uno uguale all’altro. I loro occhi, malvagi e acquosi, e i bianchi e folti baffi, lo intimidivano.
I rapaci, abbarbicati sulle alte, pencolanti mensole alle pareti, s’erano voltati verso di lui.
- È quello, il nonno? Dillo, su…
Lui, chiudendo gli occhi, fece sì con la testa.
Un che di duro, di aguzzo, lo colpì allora alla nuca. E lui, sentendosi pungere, pianse.
- Eh, per uno schiaffetto… - disse una voce, stranamente lontana, al di là del fumo. - Che pianto è mai questo? Dunque, non riconosci neppure il tuo nonno?
- È stato lui… Sì, lui!
Delle mani, alzandosi tutte insieme, additarono un falco.
Lui, con i piccoli occhi che bruciavano, pianse più forte. Qualcuno, in un angolo, rise.
- Basta, - disse una voce; - lasciatelo stare… Quanti anni hai?
Lui, aprendo lentamente la manina, piegò il pollice, poi lo distese.
- Quattro, cinque?
Di nuovo, stese le dita.
- Cinque. Quattro e mezzo, chissà…
Gli mancava l’aria; e, quasi, non respirava.
Si sentì sollevare. Poi, di colpo, si ritrovò sulle gambe d’un altro vecchio.
- Suo padre, - disse qualcuno, - tarda. Eppure, dovrebbe essere già qui… È tutto buio.
Attraverso una finestrella, si scorgeva il cielo, scuro, e profondo.
Ancora una volta, chiuse gli occhi.
Di nuovo, gli parve di sentire, sull’esile collo nudo, penne, becchi, piccoli artigli aguzzi. Piagnucolò. La nuca, arrossata, gli doleva. E, ormai, non riusciva più a respirare.
Le braccia, invece d’allentarsi, lo serravano con più forza.
L’aria, densa di fumo e calda, risuonava di grida, di risa, d’imprecazioni. Gli uccelli, appena sotto il buio, sporco soffitto, erano inquieti; e, a tratti, spalancavano le ali. Poi, tutto si confuse…
Lo scossero.
La porticina, in cima alle scale, s’era aperta. E, nel riquadro, era comparso suo padre.
- Riprenditelo, tuo figlio. È stato buono… Questo, però, non è un posto per lui… Gli uccelli, vedi, lo spaventano.
Lui, poco dopo, si ritrovò in strada.
Dita agili, veloci, gli alzarono il bavero del Montgomery. Poi, gli avvolsero una sciarpa intorno al collo.
- Vedi? - disse suo padre. - Si sta annuvolando… Mi pare, anzi, di sentire già qualche fiocco. E la casa, nonostante tutti gli sforzi, non è ancora pronta… Chissà se, per questa notte, ce la faremo, a dormirci… Intanto, ti lascio da Mara.
Davanti a loro, al di là della strada, c’era un grande condominio.
Il padre, dando un’occhiata al campanello, suonò.
Dopo un istante, s’aprì il portone. E, subito dopo, l’androne e le scale si rischiararono.
Salirono, ed entrarono in casa.
Lui, sulle prime, sentì odore di muffa, di freddo. Ma, poi, il profumo tiepido e morbido d’un dolce (era la torta Margherita) gli riempì le narici.
- Non mi dai un bacio, tu? - gli disse Mara.
La donna, spalancata la porta, s’era chinata su di lui. E, premendogli la tenera nuca con la mano, gli spingeva il visino, pallido e freddo, contro la guancia e la bocca. Le sue labbra, però, non si dischiusero.
- Sei scontroso, - disse la donna. E, alzandosi, mandò un mugolio. - Tutti lo sono, con me…
Quindi, scomparve. E anche suo padre s’allontanò.
Lui, allora, restò solo nell’ingresso.
Mara, come diceva suo padre, aveva occhi da pesce morto
; ed era alta. Il suo viso, visto di profilo, ricordava la luna crescente, nel cielo della sera. I suoi capelli, lunghi e neri, s’inarcavano sulla fronte. E, così alti, erano come un’onda che, da un momento all’altro, dovesse sfasciarsi sulla spiaggia.
Lo strinse a sé; e, con ambedue le mani, lo sistemò su un seggiolone.
- Io, sai, l’avevo comprato per il mio bambino, - disse. - Ma, un bambino, non l’ho mai avuto… È per questo, dicono, che sono matta. Perché non ho figli… Mio marito, tanto tempo fa, m’ha lasciata…
Entrò in cucina. E, girando le manopole, accese il forno.
- Se ti tengo qui, - disse, - lo faccio soltanto per tuo padre. Ricordalo! Non certo per tua madre… Lei, lo sanno tutti, mi detesta.
Quasi pianse.
Poi, cominciò a cantare.
- Sono senza figli, è vero… Il pianoforte, però, lo so suonare.
Uscì dalla cucina. E, entrando nel salone, accese il lampadario.
Subito dopo, sedendo al piano, suonò.
- Non muoverti! - urlò. - Romperesti tutti i miei cristalli!
E, mentre le sue dita, lunghe e ritorte, vi scorrevano, s’abbandonava, con tutto il corpo, sulla tastiera.
Lui, portandosi le mani alle orecchie, gemette.
Aveva fame. Pensava al pane, imbottito di grandi e rosse fette di prosciutto. Inoltre, aveva nostalgia della sua casa, e di sua madre.
Mara, intanto, suonava e cantava.
S’interruppe.
- Hai fatto merenda? - gli chiese.
Non le rispose. Ma, in cuor suo, sperava che lei lo sfamasse.
D’un tratto, squillò il telefono.
Mara, precipitandosi alla mensola, rispose.
- Mia madre sta male! - urlò. - S’è aggravata! Debbo correre in ospedale!… Oh, Dio! Speriamo che non sia tardi…
E, piangendo, vagava qua e là per la casa, torcendosi le mani.
Tornò da lui.
- Vieni! - disse. - Ti porto dalle cuginette… Sono vicine.
Spense tutte le luci. Poi, trascinandolo con sé, cominciò a scendere le scale.
Attraversata la strada, nella casa di fronte, trovarono aperto il portone.
Entrarono. E, arrancando, arrivarono al quarto piano.
Mara, invece di suonare, bussò adagio.
Dopo qualche istante, la porta si dischiuse.
- Eccovi vostro cugino! - disse Mara. - Dov’è, la mamma? Dov’è? Non è in casa?… E perché, allora, avete aperto? Svergognate!
Le cuginette, che s’erano fermate davanti a lei, fuggirono.
- Dove andate? - urlò Mara; e le rincorse. - Dovete tenerlo con voi! È vostro cugino! È solo! I suoi, stasera, traslocano, e l’hanno affidato a me… Ma io, ora, non posso, non posso più… Mia madre sta male! - urlò. - Addio!
Le cuginette (una, la più alta, era bionda, l’altra bruna) lo circondarono. Avevano, rispettivamente, nove e dieci anni. La cugina bionda, con uno sguardo assorto e cattivo, lo rimirava. L’altra, che s’era allontanata di qualche passo, lo fissava - e, chissà perché, pareva rimproverarlo di qualche cosa. Il suo occhio, languido e distaccato, non si distoglieva da lui.
Lui, a un tratto, volle tirarle i capelli. E lo fece.
Lei gridò.
La cuginetta bionda, allora, lo prese per un braccio, e lo strattonò.
- Dì qualcosa con la erre, su…
- Sì, con la erre! Ha la erre moscia, - ammise l’altra.
Gli s’avvicinarono.
- Parla! - gridarono.
E, visto che non parlava, lo schiaffeggiarono.
Lui, con la guancia arrossata, bruciante, cominciò a gridare.
Le cuginette, gettandolo a terra, lo schiacciarono contro il duro, freddo marmo del pavimento.
- Così, - dissero, - impari a gridare.
Comprimendogli, con le loro fronti, il naso e la bocca, gl’impedivano di respirare.
- Vieni! - dissero infine, sollevandolo.
E, dopo averlo scagliato a forza dentro il salone, chiusero a chiave la porta.
Il tappeto, folto e morbido, attutì l’impatto delle sue membra contro il pavimento.
Le cuginette, sebbene piangesse, non aprirono.
Il salone, intorno a lui, era scuro. In un angolo, però, c’era qualcosa di familiare: un albero di Natale. Le sue lucine, spegnendosi e riaccendendosi tra i festoni, respingevano il buio; e, riflettendosi sui mobili, sui grandi specchi e sui cristalli, comunicavano un senso d’intimità.
Trascinata in mezzo alla stanza una seggiola, vi sedette.
Gli era passata la fame. Ma, adesso, aveva sonno.
D’un tratto, si lasciò scivolare dalla sedia. E, muovendosi pian piano nel salone, s’accostò ai finestroni.
C’era la luna. Era tonda, verde. E anche le nuvole, intorno, erano verdi.
Un’enorme, luminosa cometa posava, in lontananza, sopra la torre dei pompieri.
Elah diceva, accendendosi e spegnendosi continuamente, una grande insegna al neon, sui tetti.
- Sei vivo? - fecero, al di là della porta, le cuginette - Non rispondi?… Sei diventato buono, allora… Parla! Su, facci sentire la tua erre: e noi, in cambio, ti daremo il marzapane…
Risero.
Poi, non ci fu più nulla: soltanto buio, silenzio… E quel cielo: tutto verde. E le lucine - che, adesso, sembravano nascere dal silenzio e, insieme, avere bisogno di quiete, di solitudine, per continuare a risplendere…
A poco a poco, senza rendersene conto, s’addormentò…
Quando si svegliò, le cuginette, ai lati della sedia, erano chine su di lui. E, con aria strana e misteriosa, gli sussurravano qualcosa.
- Vieni… - dicevano. - Vieni… Vedrai il nonno! È di là, che ti aspetta!
E, asciugandogli gli occhi con un fazzoletto, lo carezzarono.
Poi, la cuginetta bruna lo baciò.
Gli allacciarono il Montgomery. Quindi, prendendolo ciascuna per una mano, lo fecero uscire dal salone. Percorsero un lungo, alto corridoio: e, sempre senza parlare, voltarono a destra. Dentro le stanze (quasi tutte le porte erano aperte), si vedevano lampadari, specchiere, grandi mobili, rossi abat-jour…
Le cuginette, fermandolo, gli misero le dita sugli occhi. E, mentre il loro caldo fiato lo lambiva, lo fecero girare su se stesso.
Lo sospinsero in avanti; e, all’improvviso, lo sballottarono.
- Tu, - dissero, - non devi conoscere la strada. La strada per arrivare al nonno, - mormorarono, - è un segreto…
Lo abbracciarono. Poi, premendogli le dita sugli occhi, lo fecero urlare.
Infine, arretrarono di qualche passo.
Era tutto buio.
Lui, immerso nel silenzio, sentiva il breve, frettoloso respiro delle cuginette; il loro calore…
Poi, s’accese nella stanza una gran luce.
- Il nonno… - dissero, ritirandosi in fretta, le cuginette.
E lui, rimasto solo, lo vide. Era laggiù, in fondo alla stanza: una lunga e stretta stanza, color verde oliva, con un grande, massicciotavolo di legno.
Il nonno, seduto a capotavola, indossava una larga, bianca camicia sbottonata, e pantaloni grigi.
Si mosse sulla sedia. Si pose le mani, larghe e nodose, sulle ginocchia, e divaricò le gambe. Aveva baffi e capelli bianchi, lisci. Ed era, gli parve, ancora più alto e imponente dei vecchi che, nella buia e stretta stanza sotterranea, mentre il padre era assente, lo circondavano.
- Eh… - sospirò il nonno.
E, mentre parlava, spalancò le braccia.
- Vieni…
La luce, piovendo netta dall’alto, aveva fatto, dei suoi occhi, due macchie, due chiazze d’ombra. E quell’ombra, man mano che il vecchio, alzatosi dalla sedia, si muoveva verso di lui, gli faceva paura.
Alle sue spalle, attraverso una porticina, erano comparse di nuovo le cuginette.
- Non vai dal nonno? - dissero.
E, strattonandolo, lo spinsero verso l’uomo.
Lui, vacillando, fece appena qualche passo, e si fermò. Il nonno, in piedi, continuava a fissarlo. Lui, allora, si guardò intorno, spaventato.
Il nonno, con le braccia aperte, sollevate, continuava a muoversi, a venirgli incontro. Ma era lui che, senza rendersene conto, avanzava verso il nonno.
- Eh… - sospirò il nonno. E, con le dure, forti braccia, lo strinse. Poi, con le grandi e ruvide mani, gli prese il viso, e lo baciò. La sua barba, ispida e rada, lo punse. Ed ecco: fu come se, da quella stanza, buia, piena di fumo e di rimbrotti in cui, lasciato dal padre, era stato trattenuto dai vecchi, il falco, con il suo grosso, adunco rostro, fosse volato fino a lui, e l’avesse ferito.
Urlò.
Mentre lui, sempre urlando, fuggiva, il vecchio, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, sospirò. Poi, tornò a sedere
Lui fuggì. Batté il viso contro la porta, e cadde.
Pianse.
L’afferrarono, e lo rialzarono dal pavimento.
Suo padre, entrando all’improvviso nel vestibolo, l’aveva visto.
Imprecò.
Lo prese per mano, e lo portò via.
Poco dopo, nell’androne del condominio, gli s’avventò contro un grosso cane. Lo annusò. Poi, mugolando, strisciò il suo lungo, caldo e ruvido pelo contro di lui.
- È buono, - disse suo padre. - Non ti fa nulla.
E, vedendo l’amico, lo salutò.
- È stata buona, la caccia?
L’altro, accigliato, aprì il carniere, e gli mostrò due fagiani. Quindi, spinse il cancelletto. E il cane, infilandosi svelto nella cuccia, vi s’acciambellò.
Era freddo.
Il cielo, adesso, era coperto; e nevischiava.
Da ogni parte, sui terrazzi, alle finestre e nei giardini, rilucevano gli alberi di Natale.
I suoi, dopo averlo infilato nell’abitacolo della Cinquecento, chiusero lo sportello. E lui, sul sedile posteriore, tra una curva e l’altra, placava pian piano il proprio pianto.
Fu un viaggio accidentato, ma breve.
Nella sua nuova casa, sulla collina, circolava un odore d’intonaco fresco e di legname.
Non volle cenare.
I genitori, dopo averlo spogliato, lo misero a letto.
Dalla sua stanza, sentiva il padre e la madre che, al di là della parete, conversavano.
Le lenzuola, rigide e fredde, profumavano di fresco, di bucato.
I suoi, nella fretta, non gli avevano acceso il lumino. E lui, nel letto, si strinse tutto al suo orsacchiotto: ch’era molle, spelacchiato, e sapeva di chiuso. Lui, però, gli voleva bene; e, accostando le labbra al suo orecchio, gli disse qualcosa. Poi, riscaldato dal tepore che, abbracciandolo, lui stesso gli cedeva, s’addormentò.
La basilica
Scesero in fretta le scale, e uscirono dal portone. Attraversarono la strada, e s’accostarono all’auto. Una lampada con la cappa, sospesa tra le case, rischiarava la Seicento.
Corrado, sollevando il figlioletto, lo sistemò sul sedile posteriore. Poi, si mise al volante. Lorenzo, il grosso amico di famiglia, prese posto accanto a lui.
Corrado, girando lentamente la manopola, abbassò il finestrino.
Guardò la moglie.
- A che ora tornerete? - le chiese. - Noi, il tempo d’arrivare, di rifornirci di salsicce, e rientreremo.
- Ci rivedremo, penso, tra un paio d’ore. Non prima…
E, presa la moglie di Lorenzo sottobraccio, s’allontanò con lei.
Le due donne, per un istante, si voltarono. I loro visi, affioranti dagli scuri, spessi baveri di pelliccia dei cappotti, erano lieti, infreddoliti.
Corrado, tirando su il finestrino, girò la chiavetta dell’accensione.
Il motore, però, calò subito di giri. Quindi, si spense.
- Accidenti…
- Che vuoi farci? - disse Lorenzo. - Queste, purtroppo, sono vecchie auto… Noi, però, riusciremo ugualmente a partire, e a portarci a casa le salsicce… Lo sai? Sarà il freddo, sarà l’appetito che mi mette: ma, le salsicce, mi sembra già di gustarle… Con la scorza d’arancia e i pinoli, mandano un profumo meraviglioso… Il fegato, però, dev’essere appena bruciacchiato… Piacciono, a tuo figlio, le salsicce nere?
S’apprese alla maniglia. E, con un breve, leggero ansito, si volse verso il bambino.
Gabriele, dal suo angolo, guardava il volto dell’uomo. Era floscio, un po’allungato; e, chissà perché, pareva oscillare nella penombra. I capelli, dritti e biondastri, erano folti.
L’uomo, sospirando, si rigirò.
- È timido, tuo figlio…
- Non ero così, io, alla sua età. Io, allora, ero vivacissimo… Poi, mi sono calmato.
- Meno male.
L’auto, uscita rapidamente dalla città, arrancava sulla salita.
La strada, tra curve, dossi e lunghi rettilinei, s’inerpicava verso il colle.
Lassù, nell’oscurità, già s’intravedeva la basilica: la sua sagoma, la sua grande ombra.
Lorenzo, che si teneva sempre alla maniglia, sbuffò.
- In ufficio, - mormorò, - si lavora troppo. Scartoffie, solo scartoffie…
- Di che ti lamenti? - fece Corrado. - In fondo, nella vita, poteva anche andarti peggio… Da noi, almeno, lo stipendio è sicuro… E poi, stamani, abbiamo preso la tredicesima. E, tra pochi giorni, è Natale.
- Sì…
Costeggiarono un piccolo, vecchio bar ancora aperto, e furono di nuovo nel buio.
- Le salsicce, - chiese Lorenzo, - con che le accompagneresti? Con la polenta, o con la verza…? Oppure, ci metteresti accanto una patata?
- Sei tremendo, tu, - disse Corrado. - Parlarmi così, a quest’ora… La verità è che, in cucina, quando c’è la brace, c’è tutto. Il resto, secondo me, non conta.
- Sì. Sono d’accordo con te…
Le voci, adesso, giungevano vaghe, attutite, a Gabriele. Guardava fuori del finestrino. Non s’intravedevano stelle, in cielo. I casolari, i lumi. erano rari. La campagna, adesso, scorreva nera e veloce attorno all’auto.
Era freddo. L’aria, però, nell’abitacolo, s’era ormai riscaldata.
Gabriele, cingendosi con tutt’e due le mani le ginocchia, chiuse gli occhi.
L’auto, risalendo decisa lungo la china, continuava intanto a sobbalzare.
I grandi, parlando a voce alta, ridevano…
Fu la forte, grassa mano di Lorenzo a scuoterlo, e a svegliarlo.
Scesero dall’auto.
- Vieni, su… Non l’hai mai visto, quest’antro?
Il bambino, aspettando il padre, guardò. Un’enorme parete, un po’inclinata e che, per gran parte, nascondeva il cielo, gli s’ergeva davanti.
- È la basilica, - disse Lorenzo.
Il padre, prendendo per mano il figlioletto, l’accompagnò alla porta della bottega. Lorenzo, con le mani intrecciate dietro la schiena, li seguiva.
Bussarono.
Gabriele, appena la porta s’aprì, si ritrovò in un’alta, larga e cupa grotta. In fondo, dietro il bancone, stava un uomo. Era giovane, alto, con un camice bianco; e aveva capelli, barba e baffi nerissimi.
Più oltre, accanto a una bilancia, c’era un vecchio. Era piccolo, grassoccio. I suoi capelli, completamente bianchi, erano dritti sulla fronte. Aveva un’aria mezzo seccata, rammaricata.
La sua smorfia, tuttavia, come vide Corrado, si mutò in un chiuso, rapido sorriso.
- Buonasera, dottore… - disse. - Finalmente, s’è degnato…
- È lui, - disse Corrado, indicando Lorenzo, - che ha tanto insistito per venire…
Il vecchio, che s’era voltato, maneggiava, con gesti rapidi e precisi, lunghe filze di salsicce, lucide e nere, appese ai ganci.
Il giovane, intanto, stava affilando un coltello.
Il vecchio, incartate un paio di filze di salsicce, spalancò la piccola, massiccia porta metallica che, in fondo alla grotta, immetteva nella ghiacciaia. E la varcò.
Poco dopo, ne uscì. Sul palmo di una mano, teneva un grosso blocco di carne. Lo gettò, roseo e oscillante, sul marmo del bancone; e, con un lungo coltello, cominciò a tagliarlo.
- Ah, le costine di maiale… - mormorò Lorenzo. - Per accompagnarle, secondo me, non c’è niente di meglio della polenta… polenta calda…
- Già, la polenta con le spuntature… - disse il vecchio. - È una vera squisitezza.
Corrado, come questi avvolse la carne nella carta, mise mano al portafogli.
- No, - disse il vecchio, trattenendogli il polso. Poi, guardandolo con aria, a un tempo, complice e sommessa, s’allontanò.
Quando ricomparve, portava due grandi, verdi damigiane, piene d’olio e di vino. Le posò a terra. Quindi, piegandosi sotto il bancone, ne cavò un grosso pane, e glielo mostrò.
- Questo, - disse, - è cotto con il forno a legna…
Incartò anche quello.
Facendo la spola con l’auto, vi sistemò le damigiane, la carne, le salsicce, e il pane.
- Il bambino, - disse, dopo un attimo d’esitazione, - c’entrerà senz’altro…
Corrado, prima di salutare, mise di nuovo mano al portafogli. Ma, ancora una volta, il vecchio lo fermò.
- È stato un onore, averla qui…
- Buon Natale, allora…
- Buon Natale a voi.
Lorenzo, infreddolito, si stringeva tutto nel cappotto. Guardava a terra, leggermente incurvato, e sembrava assente.
- Brave persone, - disse, salendo sull’auto.
Corrado, girando la chiavetta dell’accensione, attese.
L’auto, questa volta, si mise subito in moto.
Lasciarono lo spiazzo. E, dopo una curva e un incrocio, affrontarono la discesa.
Gabriele, sdraiato, vide l’enorme, scura mole della basilica roteare, per lunghi istanti, sulla sua testa, e scomparire.
L’auto, scendendo, cominciava a prendere velocità.
Intorno, da entrambi i lati della strada, scorrevano le case.
Le porte, le finestre erano chiuse. Non si vedeva anima viva.
-